Ci troviamo immersi in quella che viene definita l'estetizzazione del mondo. Siamo all'interno di una sorta di capitalismo artistico che possiede almeno due facce: da un lato sembra ridurre in maniera determinante la distanza tra il grande pubblico e l'esperienza estetica; dall'altro lato si fa promotore di una commercializzazione delle opere, che entrano a far parte di un circuito in cui ciò che conta è il successo economico. L'aura cede il passo al marketing con conseguenze che hanno un impatto sulla qualità della nostra esistenza.
di Melissa Trevisan
Queste righe prendono spunto a partire da una riflessione su alcune pagine presenti nel libro scritto da Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, dove l'estetica viene posta sotto la lente di ingrandimento per giungere a una diagnosi che rivela diverse sfaccettature.
Esaustiva nella sua essenzialità la considerazione per cui dopo, «l'arte-per-gli-dèi, l'arte-per-i-principi e l'arte-per-l'arte, trionfa adesso l'arte-per-il-mercato» (Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, L'estetizzazione del mondo. Vivere nell'era del capitalismo artistico).
Sin qui potremmo rimanere delusi e non cogliere delle grosse novità, giacché le opere e il commercio non sono sempre stati due mondi impermeabili, due monadi senza finestre e senza alcun intreccio. La loro relazione si consuma da tempo, anche se si possono contare fasi alterne. Negli ultimi anni si assiste tuttavia a qualcosa di diverso che ci costringe ad approfondire il senso di questo connubio: è in atto una vera e propria estetizzazione della quotidianità. Noi sembriamo davvero assetati di ciò che indifferentemente viene accompagnato dal termine “artistico” e la nostra brama viene soddisfatta nei modi più disparati, offrendo rifugio a persone di ogni età.
Questo fenomeno ha senza alcun dubbio una portata socio-culturale rilevante e, cavalcando una diffusa chiave di lettura, potremmo scorgere dinanzi a noi una ghiotta occasione: la possibilità, aperta a tutti, di assaporare la bellezza con estrema facilità. I dati non mentono e ci dicono che effettivamente si è registrata una moltiplicazione di eventi accessibili al grande pubblico, tanto che perfino nelle città sulla carta più marginali vengono annualmente allestite delle mostre capaci di catturare la ribalta nazionale.
Volendo tentare di decifrare i connotati di questa espansione, nasce però spontaneo un interrogativo: un’offerta tanto articolata e ampia è riuscita a preservare l'aura di ciò che ci viene proposto o siamo ormai entrati in una sorta di supermercato in cui tutto diventa una merce resa ancora più accattivante dai gadget che la sponsorizzano?
Quella sorta di “deregolamentazione” che caratterizza il contesto estetico attuale è parte integrante della nostra società e, anzi, ne riflette il funzionamento. Anche chi ritiene di poter sottrarre il tessuto artistico alla gestione contabile si trova alle prese con un mondo in cui alla fine si attesta il dominio degli interessi economici.
Il consumismo esiste e, invece di negarlo tout court, occorre che chi ha a cuore le esperienze estetiche lo affronti e porti avanti un dialogo per ripristinare degli equilibri, per arginare una ipertrofia imperante, per fare in modo che non si parli esclusivamente di clienti da intrattenere, per recuperare una profondità in grado di stimolare il sorgere di una passione che non rintraccia le sue radici in una strategia dell'incanto.
La stretta attualità ha tradito in modo palese il pensiero di Georges-Henri Rivière, il quale, negli anni Settanta, ha accostato il successo di un museo all'insegnamento che lascia nei suoi visitatori, senza attribuire troppo peso alle statistiche legate a una mera affluenza. I numeri oggi sono diventati una garanzia di riuscita e per raggiungere il traguardo desiderato si fa leva su un rimescolamento di ambiti e di generi che mira a impressionare, a creare uno spettacolo che distrae attraverso degli effetti speciali degni di un luna park. L'ideologia del marketing, le logiche finanziarie e le politiche della seduzione fagocitano la vita.
Ha davvero ragione Mario Perniola nel momento in cui rileva che «si corre il pericolo di affogare in un abisso di insulsaggini e di futilità» (Mario Perniola, L'arte espansa).
Un antidoto efficace non può limitarsi a esaltare pedissequamente le ragioni dei passatisti; l'obiettivo non è quello di far indossare all'arte una corazza isolante dal resto del pianeta, trasformandola magari in un luogo di nicchia riservato soltanto agli specialisti. Si tratta di uscire o, almeno per il momento, di smarcarsi da un meccanismo in cui l'estetica è stata messa a soqquadro per omaggiare innanzitutto gli standard della redditività che, a sua volta, trova spesso terreno fertile in una fruizione facile e immediata, che non implica uno sforzo particolare.
Questo panorama fa apparire lecite anche le parole pronunciate da Jean Clair nel corso di un'intervista rilasciata nel 2008. Dopo aver tratteggiato la deriva mercantile che a suo giudizio ha investito persino delle istituzioni come il Louvre, il critico francese ha constatato che «questa è solo massificazione. Bisognerebbe piuttosto generalizzare la storia dell'arte nelle scuole, affinché tutti abbiano gli strumenti culturali per comprendere» (Jean Clair, estratto da una intervista rilasciata a “la Repubblica” il 01 febbraio 2008).
Proprio questo potrebbe essere il punto di partenza per combattere il “mostrismo” denunciato da Montanari e da Trione e soprattutto per costruire quel rapporto dialogico prima menzionato. Invece di discutere su un possibile ulteriore ridimensionamento della disciplina messa in gioco da Clair, sarebbe più opportuno far passare il messaggio che essa possiede legittimamente i titoli per concorrere alla formazione di un cittadino consapevole, capace di distinguere ciò che crea valore dal punto di vista di una crescita culturale, artistica da ciò che è principalmente vettore di sviluppo economico e che, in quanto tale, non va certamente demonizzato a priori.
In una realtà in cui non è possibile ipotizzare di cancellare con un colpo di spugna gli ingranaggi e gli effetti del consumismo, diventa in effetti fondamentale saper discernere, individuando in primis la qualità. Ancora una volta Lipovetsky e Serroy giungono in nostro soccorso, leggendo alla perfezione le implicazioni della cosiddetta società transestetica, quella che coinvolge l'intera sfera dei servizi e dei prodotti. Concludendo la loro analisi, i due autori infatti osservano:
« L’ibridazione ipermoderna tra economia e arte conduce a non puntare più tutto sulla “cultura alta”, che per molto tempo è sembrata essere il viatico supremo. La nostra epoca richiede un'esigenza trasversale. […] È questa esigenza di qualità – ovunque sempre più sentita – a dover essere promossa, nell'universo commerciale come nella vita. […] Il compito è immenso. Ma non impossibile. »
Confidando nella bontà di questa previsione, si possono coltivare alcune speranze da affidare al futuro. Si arriverà magari a scoprire che il presente non dovrà essere gettato via in toto ma si realizzerà anche che non siamo tutti artisti. La profusione caotica lascerà lo spazio a un'idea, a una visione che non avrà l'unico scopo di attivare la folla. Ognuno interpreterà il proprio ruolo, senza retaggi anacronistici e senza confondere i mezzi con i fini.
25 giugno 2019
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