La proprietà privata, dogma funesto del capitalismo

 

Una delle contraddizioni, ormai nemmeno più tematizzata, che sta alla base dell'attuale ordinamento mondiale consiste nell'affermare da un lato la meritocrazia, dall'altro la proprietà privata così come concepita dal capitalismo.

 

Il privato deriva dal pubblico, inequivocabilmente. Se la sovranità appartiene al popolo e ogni articolazione dei diritti e doveri risiede nel consenso della comunità politica sovrana, allora anche il diritto alla proprietà privata ha il suo fondamento nel pubblico. È la comunità a riconoscere cosa debba spettare in gestione a ciascun cittadino: la gestione della cosa pubblica è la gestione di ciò che è stato ideato dal pubblico, ovvero dalla volontà della comunità politica sovrana; come la gestione del privato è parimenti la gestione di ciò che è stato creato dalla autonoma iniziativa del privato, ma sempre sulla base della volontà popolare. L'indipendenza del privato, la sua libertà di manovra, è conferita dalla comunità politica come beneficio al contempo del privato e del pubblico: del privato in quanto voluto dal pubblico e del pubblico in quanto si esprime nel privato.

 

Privato non significa allora indipendente dalla comunità, ma dipendente in un modo peculiare: la comunità riconosce che quel privato meglio conosca e meglio sappia gestire l'attività che egli stesso ha creato per la comunità. Lo spiegava bene Adam Smith in questo passaggio della sua celebre opera La ricchezza delle nazioni (1776):

 

« È evidente che ognuno, nella sua condizione locale, può giudicare molto meglio di qualsiasi uomo di Stato o legislatore quale sia la specie d'industria interna che il suo capitale può impiegare e il cui prodotto avrà probabilmente il massimo valore. L'uomo di Stato che dovesse cercare di indirizzare i privati relativamente al modo in cui dovrebbero impiegare i loro capitali non soltanto si addosserebbe un'autorità che non solo non si potrebbe affidare tranquillamente a nessuna persona singola, ma nemmeno a nessun consiglio o senato, e che in nessun luogo potrebbe essere più pericolosa che nelle mano di un uomo abbastanza folle e presuntuoso da ritenersi capace di esercitarla. »

 

L'attività del privato in quanto rivolta alla comunità deve rappresentare un valore per essa e, qualora non lo rappresentasse, essa comunità sarebbe chiamata a riconoscerla come un delinquere, come un danno per se medesima. L'attività privata rappresenta dunque un valore per la comunità, che è merito ed onere gestire da parte di chi l'ha creata.

 

 

Ogni privato che sia sottratto a questo rendere conto del valore che sta coltivando è un assurdo: proprio perché concepisce la sua attività indipendentemente da ciò che essa porta alla comunità. È ciò che precisamente accade nel capitalismo, dove lo scopo dell'attività non consiste nello sviluppare un valore pubblico, da cui e per cui si origina; ma nella produzione di profitto, di denaro privato, fine a se stesso.

 

Nel capitalismo non si ritiene che il denaro accumulato sia del privato perché rappresenti il successo del valore creato, che avrebbe il merito e l'onere di dover continuare a gestire e sviluppare; ma perché frutto delle sue fatiche e del suo ingegno, e quindi suo, slegato da quel rapporto con la comunità che originariamente rende legittima la sua autonomia, la sua impresa e il suo profitto. Valgono qui le parole impiegate, anche se con scopi diversi, da Joseph-Marie de Maistre nel Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche (1814):

 

« Noi ci inganniamo su questo punto a causa di un sofisma così naturale che sfugge del tutto alla nostra attenzione. Poiché l'uomo agisce, egli crede di agire soltanto, e poiché ha la coscienza della sua libertà, dimentica la sua dipendenza. Nell'ordine fisico intende ragione, e sebbene possa, per esempio, piantare una ghianda, innaffiarla, ecc., è capace tuttavia di convenire che non è lui a fare le querce, poiché vede l'albero crescere e perfezionarsi senza che il potere umano vi abbia parte, e poiché, d'altra parte, non è stato lui a fare la ghianda; ma nell'ordine sociale, in cui è presente e operante, si mette a credere di essere realmente l'autore diretto di tutto ciò che si fa per suo mezzo: in un certo senso, è la cazzuola che si crede architetto. »

 

Da un lato, dunque, il merito che l'imprenditore ha guadagnato con il successo è ciò che lo rende il più legittimato a proseguire e sviluppare l'attività intrapresa. Dall'altro, il carattere pubblico del proprio lavoro è ciò che impedisce di impoverire e sfruttare quella comunità politica da cui in realtà dipende e in virtù della quale è stata conferita l'autonomia privata. Rimane allora del tutto incomprensibile perché della ricchezza e del senso di quell'attività il privato possa disporre arbitrariamente, cioè a danno della comunità politica ovvero a beneficio del suo patrimonio e di quello dei suoi eredi. Se il suo merito consiste nel valore per la comunità politica che essa stessa gli ha consentito di sviluppare, perché il privato dovrebbe essere nelle condizioni di depauperare quel valore e magari di intaccarne altri? Se la sua autonomia da privato consiste nel merito guadagnatosi con il successo per la comunità, perché di quell'autonomia dovrebbe beneficiare chi non ha dimostrato nessun merito, ma che solo si è trovato ad essere figlio, parente, complice?

 

Nulla di più assurdo, allora, che concepire la propria libertà come il poter disporre del proprio patrimonio, sempre e comunque, senza una ragione che sia veramente tale, cioè, in ultima analisi, pubblica. Così, certamente le disuguaglianze sono fondamentali – se provengono dalla capacità di distinguere ciò che è diverso, se individuano ciò che debba spettare a ciascuno, secondo il merito –, ma quando provengano da quella assurda libertà arbitraria minano le basi e il valore della comunità politica, della res publica.

 

« Se si cerca in che cosa consista precisamente il bene più grande di tutti, che deve costituire il fine di ogni sistema legislativo, si troverà che esso si riduce a due obiettivi principali: la libertà e l’eguaglianza. La libertà, perché ogni dipendenza è altrettanto forza sottratta al corpo dello Stato; l’eguaglianza perché la libertà non può sussistere senza di essa [...] quanto all’eguaglianza, non bisogna interpretare questo termine nel senso che i gradi di potenza e di ricchezza siano assolutamente gli stessi […], [ma nel senso] che nessun cittadino sia tanto ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi. » (J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, 1762)

 

4 gennaio 2019

 











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