Su un piccolo grande punto parrebbero proprio andare d’accordo: ossia sull’esclusione di ogni eticità del rapporto tra gli Stati.
Penso che nel battibecco tra Guy Verhofstadt e Giuseppe Conte si siano scontrate, se pur in maniera grossolana e al peggio delle loro possibilità stilistiche e retoriche, due opposte concezioni della politica europea, che tuttavia nel loro risultato vengono stranamente a convenire.
Da una parte c’è un governo – quello italiano – che, sia pur malamente o inconsapevolmente, vuol tornare a far valere certe ragioni del “vecchio” Stato etico, nel senso per cui lo Stato dev’essere “generatore dell’etica nel suo interno” (P. Carabellese, L'idea politica d'Italia, 1946, p. 181); e, dopo tanto caos e scorribande che han portato sull’orlo del baratro, intende farla finalmente rispettare (che poi tale etica e i modi attraverso cui farla rispettare siano discutibili è un altro paio di maniche: quel che conta è l’esigenza). Fatto sta che nei confronti dell’Europa, la quale sicuramente finora ha avanzato pretese economiche che sono risultate fin troppo strette ai cittadini, questa concezione si pone in termini di netto rifiuto, disinteressandosi così dell’etica “all’esterno” dello Stato stesso: della serie che è giusto per noi quel che noi scegliamo per noi e al di fuori dei nostri confini la stessa distinzione tra giustizia e ingiustizia decade. In questo, sì, hanno ragione certi critici nell'intravedere delle affinità con le passate politiche fasciste, almeno in linea di principio: è una sorta di super-soggettivismo politico o una strana forma di “individualismo statale” (chiamatelo come vi pare).
Dall’altra parte, però, c’è una concezione della politica e del rapporto tra gli Stati – quella che si autodefinisce “liberale” ed è dichiaratamente europeista – la quale pretenderebbe sostituire alla politica “generatrice dell’etica” una politica “amministratrice della finanza”, cioè senza etica. Di questa deriva del liberalismo è stato ahimè in qualche modo colpevole il grande Benedetto Croce, che notoriamente riduceva la politica alla “scienza mondana” dell’economia e lo Stato a “nient’altro che un processo d’azioni utilitarie di un gruppo di individui” (Politica in nuce, Adelphi 1993, p. 188). L’etica, in questo caso, non sta né dentro né fuori; e tanto i rapporti tra i cittadini quanto quelli tra i popoli sono regolati dai conti in bilancio, che se non tornano debbono a rigore emettere le loro (non giuste, ma utili!) sentenze, che condannano tanto i cittadini quanto i popoli. Vedi il caso dei pastori sardi.
Come si vede, le due concezioni s’oppongono radicalmente. E infatti si prendono a male parole nelle aule assembleari. Va detto però che su un piccolo grande punto parrebbero proprio andare d’accordo: ossia sull’esclusione di ogni eticità del rapporto tra gli Stati. Insomma, o l’etica è solo affar mio o non è: soggettivismo di Stato contro relativismo globale, che però vanno a braccetto quando c’è da volgere lo sguardo altrove di fronte a ciò che (sembra) non toccarli direttamente.
In entrambi i casi l’etica, che per essenza dovrebbe esserlo, non è né oggettiva né universale, e si riduce a un “affare privato”. Ma di certo non è su tali basi che potremo mai parlare di Europa (fosse pure dal punto di vista dei sedicenti europeisti): infatti, perché i popoli si rispettino vicendevolmente e collaborino con sincerità d’intenti si dovrebbe presupporre un principio che trascenda gli angusti limiti dei confini così come delle tabelle dei rendiconti finanziari. Siamo ancora troppo lontani da quella “alleanza di tutte le patrie” auspicata dal nostro Giuseppe Mazzini: la “Giovine Europa” deve ancora nascere.
15 febbraio 2019