Ci ritroviamo spesso a lamentare un costo eccessivo davanti all'etichetta di molti prodotti e a gioire all'arrivo degli sconti. A osservare bene il mondo distante da noi anche migliaia di kilometri ci lamenteremmo ancora di un prezzo troppo alto? Aspetteremmo ancora con trepidazione sconti su prezzi già scontati?
Chi si ricorda “Ok il prezzo è giusto”? Forse alcuni sì, per chi invece non ha fatto in tempo a conoscerlo o proprio non si ricorda, si sta parlando di un noto show televisivo nato negli States e in seguito mandato in onda in Italia sulle reti del biscione fino al 2001. Il concorrente per vincere il gioco nelle varie manche doveva sostanzialmente indovinare il valore in denaro di uno o più prodotti proposti, che poteva poi portarsi a casa oltre ad una somma del vecchio conio non indifferente qualora avesse avuto buon fiuto.
Era una trasmissione molto seguita e continuò ad occupare gli schermi per molti anni senza mai accorgersi della menzogna che viveva ogni serata, quella che di fatto ancor oggi continua a vivere praticamente tutta l’umanità: il giusto prezzo dei prodotti. Ovviamente quello a cui pensavano gli inventori del gioco era semplicemente il prezzo imposto dal mercato ma appunto proviamo a cogliere le parole del titolo come uno stimolo per pensare criticamente sulla sua eticità alla luce di una considerazione. Riflettendoci, l'essere giusto è una gran pretesa, come sappiamo questo concetto ha in sé un significato ampissimo che chiama in causa un sistema valoriale da definire prima di essere verificato, nulla a che vedere evidentemente con l’accezione molto più corrente di “corretto”, se si può usare questo sinonimo, che il conduttore del programma intendeva.
Nel momento in cui considerassimo il giusto nel suo pieno significato avremmo la possibilità di chiederci se il prezzo di mercato sia effettivamente giusto. Come detto prima, a questo punto viene coinvolto tutto: il prodotto ha una sua storia, e questa, almeno per quanto riguarda il prezzo che paghiamo per averlo, inizia dalle materie prime di cui è fatto e finisce nelle nostre mani davanti al banco, o, negli ultimi anni, sull’uscio di casa. Insomma potremmo dire che il suo valore monetario si costruisce, variando e rifinendosi, attraverso tutte le lavorazioni e gli scambi che intercorrono all’interno di questa storia partendo proprio dall’approvvigionamento del materiale di partenza. Ciascuna delle fasi necessarie ad ottenere il prodotto finito impone dei costi che devono essere in ultima istanza superati al momento del pagamento da parte del consumatore, altrimenti tale prodotto non può più essere considerato economicamente conveniente per chi lo vende ma anche per chi contribuisce alla sua produzione. Proprio in questa dinamica potremmo individuare la criticità di definire il giusto prezzo di un prodotto.
Proviamo a pensare che tutti i costi che prevede quella che abbiamo chiamato storia del prodotto debbano essere inseriti nel conto e che il prezzo che si possa stabilire giusto sia la sintesi di tutti questi costi. Ne deriva che si debbano considerare i costi dei macchinari e dell’energia per il ricavo e per la lavorazione del grezzo a diversi livelli successivi, quelli del trasporto, quelli relativi al monteore impiegato dai lavoratori, poi quelli del marchio, delle imposte e così via, ma soprattutto, i costi ambientali e sociali della produzione, anzi, fin dal principio, del ritrovamento delle materie prime.
In realtà cominciamo a ragionare in questi termini solo da pochissimo tempo, accorgendoci che nessuno che abbia beneficiato di una gran disponibilità di beni (in generale i paesi sviluppati) ha mai coperto questi costi, siano essi per una filiera il più possibile sostenibile ed equa o, in mancanza di questi, per gli effetti disastrosi su ambiente e società locali e talvolta mondiali, presenti e soprattutto future.
Per fare un esempio, il prezzo di ferro, nickel e rame ricavati dalla lavorazione dei giacimenti di Corrego do Feijao in Brasile dove poco tempo fa si è consumato l’immane disastro ambientale e umano che tutti abbiamo osservato in tv, è manchevole del 20% (circa) in più di costi legati alla messa in sicurezza della diga che è poi crollata o all’adozione di tecniche più sicure per lo stoccaggio dei fanghi e delle sospensioni tossiche. In poche parole si preferisce correre il rischio di causare un disastro ambientale, a cui seguono importanti sanzioni, piuttosto che investire in tecnologie più sostenibili; nulla di nuovo visto che già nel 2015 nella stessa regione si era verificato un incidente analogo, dove i milioni di metri cubi sversati erano stati però 13. In questo modo i costi di prevenzione si tramutano in costi di riparazione - comunque solo parziale, un territorio devastato per kilometri, decine di vittime e dispersi non si compensano con denaro - a danni immani, e in ogni caso non sono inclusi nel prezzo finale che troviamo scritto sull’etichetta. Questa osservazione possiamo allargarla al coltan estratto in Congo, alle coltivazioni di olio di palma che stanno sostituendo ettari di foresta pluviale nel sud-est asiatico, alla deforestazione che il nuovo governo del Brasile incentiva, alle manifatture sottopagate nei paesi di nuova industrializzazione e così via.
A conti fatti quindi, la cifra che sborsiamo non è quella che deriva da un sistema produttivo e di scambio che tenga in considerazione anche aspetti estranei ad una logica di ricavo immediato e incontrollato, come la ricerca ad un basso impatto ambientale, l’attenzione a componenti critici di un ecosistema, il rispetto per la dignità della popolazione locale e tutti i lavoratori inseriti nella storia del prodotto, e in fin dei conti l’amore verso una futura umanità: questo sarebbe un sistema giusto con un prezzo giusto.
Se è vero il fatto che in tempi di globalizzazione totalizzante le distanze temporali si riducono, automaticamente quelle fisiche aumentano, e con esse la parcellizzazione di produzione e lavorazione, tant’è che cominciamo a preoccuparci della tracciabilità dei prodotti. La sensazione che avvertiamo fermandoci a ragionare qualche secondo su queste dinamiche è quella di essere inseriti in un mercato globale nero, ufficiale ma allo stesso tempo clandestino, una complessa rete di scambi che ha un inizio non ben definito, soggetto ad un principio di indeterminazione quasi angosciante.
Come ogni mercato nero che si rispetti i suoi prezzi sono inferiori a quelli del mercato legale dal momento che i costi e le tassazioni sono inferiori, quelli di cui si parlava prima, per intenderci, il tutto a danno di chi non è cliente di questo mercato, sempre che esista. Perché un’altra sensazione è quella che, fatte alcune eccezioni per chi è rimasto sempre isolato volontariamente o per fato dal Nuovo mondo, bene o male un po’ tutti ci siano dentro, più o meno di altri ma ad ogni modo partecipi di questo grande sistema di sconti e offerte.
Ma cosa succede quando il mercato nero rimpiazza quello ufficiale che permetteva la sua esistenza? Finisce per ledere se stesso, diventa insostenibile, i danni che procurava ai suoi estranei scomparsi li rivolge necessariamente a tutti i suoi partecipanti, non avendo più il supporto che in parallelo agisce nella legalità. Ecco che il nostro mercato globale ci procura disastri ambientali e problematiche sociali, schivati solo da realtà marginali che veramente tentano di operare con gran fatica nel rispetto di questo Pianeta e dei suoi abitanti e che sono un’alternativa legale a cui bisognerebbe guardare per uscire da quella che è solamente un’illusione da show televisivo di prima serata.
20 febbraio 2019