La parola normalità evoca nella mente dell’uomo l’idea di qualcosa di usuale, che non ha in sé nulla di eccezionale. A volte il termine viene usato in senso negativo, con un’accezione che sfiora quella di banale, mediocre, contrapponendolo a ciò che invece – in quanto fuori dal comune – sembra spettacolare e degno di nota. Ma come stanno davvero le cose?
In un’epoca liquida e mediatica come la nostra, in cui è sempre più facile entrare in contatto con informazioni e contenuti di vario genere, ma anche con avvenimenti riguardanti la vita altrui (si vedano i social network), il desiderio di stupore e la voglia di distinguersi sembrano toccare chiunque.
Osserviamo potenziali stelle dello spettacolo nei talent show, ci confrontiamo con nostri coetanei o compaesani che hanno un numero di followers esorbitante, bramiamo le affascinanti auto che ci vengono mostrate nelle pubblicità televisive. Guardiamo sempre in là, in avanti, in attesa di un salto di qualità, di una svolta che ci trasformi da semplici cittadini a uomini o donne del domani.
Tali esperienze creano un terreno ideale per far germogliare la competitività che pervade la società in cui viviamo. I successi o i fallimenti altrui toccano direttamente la nostra persona, in particolare in ambito lavorativo. In un mondo saturato dal mercato e dal denaro, esercitare la propria professione significa quasi sempre farsi notare, gareggiare, essere migliori di qualcun altro. Ecco che le buone idee o i risultati positivi raggiunti dagli altri divengono motivo di gelosia, rabbia, recriminazione, mentre i loro errori occasione per migliorare la nostra posizione. Non c’è posto per l’ammirazione, per un sincero applauso e per il riconoscimento di un valore che sia altro da quello economico. In tal modo persino le relazioni affettive divengono una competizione, una prestazione da documentare ed illustrare tramite i social network; i successi personali si trasformano in una gara, sono validi solo se notati da qualcun altro, e si tenta oltretutto di generare invidia. In quello che cerchiamo, in ciò che ammiriamo e a cui aspiriamo, è sempre presente uno stato d’eccezione. Con tale termine si intende una situazione che va al di là del normale modo d’essere, oltre il comune vivere di ogni giorno. La extra-ordinarietà fa sentire migliori, differenti e unici, come se ci si potesse per un attimo elevare al di sopra di tutti gli altri. Ma se diviene competizione continua e diffusa, se si trasforma in un’inarrestabile guerra, perde anche la sua nobile essenza.
In mezzo a tutta questa agitazione, c’è ancora spazio per una pura eccezionalità? Una grandiosità vera, che non generi malumori, che ci lasci appagati anche se sbalorditi? Quella che troviamo nelle grandi imprese, negli eventi al limite del possibile, capaci di proiettarci al di fuori di una logica di necessità fisica e di stretta causalità, o comunque al di là dell’ordinarietà, della semplice e quotidiana esistenza.
La voce di Freddie Mercury emoziona ed incanta ancora oggi milioni di persone, al di là dei gusti musicali. Il talento di Michael Jordan, capace di danzare in volo e di vincere tutto ciò che un giocatore NBA potesse vincere, ha ispirato ed entusiasmato generazioni di giovani cestisti. Gli scritti di Platone – a distanza di due millenni – sembrano parlare alla nostra contemporaneità.
Ma oltre ai grandi performer e pensatori, anche l’immensa forza della natura riesce ad impressionarci: Kant parlava di sublime, e non esagerava. Basti pensare alla magnificenza
dell’aurora boreale, alla cruda potenza di un uragano o all’enigmatica profondità degli oceani. L’esperienza della grandiosità ci trasporta in una dimensione che poco sembra avere a che fare con
la realtà e con la vita di ogni giorno; è una pausa dalla normalità, come se all’interno della lineare temporalità che normalmente viviamo si aprissero degli istanti di eternità.
Ci sentiamo avvolti, rapiti, e proviamo emozioni anche contrastanti: attrazione, incapacità di reagire, incomprensione, ammirazione. Sentiamo di non essere all’altezza di ciò che stiamo vivendo,
ma al contempo siamo grati di farne parte, in qualche modo.
La purezza che riusciamo a trasmettere nell’esperienza del sublime sembra quasi impossibile in ogni altro contesto della nostra vita, ma dovrebbe insegnarci almeno due cose.
In primo luogo deve ricordarci che siamo sì emozionati e coinvolti dagli stati d’eccezione e dalla straordinarietà, ma essi hanno senso solo se rapportati ad una quotidianità vissuta in modo costante e consapevole. Questo sia perché, pur affascinati dall’eccezione, è nella normalità e nella regolarità che costruiamo – un po’ alla volta – ciò che siamo; sia perché la straordinarietà non richiede telecamere puntate addosso ed esibizioni al limite del possibile. Nella vita di tutti i giorni esistono momenti più o meno frequenti che portano con sé stupore e grande bellezza: un gesto di gentilezza da parte di uno sconosciuto, la possibilità di imparare qualcosa di nuovo, la presenza di chi si ama, il sacrificio e la fatica fatti per qualcosa in cui si crede. E la loro candida semplicità chiede di essere protetta, non gettata sull’aspro terreno della competizione e della forzata visibilità.
In secondo luogo non si deve dimenticare che la vera grandezza, quella che sa riempire fino all’orlo il nostro cuore, non abbisogna di nulla che si possa comprare. La felicità e la bellezza sono democratiche, ma necessitano di uomini e donne volenterosi, che le sappiano riconoscere e testimoniare in modo onesto, anche senza essere sotto i riflettori.
Possiamo essere incredibili anche nelle piccole cose, semplicemente imparando a realizzarle con uno spirito diverso. Per quanto riguarda i grandi – coloro che si sono distinti nello sport, nel sapere, nella musica o in altro – essi resteranno motivo di ammirazione, e non di odio reciproco, nella misura in cui avranno vissuto la loro straordinarietà come il risultato di impegno e sacrifici, o come un dono da mettere a disposizione di un valore più grande. In confronto ad essi, la popolarità mediatica e la ricchezza appaiono davvero poca cosa.
13 febbraio 2019