Qualsiasi cosa possa collegare le coscienze sensibili sembra essere totalmente cancellato, oggi, da un mero calcolo utilitaristico, da una ragione computazionale che non include ma ingloba.
La chiave di volta, almeno così si dice, della filosofia hegeliana sarebbe la figura della coscienza infelice. La contraddizione interna all’Autocoscienza che si sdoppia tra Universale e Singolare. Essa proietta al di fuori di sé un’essenza assoluta, trascendente, in un al di là irraggiungibile in cui non può riconoscere se stessa. Nel fare questo la coscienza si condanna all’isolamento, all’identità colpevole, alla separazione dall’unità (dello Spirito, ossia del processo storico). E soffre per questo, si sente dilaniata, percepisce in sé che qualcosa non va perché non può conciliarsi con il divino. C’è un profondo e tangibile rischio di alienazione, di unilateralità, a questo punto, risolvibile soltanto con il proseguimento della dialettica – che non si arresta – con l’Anima bella. È con essa che il sapere e l’agire si rispecchieranno a vicenda. Il pensiero e l’azione finiranno per essere la stessa cosa, così come il particolare non può essere separato dall’universale. Afferma infatti Hegel:
« La coscienza infelice è la coscienza di sé come dell'essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione. Assistiamo così alla lotta contro un nemico, contro cui la vittoria è piuttosto una sottomissione: aver raggiunto un contrario significa piuttosto smarrirlo nel suo contrario. La coscienza della vita, la coscienza dell'esistere e dell'operare della vita stessa, è soltanto il dolore per questo esistere e per questo operare; quivi infatti come consapevolezza dell'essenza ha soltanto la consapevolezza del suo contrario, ed è quindi conscia della propria nullità. Da questa posizione essa inizia la sua ascesa verso l'intrasmutabile. » (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, capitolo IV, La coscienza infelice)
Ed ecco gli uomini, le coscienze: riconoscersi, tra individui scissi, significa rimanere indipendenti pur permanendo nello stesso insieme unitario. Non si tratta di negare la coscienza, ma di superare il dualismo fra il sapere e l'oggetto. Immanenza dell’assoluto, che non è più religione ma qualcosa di interno al mondo. Tollerare una certa dose di “frustrazione” – di infelicità – è parte integrante del processo sintetico, evolutivo, di progressione non soltanto nel senso di una consapevolezza interiore, personale, del sé ma anche della società intesa come insieme di individui distinti che si aggregano e cooperano per un fine comune.
Come si può realizzare unità senza scissione, oppure riconoscersi senza sentire nel proprio intimo la lacerazione da qualcosa di Altro, più elevato, assoluto? Che siano valori, religione, ideali. Qualsiasi cosa possa collegare le coscienze sensibili sembra essere totalmente cancellato, oggi, da un mero calcolo utilitaristico, da una ragione computazionale che non include ma ingloba. Il pesce grosso mangia il pesce piccolo. La voce più forte quella più flebile. Abbiamo smesso di rispecchiarci l’uno nell’altro per annegare in una pozzanghera che riproduce in maniera distorta il nostro riflesso, per urlare in un megafono che ripete soltanto vuote e risibili certezze acquistate al mercato della prevaricazione.
Egoismo, parcellizzazione, alienazione costante. Incomprensione e incapacità di ascolto sono le cifre che contraddistinguono modalità di vivere sempre più dis-aggregate, incapaci di creare non solo unità sociale, ma anche – ad un livello più basilare – comunità, ossia la condivisione di un milieu composto di storia, valori e modalità comunicative condivise.
L’ideale americano della ricerca della felicità – ovviamente solitaria e prevaricante – ha illuso (continua a illudere?) che potrà esserci un Eldorado per coloro che oseranno vivere all’altezza dei propri sogni. La livellazione delle coscienze – ormai ovattate e incapaci di percepire anche insoddisfazione, infelicità – è l’oppio più efficace contro eventuali sollevazioni, sovversioni dell’ordine (capitalistico) costituito e, almeno all’apparenza, quasi eternamente replicantesi.
Il tutto, per non progredire di un passo. Per non permettere alle persone di svilupparsi e ritrovarsi come comunità vibrante e storica, nel senso più hegeliano del termine.
Dio è morto. Non fa più paura. Non dà dolore. Non provoca nemmeno più.
La domanda, ad oggi, è: quanto vale Dio?
E soprattutto: crea profitto, Dio?
Così, lo Zarathustra nietzscheano, appena disceso dalla montagna e al suo ingresso in città annunciava alla folla cittadina, raccolta non a caso vicino al mercato:
« Finora gli esseri hanno cercato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflesso di questa grande marea e regredire alla bestia piuttosto che
superare l’uomo? […] Vi scongiuro, fratelli miei, rimanete fedeli alla terra e non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Si tratta di avvelenatori, che lo sappiano o
meno. […] Un tempo il peccato contro Dio era il peccato più grande, ma Dio è morto e quindi sono scomparsi anche i peccatori » (Friedrich Nietzsche, Così parlò
Zarathustra)
Non c’è più polo di attrazione trascendente, non c’è più timore reverenziale nei confronti dell’Assoluto, ma nemmeno il dubbio e la ricerca della verità (meta cui, almeno per Nietzsche, si può solo tendere per asintoto, continuando a sforzarsi senza mai raggiungerla).
In un modo o nell’altro, senza uno scopo decade la funzione stessa – immanente – di una progressione della vita comune.
Senza Dio non c’è ideale, senza ideale non c’è scissione all’interno della coscienza, senza scissione non c’è dolore e non c’è nemmeno l’infelicità che spinge a migliorare se stessi e il mondo.
Ritrovare la scissione, forse, potrebbe essere un modo per dire di nuovo: "Io che è Noi e Noi che è Io", secondo la lezione hegeliana.
29 gennaio 2019
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