Gli intellettuali dei popoli europei hanno reagito alle devastazioni novecentesche con decine di scritti e pensieri dal triste sapore relativista, promettendosi che certe cose non le avrebbero più commesse. Proprio come coloro che passeggiavano fra le vie dell’Expo immaginando un secolo luminoso e democratico, si è auspicato che il progresso scientifico rendesse migliori le vite di tutti, non comprendendo che né il relativismo, né la tecnologia possono salvare alcunché.
L’animo dei visitatori dell’Esposizione Universale del 1900 era ricolmo di gioia nell’assistere a tanto progresso e fratellanza fra gli Stati, che riunivano e confrontavano in ciascun padiglione tutte le scoperte che avrebbero cambiato il volto del nuovo secolo. L’enorme porta d’ingresso recava un’allegoria della città di Parigi e doveva simboleggiare un «arco trionfale della democrazia». La Torre Eiffel, illuminata a giorno, ricordava il lume della ragione e della sapienza di contro alle tenebre dell’ignoranza e della superstizione. I magnati americani come W.R. Hearst benedicevano l’avvento delle nuove tecnologie, che avrebbero permesso a tutti un miglioramento delle condizioni di vita, dai padroni per cui «guadagnare più del loro nonno» non era ancora abbastanza e per i lavoratori che avrebbero finalmente raccolto qualche briciola in più; ma non solo: probabilmente tutto ciò avrebbe segnato, secondo le previsioni, persino la fine delle guerre.
Sulla medesima falsariga si ponevano i discorsi dei ministri, fra cui il francese Alexandre Millerand:
« L’incontro pacifico dei Governi del mondo non resterà sterile. Io sono convinto che, grazie all’affermazione perseverante di certi pensieri generosi di cui ha risuonato il secolo che finisce, il XX secolo vedrà rifulgere un po’ più di fraternità e un po’ meno di miserie di ogni ordine e che ben presto avremo varcato uno stadio importante nella lenta evoluzione del lavoro verso la felicità e dell’uomo verso l’umanità. » (Discorso inaugurale all’Expo 1900)
Come andò poi a finire lo sappiamo tutti. Possiamo rapidamente risalire alle cause un po’ più celate, che mostrano come tutto ciò fosse certamente quello che, onestamente, gli uomini d’allora pensavano, ma testimoniano anche, più di ogni altra cosa, la tremenda incoerenza che li contrassegnava. Solo uno sciocco, conoscendo lo spirito del tempo, poteva aspettarsi un avvenire radioso.
Con l’ingresso in parlamento del primo socialista riformista, segnatamente nel 1899 in Francia, quando Millerand accolse l’incarico di Ministro del Commercio, Rosa Luxemburg rabbrividì. Egli infatti, checché ne dicesse, sedeva al fianco di un certo generale de Galliffet, ora Ministro della Guerra, nientemeno che colui che aveva prontamente schiacciato l’esperienza comunarda a Parigi. «Ironia della sorte, forse il sangue dei lavoratori francesi non è mai stato così spesso sparso che durante il governo “socialista” di Waldeck-Rousseau», tuonava la rivoluzionaria tedesca (L’unificazione dei socialisti francesi, 1905).
Dietro le quinte, infatti, Millerand spiegava come la solidarietà universale e tutte le belle parole spese in occasione dell’Esposizione Universale non significassero altro che il bisogno di appropinquarsi ai «vicini» per conoscerli e «trarvi profitto», o per non farsi divorare da costoro nel caso decidessero di attaccare «per la propria conservazione o per assicurarsi il proprio sviluppo» (cit. in E. Gentile, Apocalisse della modernità). Un clima che non era certo di pace, ma di concorrenza di mercato, imperialista, che vedeva gareggiare le nazioni europee per un posto sul podio della miglior potenza. Questo si rifletteva persino nella disposizione dei padiglioni all’Expo: non erano vicini Spagna e Stati Uniti, rivali coloniali nell’America centrale, né Giappone e Cina, separati fisicamente da un'installazione con a tema l'Antico Egitto. Si scorgeva altresì nelle mostre, molto comuni e frequenti, in cui erano rappresentati degli ambienti africani con tanto di abitanti in carne e ossa. Per inciso, solo il Partito Comunista Francese, nel 1931, mise in scena una contro-mostra intitolata La verità delle colonie, in cui si denunciava tutta la retorica democratica e la brutalità che invece muoveva i conquistatori.
La corsa alle colonie era già iniziata da tempo, sia per lo sbocco dei capitali dopo la Grande Depressione sia per la rincorsa al predominio europeo sulle civiltà “barbare”. Mentre era in corso l’Expo, la Gran Bretagna era in guerra contro i boeri, colpevoli di voler restare indipendenti, che vennero umiliati e rinchiusi in campi di concentramento. Nello stesso momento Stati Uniti e Giappone, a cui poi si aggiunsero truppe italiane, francesi, austriache, inglesi e russe, lottavano contro i boxers cinesi, che, schifati dai metodi brutali di cattolici e gentili, si ribellavano a coloro che passavano sopra ogni volontà popolare per insediarsi nelle amministrazioni, costruire ciò che serviva loro per il commercio, “cristianizzare” le masse. In quel frangente, il Kaiser Guglielmo II aveva auspicato: «così ora, per virtù vostra, il nome di “tedeschi” possa affermarsi per mille anni in Cina, affinché un cinese non osi mai più guardare negli occhi un tedesco» (cit. in E. Gentile, ivi). Il continente africano era soggiogato, e ovunque l’europeo passasse lasciava dietro di sé massacri e violenze d’ogni sorta, spinto dal forte razzismo che permeava allora gli uomini più “colti” e “intelligenti”, tanto quelli reazionari quanto i progressisti. Addirittura, nei paesi dell’America latina si fece avanti la credenza per cui la civilizzazione di quelle terre sarebbe dipesa dal progressivo imbiancamento – l’arianizzazione – delle popolazioni locali. Erano gli stessi anni in cui nell’Europa moderna e democratica, ma anche negli Stati Uniti d’America, avanzava lo spettro dell’antisemitismo, già fortissimo nelle zone orientali del Vecchio Continente.
Questa fame di terre e di denaro, condita dallo sciovinismo più becero, era il leitmotiv della civiltà d’inizio secolo. Proprio da questo si rivela il volto violento che si sarebbe fatto innanzi nei decenni a venire, attraverso i pogrom, il militarismo, il fascismo e tutto ciò che il Novecento portò con sé. Eppure noi, gli uomini dell’inizio del secolo successivo, non siamo così differenti da loro, e ci distanziamo dai nostri avi più per qualche piccola caratteristica praticamente ininfluente nello scenario globale, che per un effettivo e consistente progresso civile. Le guerre per l’oro avvengono anche oggi, e, proprio come allora, quando le popolazioni locali non sono disposte a collaborare alla causa del profitto, si giustificano le invasioni armate in nome di un qualche principio fasullo, colpendo qualche malcapitato definito un “barbaro” da annientare. Si invade, si annienta perché i capitalisti possano avere nuovi sbocchi di mercato, per sopravvivere alla concorrenza di altri Stati o monopoli. Si distorce un poco la verità a seconda di quel che fa comodo, in modo da cascare sempre in piedi con qualche giustificazione pronta, e si tace tutto ciò che potrebbe intralciare i piani. Non c’è alcun tipo di fratellanza fra i popoli, né fra i governi, e lo sciovinismo ritorna a farsi largo prepotentemente, proprio come allora.
Gli intellettuali dei popoli europei hanno reagito alle devastazioni novecentesche con decine di scritti e pensieri dal triste sapore relativista, promettendosi che certe cose non le avrebbero più commesse. Proprio come coloro che passeggiavano fra le vie dell’Expo immaginando un secolo luminoso e democratico, si è auspicato che il progresso scientifico rendesse migliori le vite di tutti, non comprendendo che né il relativismo, né la tecnologia possono salvare alcunché. È anzi proprio il relativismo ad accecare le masse, che, finalmente libere di “fare ciò che vogliono”, non si costringono mai a una riflessione coerente e scientifica, e al primo dubbio si lanciano con faciloneria verso la soluzione più superficiale, magari rifugiandosi nell’“antipolitica” (di cui si faceva portavoce il fascismo, peraltro), o affidandosi ai partiti tradizionali senza avvedersi delle contraddizioni che ne permeano parole e fatti. Nessun pensiero è mai realmente cambiato dal secolo scorso, né il modus operandi ha mutato forma. Così i problemi generati dal marcio sistema delle democrazie capitaliste (un ossimoro!) divengono un problema di immigrazione o di eccessiva tassazione alle imprese; il problema dell’Europa Unita in salsa imperialista diventa una questione di ritorno al sovranismo contro la Germania o di spread e di mercato; il problema del colonialismo in versione moderna si tramuta nel mostro Assad da combattere, sia pur finanziando e appoggiando i gruppi terroristi che permetterebbero poi alle potenze “avanzate” e “democratiche” di installare tutte le costruzioni che vogliono per poter implementare i loro affari economici.
Tutto è come ieri, prendiamone atto.
31 dicembre 2018
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