"Cecità": il romanzo dell'assurdo

 

Una sperduta e anonima città affoga nell’oscurità di un male che sprofonda l’umanità dell’umano nell’assurdità del reale. L’affresco dell’uomo contemporaneo che, privato della sua abilità di vedere, non è più in grado di riconoscere se stesso o l’altro da sé: Cecità di Josè Saramago.

 

di Chiara Ortuso

 

Un semaforo, un’auto incapace di percorrere finanche qualche metro immobilizzata in una catena invisibile che ne blocca, d’improvviso, la corsa. Ed un uomo al volante che grida disperato la sua impossibilità di scorgere l’asfalto, di vedere i variopinti colori che si affollano intorno alla sua esangue sagoma. Cieco. Senza occhi. Senza cuore.

 

« Si sentì misero, sventurato che più non si poteva, cieco, cieco, cieco e senza riuscire a dominarsi cominciò a piangere silenziosamente. » (J. Saramago, Cecità, 1995)

 

Cecità, traduzione italiana di Ensaio sobre a Cegueira (Saggio sulla cecità), è il romanzo cult del portoghese Josè Saramago, premio Nobel per la letteratura, che in poco meno di trecento pagine, descrive uno scenario apocalittico di camusiana rimembranza, in cui sprofonda un’ignara cittadina annientata da un’epidemia, il “male bianco”, che sospende l’esperienza visiva, annichilendo l’esistenza confusa dei suoi abitanti catapultati in un incubo di morte e non senso. In un vortice di assurdità. Ed è proprio la dimensione dell’assurdo a fare da protagonista all’interno di pagine caratterizzate da dialoghi serrati, azioni interrotte, considerazioni taglienti mentre le maschere che si muovono tra le pieghe del testo combattono la guerra della sopravvivenza in un uragano post-bellico di soprusi, violenze, malvagità, egoismo, tristezza. 

 

« La notte era fredda, il vento spirava lungo la facciata dell’edificio, sembrava impossibile che nel mondo ci fosse ancora il vento, che fosse buia la notte, non lo diceva per sé, ma pensava a quei ciechi per cui il giorno durava per sempre. » (Ivi)

 

Unica eccezione a tale invisibile morbo, a questa epochè dell’anima, pare essere una donna, la moglie di un medico affetto, anche lui come tutti d’altronde, dalla cecità.  Unico “esemplare” di ciò che sembra restare di quell’umanità in grado di vedere, di scorgere una realtà che, giorno dopo giorno, sprofonda nelle sabbie mobili dell’indifferenza, del dominio, della prepotenza, dell’arroganza.  

 

« Responsabilità di cosa. La responsabilità di avere gli occhi quando gli altri li hanno perduti. » (Ivi)

 

E il vuoto di giustizia, di valori umanitari e societari si manifesta a partire da un governo assente, a cominciare da un potere politico che impone comandi attraverso lontani sistemi metallici, intimando “un ordine da quarantena” a chi ha perso ogni tipo di percezione visiva ed, insieme, il diritto di essere uomo. 

 

« La moglie del medico comprese che non aveva più senso, se mai lo aveva avuto, continuare in quella finzione di essere cieca, ormai è chiaro, nessuno potrà salvarsi, la cecità è anche questo, vivere in un mondo dove non ci sia più speranza. » (Ivi)

 

Così, privi di nomi che ne definiscano l’identità, spogliati della dignità di persone libere e capaci in grado di decidere responsabilmente del loro destino, la massa di ciechi viene rinchiusa nei ghetti di strutture alienanti, fantasmagoriche metafore dei castelli di kafkiana memoria, dei “non luoghi” naviganti in oceani di solitudini, in fiumi di rancore. 

 

« Adesso rimane da decidere dove li metteremo, signor ministro, disse il presidente della commissione logistica di sicurezza che avrebbe dovuto incaricarsi del trasporto, isolamento e rifornimento dei pazienti. Abbiamo un manicomio vuoto, sfitto, in attesa di destinazione, alcune installazioni militari non più utilizzate a seguito della recente ristrutturazione dell’esercito, una fiera industriale in avanzata fase di completamento, e c’è inoltre un ipermercato in fallimento. » (Ivi)

 

I “ciechi” iniziano, pertanto, la loro routine di forzata comunità tra pasti mancati, amori impossibili, crimini atroci, mentre le notizie che penetrano dall’esterno perdono sempre di più consistenza come i volti che li osservano dalle cancellate di carceri ombrose, di prigioni erette dove un tempo splendeva il sole. Poi un incendio, la necessità di fuggire guidati dagli unici occhi ancora in grado di vedere. La banda cieca procede in prossimità di strade trasformate in cimiteri a cielo aperto, tra brandelli di carni in decomposizione, fra grida di anime alla ricerca dei generi di prima necessità, nel mezzo di mani che cercano trovando solo polvere, scheletri. E le case assumono l’aspetto di gabbie polverose, svuotate, private dal calore che emana la famiglia quando, felice, si riunisce nelle sue giornate di gioia, di amore, di vita. 

 

« Ad un cieco gli si dice. Sei libero, gli si apre la porta che lo separava dal mondo, Vai sei libero, gli ripetiamo, ma lui non va, se ne sta fermo lì in mezzo alla strada, lui e gli altri sono spaventati, non sanno dove andare, è che non c’è paragone tra il vivere in un labirinto razionale, come lo è per definizione un manicomio, e l’avventurarsi, senza la guida di una mano né il guinzaglio di un cane, nel labirinto demenziale della città, dove la memoria non servirà a niente, poiché riuscirà solo a mostrare l’immagine dei luoghi e non le vie per arrivarci. » (Ivi)

 

Il ritorno a casa assume i contorni di un esodo impossibile per queste larve, spettri che continuano ad uccidersi silenziosamente tra le vie di una città infernale. Persino la Chiesa, luogo di ristoro e di conforto, diventa palcoscenico dell’orrore di un’umanità divenuta cieca e in fuga da se stessa, un’umanità in grado di bendare i volti delle effigie sacre, delle statue di santi e madonne cieche anche esse in un’eresia di incomprensione e lacrime. 

 

« La lancetta della sintonia continuava a cavar rumori dalla piccola cassa, poi si fissò, era una canzone, una canzone qualunque, ma i ciechi si avvicinarono lentamente, non si spingevano, si fermavano appena sentivano una presenza davanti a sé e stavano lì a sentire, con gli occhi bene aperti in direzione della voce che cantava, alcuni piangevano, come probabilmente soltanto i ciechi possono piangere, semplicemente lacrime che scorrevano, come da una fontana. »  (Ivi)

 

Tuttavia nelle stanze del dolore e della mancanza sboccia un sentimento di passione tra un anziano cieco e una dolce, avvenente fanciulla, sugello di una speranza che, sospesa, sopravvive, malgrado tutto, tra i lampi di un reale che nel bel mezzo dei suoi brandelli ritrova, per qualche istante, una fessura da cui emergere, in cui tornare ad esserci.

 

« Ebbero questa conversazione faccia a faccia, gli occhi ciechi dell’uno fissi negli occhi ciechi dell’altra, i visi infiammati e veementi, e quando per averlo detto uno di loro ed averlo voluto entrambi, convennero che la vita aveva deciso che si mettessero a vivere insieme, la ragazza dagli occhiali scuri tese le mani, solo per offrirle, non per sapere dove andava, sfiorò le mani del vecchio dalla benda nera che la strinse dolcemente a sé, e rimasero seduti così, vicini. » (Ivi)

 

Poi, d’improvviso la pioggia accoglie il ritorno all’esistenza per chi conduce da tempo un cammino di privazione, di bisogno, di mancanza. Ed il sorriso si accende tra spruzzi di allegria.

 

« Nessuno può immaginare che lassù ci sono tre donne nude, nude come sono venute al mondo, sembrano matte, devono essere proprio matte, nessuno con la testa a posto andrebbe a lavarsi su un balcone esponendosi agli sguardi dei vicini, cosa importa che siano tutti ciechi, certe cose non si devono fare, mio Dio, la pioggia come scorre sui loro corpi. […] Forse le abbiamo giudicate male ingiustamente, forse siamo noi ad essere incapaci di vedere ciò che di più bello e glorioso è mai accaduto nella storia della città. » (Ivi)

 

In tal modo, in una giornata di fumo e polvere, una di quelle in cui il terribile odore della fine si attacca addosso senza scrollarsi in alcun modo, gli uomini ritornano a vedere. Uno alla volta, ognuno di essi a distanza di poco tempo. È finalmente rinascita, è nuovamente luce. E tuttavia, è una resurrezione amara quella prospettata dalla conclusione di Cecità, un ritorno alla vita ingiustificato, incomprensibile. E mentre i personaggi continuano, sorpresi ed increduli, ad interrogarsi sulla ragione che ha offuscato loro la vista, l’umanità ricomincia ad arrancare, intorpidita, tra lande di desolazione e solipsismo, offuscata da perversi desideri, ottenebrata da scuri presagi. Cieca di stelle e di bellezza.

 

« Perché siamo diventati ciechi. Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione. Vuoi che ti dica cosa penso, Parla. Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono. » (Ivi)

 

10 gennaio 2019

 




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