Nel testo della sua relazione al recente Convegno di Brescia dedicato ad Heidegger nel pensiero di Severino (13-15 giugno), il filosofo Vittorio Possenti ha messo in rilievo le divergenze che sussistono tra il pensiero heideggeriano e la filosofia dell'essere di Severino sul rapporto pensiero-realtà, individuando le difficoltà teoretiche in cui entrambe le concezioni incappano.
di Vittorio Possenti
Heidegger e la metafisica (HM) è un volume significativo per la vicenda teoretica di Emanuele Severino, perché scritto in anni in cui egli accoglieva la metafisica classica che poi ripudierà: la metafisica classica «era stata sin dall’inizio il fondamento teorico dell’indagine storica» (HM, p. 13). Sulla scia di Bontadini, Severino riteneva allora che la filosofia della seconda modernità (idealismo), avendo superato il fossato cartesiano e kantiano tra essere e pensiero, potesse condurre alla ripresa della metafisica classica. L’interpretazione severiniana di Heidegger, improntata ad una considerevole ‘carità ermeneutica’, cerca nel 1950 di interpretare il filosofo tedesco come un possibile momento di riapertura di quell’orizzonte metafisico. L’Avvertenza del 1994 stesa per la seconda edizione di HM, lo ammette, sostenendo che l’analisi avrebbe dovuto essere più esigente (HM, p. 27).
Nell’interpretazione di Heidegger in ordine al nesso pensiero-essere l’autore privilegia le posizioni espresse nella Lettera sull’umanismo, in cui la dignità del pensiero sarebbe salvata, rispetto a quelle della fine degli anni ’20 e degli anni ’30 che mandano tutt’altro suono (cfr. HM, pp. 337 ss.). In effetti il mutamento negli assunti di Heidegger è notevolissimo. Quale sia la posizione finale di Heidegger sul nesso pensiero-essere, supposto che ve ne sia una, non è chiaro; egli ha parteggiato per un ampio periodo per il dualismo moderno tra pensiero ed essere (cfr. Essere e tempo, L’essenza della verità, etc.), e poco dopo in Introduzione alla metafisica (IM) ha colpito l’interpretazione moderno-idealistica della formula parmenidea e la relativa logica, richiamando la primarietà della physis sul logos e il loro intrecciarsi. Ha poi pensato il tema della verità nella forma dell’aletheia e non anche in quello del giudizio dichiarativo.
In Essere e tempo e in altre opere coeve le formule heideggeriane su pensare ed essere ripropongono il dualismo moderno tra pensiero ed essere: definendo in Sull'essenza della verità «molto generica e vuota» la determinazione della verità come adaequatio, il filosofo tedesco ha opposto piuttosto che coordinato l'idea di verità come svelatezza a quella come corrispondenza (cfr. oltre a Essere e tempo, La dottrina platonica della verità e Lettera sull'"umanismo", in Segnavia, pp. 186-187 e 285). Egli ha ricercato ciò che, rendendo possibile la conformità tra l'intelligenza e l'essere, vale originariamente come l’essenza della verità, senza riuscire a venire in chiaro sul momento antepredicativo quale antefatto necessario della adaequatio giudicativa. Qui il pensiero di Heidegger si trovò impegnato in una lotta decisiva da cui tutto dipende. Si trovò dinanzi un ostacolo senza riuscire a superarlo: il rapporto tra ideale e reale. Il problema fu formulato adeguatamente («come deve essere intesa ontologicamente la relazione tra momento ideale e una semplice presenza reale?»), la soluzione non venne attinta. Alludendo in Essere e tempo con parole altamente rivelative alla «scissione ontologicamente oscura di reale e ideale» (§44), che rende aggrovigliato il problema dell'adaequatio, egli rimase prigioniero dello schema kantiano della separazione tra pensiero ed essere, tra ideale e reale, in una tarda riedizione del dualismo gnoseologico moderno. Se ciò che rende possibile la conformità si manifesta con un diritto più originario come l'essenza della verità, questo si attua nell'identità intenzionale tra pensiero ed essere, che accade nell'apprensione antepredicativa e si realizza nel e col concetto.
In mancanza di questo “ponte”, che avrebbe consentito di risolvere teoreticamente il problema della verità e prima ancora di cogliere la proporzione originaria tra pensiero ed essere e l'intelligibilità di quest'ultimo, il filosofo tedesco sembra aver optato con un supremo atto volontaristico per il cambiamento del concetto stesso di verità: l'essenza della verità è la libertà, scriverà in Essere e tempo (§ 44) e ribadirà in Sull'essenza della verità (cfr. V. Possenti, Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, Armando, Roma 2004, pp. 191 ss.).
Poco tempo dopo in IM l’autore sostiene che non ci si è ancora fatti una sufficiente idea del pensiero il quale sarebbe determinato a partire dalla proposizione e quindi dalla logica come dottrina del pensare (p. 128); in tal modo attraverso la logica sarebbe andata perduta l’essenza del pensare, ossia l’aletheia (p. 130). Dinanzi alla formula parmenidea “Ora il pensare e l’essere sono la stessa cosa”, il filosofo tedesco osserva che essa è stata fraintesa in maniera clamorosa, per cui il pensiero del soggetto determina ciò che l’essere è: «L’essere non è altro se non ciò che è pensato dal pensiero. Ora siccome il pensare rimane un’attività soggettiva, e pensare ed essere devono secondo Parmenide risultare la medesima cosa, tutto diventa soggettivo» (IM, p. 145). Accadono una separazione tra logos e physis e l’orientamento del primo ad esercitare una giurisdizione sull’essere: si mostra il predominio della ratio, che include anche l’intellectus, sull’essere dell’essente (IM, p. 184 ss.).
L’attacco heideggeriano all’intelletto e alla logica
Nelle opere della fine degli anni ’20 emerge in Heidegger un forte attacco verso la logica, il pdnc, la verità apofantica e l’intelletto. Tra le varie formule tratte da Che cos’è metafisica? (WIM) significativa è la seguente: «Ma se nell’ambito del domandare del niente e dell’essere viene così infranto il potere dell'intelletto, allora qui si decide anche il destino del dominio della “Logica” all’interno della filosofia» (WIM, p. 72). Poiché la logica non ha compiuto passi avanti o indietro da Aristotele in poi, «l'unico [passo] ancora possibile è quello di scardinarla (in quanto prospettiva normativa dell'interpretazione dell'essere) dal suo fondamento» (IM, p. 193). Siamo agli antipodi dell’identità tra Logica e Metafisica professata da Hegel e da Gentile. E anche: un pensiero che giri intorno alla totalità «non potrà mai regolarsi su una ‘logica’ che abbia come sua misura l'incontraddittorietà» (Oltre la linea, p. 131). Si veda infine un altro testo particolarmente esplicito, in quanto sembra introdurre la contraddizione nel reale: «Dopo la Logica di Hegel non è più immediatamente certo che, dove c’è contraddizione, ciò che si autocontraddice non possa essere reale» (Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 40).
Il Severino del 1950 nota la pericolosità di tale nucleo, osservando a buon diritto che la polemica di Heidegger contro la nozione di nihil absolutum è ‘senza senso’ (HM, p. 316), dal momento che l’autore si riferisce ad un diverso concetto di nulla; del resto nel “Poscritto” a WIM Heidegger avvertirà che il nulla di cui si dice in WIM non è il nihil absolutum. Forse vi è in ciò una certa sottovalutazione operata allo scopo di mantenere aperta la possibilità di trovare una conciliazione con la metafisica classica.
Dal punto di vista del nesso pensiero-essere osserverei che, anche tenendo conto delle opere heideggeriane successive al 1950, il realismo classico e la filosofia dell’essere – posizione speculativa in cui mi colloco – non hanno molto da rallegrarsi né da imparare dai vari détours praticati nelle opere dette.
La svolta di Heidegger inizia lentamente con gli anni ’30, in cui diventa meno centrale il tema gnoseologico e più centrale ancora quello dell’essere che abbandona gli enti i quali cadono in preda della tecnica. Il filosofo tedesco opera la svolta tramite un processo finalizzato a pensare “l’uomo in rapporto all’essere”, anziché “l’essere in rapporto all’uomo”; si va quindi all’insegna di una nuova concezione della verità come accadere dell’essere.
Sull’unità originaria di pensiero ed essere. Il primo e il secondo Severino
Per il Severino del 1950 il ‘fondamento metodologico’ della metafisica era l’unità originaria di pensiero e di essere (HM, p. 21), in base a cui il pensiero di Heidegger poteva risultare aperto alla metafisica classica (nonostante le non poche ‘delusioni’ in merito per le posizioni espresse in opere degli anni ’20 e ’30). Da tempo questo giudizio è stato indurito, per cui nell’Avvertenza del 1994 alla nuova edizione del volume si sostiene che «la vicinanza di Heidegger alla metafisica classica è la vicinanza alla matrice stessa dell’alienazione fondamentale dell’Occidente» (p. 22). Domandiamo però: sussisteva o sussiste tale vicinanza tra ricerca heideggeriana e metafisica classica? Non è in gioco la critica severiniana – scontata dopo la sua svolta – delle due posizioni di cui si è detto, ma la loro vicinanza.
In HM l’autore sosteneva che il risultato essenziale della filosofia moderna fosse l’identità di pensiero ed essere (p. 315), da cui conseguiva la validità della metafisica classica (e tomista) accuratamente distinta dalla moderna filosofia razionalistica (pp. 328 e 329). Nel mutamento radicale di posizione tra il 1950 e il 1994 rimane però un punto fermo nelle istanze di Severino: l’identità tra pensiero ed essere sia come base metodologica della metafisica sia come massimo risultato del pensiero moderno. Conviene approfondire.
In HM si introduce il concetto di puro pensiero come condizione trascendentale non dell’unità tra pensare e pensato, ma della capacità di manifestare l’ente, l’apriori che rende possibile il manifestare. Nello stesso tempo si sostiene che l’essere è ciò che si illumina nel puro pensiero, «ma in modo tale che il suo illuminarsi (manifestarsi) è radicalmente diverso dalla manifestazione dell’ente» (HM, p. 337). «Il puro pensiero è la condizione ontologica del dato, essendo pensiero ed essere la stessa inscindibile unità strutturale dell’ontologicità» (p. 337).
L’asserto, mentre aiuta a intendere come Severino elabori la sua idea di pensiero e di rapporto con l’essere nel libro su Heidegger, sollecita di contro a illustrare la lezione classico-realista. In ultima istanza la domanda chiede se possiamo seguire Severino nell’asserto che l’attualismo è «l’affermazione più rigorosa dell’unità di pensiero e di essere» (p. 18), perché «fedele all’essenza del pensiero occidentale» (HM, p. 18). Queste espressioni dell’autore sono tratte dall’Avvertenza del 1994. A mio parere invece Gentile è un accanito dissolutore della tradizione metafisica che non è ontotetica ma teoretico-contemplativa.
Ed eccoci al punto cruciale in cui non possiamo seguire Severino nelle sue due affermazioni sull’attualismo e l’essenza del pensiero occidentale. Per procedere non si tratta solo di sostenere l’unità pensiero-essere accolta e svolta originariamente dalla filosofia dell’essere e dal suo realismo; si tratta di pensarla in modo determinato. In secondo luogo cercheremo il motivo per cui nel presentare tale unità il neoparmenidismo severiniano si rivolga a Hegel, a Gentile e non alla filosofia dell’essere.
Indubbiamente essere e pensiero si coappartengono, ma in che modo? Essi si relazionano in modo paritario, o invece nel modo in cui la regia ultima spetti all’essere o viceversa al pensiero? Tutto ciò ha immense implicazioni sul concetto di realtà. Questo muta nel ‘coscienzialismo’ per il quale essere reale significa essere contenuto di una coscienza in generale: si dà quindi una priorità dell’atto di coscienza come fondante sul contenuto come fondato da esso. Qui il disguido è che in quanto si pensa una realtà, questa, oltre a risultare immanente al pensiero nell’atto dell’identità intenzionale tra intelletto e res, diventi dipendente dal pensiero e inclusa in esso.
La lezione del realismo classico
Che il pensiero non sia separato dall’essere è la coerenza teoretica comune del realismo classico includendovi gli antichi, tra cui maxime Aristotele, nonostante che il termine realismo non fosse allora impiegato. Il pensiero è pensiero dell’essere e l’essere si manifesta nel pensiero: d’accordo.
Il punto di divaricazione è l’idealismo e in specie Hegel, per il quale il recupero della posizione degli antichi, da lui vantata contro Kant, è in realtà un capovolgimento, in cui il pensiero prevarica sull’essere reale. Perciò in Hegel e in Gentile l’unità-identità originaria di pensiero ed essere rimane bloccata solo sul piano dell’idealismo con il primato del pensiero sull’essere e del logico sull’ontologico, da cui la tesi ‘folle’ dell’identità tra Logica e Metafisica. A mio parere questa unità-identità non è stata pensata a dovere neanche nel neoparmenidismo.
Sono note le formule hegeliane: il razionale è reale, e il reale è razionale, che nella loro pseudo equivalenza tra pensiero ed essere sostengono invece il primato sostanziale del pensiero e del razionale. Orbene, nessuna delle due formule è solida ed accettabile, perché entrambe presuppongono qualcosa. La prima presuppone che il razionale, ossia il mondo mentale della logica e delle sue secundae intentiones sia ipso facto reale e che l’automovimento logico-apriorico del concetto sia lo sviluppo dell’ente; la seconda formulazione (il reale è razionale) presuppone la cancellazione a priori della prote yle come principio radicale di inintelligibilità (il reale è razionale significa il reale è perfettamente intelligibile).
Nell’immanentismo gnoseologico e ontologico la coscienza ha per oggetto se stessa, il proprio contenuto o oggetto di pensiero: le altre cose e l’essere sono compresi solo come contenuti della coscienza. Differentemente dal realismo che prende le mosse dall’ente e che pensa la verità come conformità dello spirito all’essere reale, nella postura di immanenza la coscienza prende le mosse da se stessa e dal suo atto, non dall’essere, onde la verità è la coerenza della coscienza-pensiero con se stesso. L’identità razionalistica tra essere e pensiero diventa l’identità tra essere e coscienza.
L’essere è solo l’essere dato a una coscienza, esso è il contenuto di una coscienza. L’atto di questa prevale completamente sull’atto dell’ente, nel senso che il secondo diventa un’espressione del primo e l’idea, centrale nella filosofia dell’essere, secondo cui ogni ente esercita in proprio l’actus essendi viene meno, e cede all’atto della coscienza che lo assorbe in sé e non lo riconosce come autonomo e indipendente.
Pensiero ed essere: due livelli
Il pensiero di un soggetto pensante può avere come contenuto e oggetto gli oggetti pensati esaminati in se stessi, come non rinvianti ad altro; oppure può avere come oggetto l’ente concreto, dato nell’intuizione sensibile, da cui l’intelletto astrae i caratteri intelligibili. Il primo momento è la logica, il secondo la conoscenza reale che termina alla cosa-ente, che esiste come tale nella realtà, indipendentemente dal pensiero ed esercitando in proprio l’atto di esistere. La res esiste come oggetto di pensiero nella mente che non può essere mai scisso dalla cosa là fuori; essa stessa detta le condizioni a cui il pensiero deve necessariamente aderire per conoscerla.
Cognitum in actu et cognoscens in actu sunt unum, Severino cita più di una volta questa formula classica, che dichiara l’identità intenzionale tra pensiero ed essere nel concetto. Egli evidenzia a buon diritto che «il pensiero metafisico non deve realizzare l’impossibile compito di raggiungere un essere originariamente separato» (HM, p. 17); d’altro canto l’unità originaria di pensiero e di essere va compresa e analizzata. Non si può proprio concedere quanto scrive Hegel nell’introduzione alla Scienza della logica: «Il pensiero nelle sue determinazioni immanenti e la vera natura delle cose sono un solo e identico contenuto» (SL, Introduzione).
Non infrequente è poi il ricorso di Severino all’altra grande formula del realismo, secondo cui nell’atto della conoscenza accade un fieri aliud in quantum aliud, formula classica di Giovanni di san Tommaso (alias John Poinsot) che raccoglie l’eredità dell’Aquinate in merito. Essa dice che nella conoscenza accade una modalità del divenire in cui noi portiamo in noi stessi nel concetto la forma dell’altro come altro, ossia diverso e distinto da noi. Ma se noi ritenessimo che tutta la luce provenisse dal pensiero dell’io, l’altro in quanto altro non vi sarebbe e tutto sarebbe assorbito nell’io; tale è la posizione di Gentile.
Ordine della conoscenza e ordine dell'essere
Per venire a capo del nesso pensiero-essere occorre introdurre una differenza tra ordine della conoscenza e ordine dell’essere, e con ciò non intendiamo distruggere certo l’identità intenzionale di cui sopra. L’unità originaria di pensiero ed essere regge se e solo se si riconosce la distinzione appena detta, e si riconosce che non possiamo partire dal mondo della logica e delle idee ritenendo a priori che il razionale, il logico, sia di per sé reale. Due fondamentali considerazioni lo vietano: dapprima le determinazioni del pensiero non coincidono sempre con le determinazioni dell’essere (è pura follia pensare come reale il nihil absolutum che è solo un ente di ragione); in secondo luogo è impossibile dimenticare i sensi e la percezione sensibile, a cui Aristotele fa riferimento primario nell’enunciare l’identità di conoscente e conosciuto, poi estrapolata al piano del pensiero: anzi dobbiamo dire che il primo principio della nostra conoscenza è il senso. Il termine raggiunto dall’intelletto – la cosa conosciuta – è altro dall’intelletto, non dipende ontologicamente da questo e specifica la conoscenza dell’intelletto: la luce viene dall’oggetto [1]. Dunque «La conoscenza è un’operazione immanente – la quale procede vitalmente e interamente dalla facoltà, ed è interamente specificata dall’oggetto – nella quale la facoltà, attuando se stessa, è attuata dall’oggetto, intenzionalmente presente in essa nella sua similitudo o species, e che è un’operazione che consiste nel divenire immaterialmente l’altro in quanto tale» [2].
Conclusioni
Là dove l’unità tra pensiero ed essere è posta come un’ovvietà che non andrebbe analizzata, emergono equivoci teoretici inaggirabili propri di Hegel e Gentile e in buona misura del neoparmenidismo: 1) nel primato indifferenziato del (puro) pensiero scompare l’astrazione dell’intelligibile dal sensibile, ossia il modo con cui opera l’intelletto umano, onde rifiutare l’astrazione significa rifiutare la condizione umana. 2) inoltre viene meno la materia, la prote hyle che è il correlato di fondo della percezione sensibile e radicale principio di inintelligibilità. L’irrilevanza della materia quale correlato della percezione sensibile comporta che il sistema approdi al formalismo e al razionalismo assoluto, dove l’essere è completamente trasparente al pensiero. 3) Conseguentemente il pensiero (il razionalismo assoluto) ritiene di esaurire il reale e congeda il mistero [1]; 4) lasciare da parte il principio sensibile e non verificare gli esiti della teoresi sul reale implica il rischio di costruire mondi quali mai si videro, addentrandosi nell’abbaglio dell’edificazione logica del mondo [2].
Dalla filosofia della seconda modernità (sostanzialmente l’idealismo) alla metafisica classica era il cammino per il primo Severino che contava così su un doppio recupero: dell’idealismo e della metafisica classica. L’autore ha abbandonato da tempo il progetto che a mio parere era in sé postulatorio: il pensiero della seconda modernità non riapre la strada della metafisica (dell’essere) ma la chiude senza riserve, perché in esso l’oblio dell’essere reale è massimo, e il logico primeggia sull’ontologico: accade un primato del logico sul fisico, quasi che quest’ultimo sia un livello degradato del logico. Bisogna dunque riprendere il cammino là dove esso si è interrotto e con la filosofia che lo aveva condotto al suo più alto sviluppo, ossia la filosofia dell’essere con la sua terza navigazione. In essa la partenza non è la struttura (originaria) del sapere ossia il trascendentale verum, ma il trascendentale ens.
Intendo per terza navigazione una prospettiva o dottrina metafisica più alta e compiuta di quella sorta dalla seconda navigazione platonico-ellenica consistente nella scoperta della causa soprasensibile. Tale nuova e ulteriore navigazione è stata espressa nell’atto inaugurale di san Tommaso d’Aquino, che l’ha espressa in nitidi canoni in cui viene conservata l’eredità greca e insieme trascesa in un sapere più alto (su ciò vedi NM).
La filosofia dell’essere e la relativa metafisica riemergono alla conclusione del ciclo della filosofia moderna più vigorose e forti, lasciando dietro le spalle Nietzsche, Heidegger e altre scuole. Nella nuova epoca filosofica postmoderna che si è aperta da tempo il grande bisogno sta nel ritrovare una metafisica di trascendenza e la filosofia dell’essere è idonea per questo compito. Essa è in grado di superare il nichilismo, di porre la questione della tecnica nel modo che le compete, di raggiungere una conoscenza reale del reale. E con la sua stessa esistenza in atto mostra l’inconsistenza delle tesi corrive sulla fine della metafisica, sul suo oltrepassamento, sul nichilismo che sarebbe proprio di tutto il pensiero occidentale.
Annesso: comprensione dell’essere e dell’ente
La comprensione dell’essere è per Heidegger il fondamento della comprensione dell’ente (vedi HM, p. 26), per cui senza la prima non accade la seconda (l’essere è l’orizzonte entro cui appaiono gli enti). Per la filosofia dell’essere accade diversamente: la percezione, comprensione e l’analisi dell’ente sono alla base della comprensione dell’essere (cfr. De veritate, I). L’oggetto della metafisica è l’ente in quanto ente, non l’essere in quanto essere dove l’essere è un astratto indeterminato e un’attività, non un soggetto-sostanza; pertanto l’essere dell’ente non è altro che l’esse/actus essendi dell’ente, e non l’esse ipsum. «L’essere è e si mostra [west] senza l’ente», dice Heidegger e diventa arduo seguirlo (vedi NM, p. 207, in SZ invece si legge: «L’essere è sempre l’essere di un ente», n. 3) [3]. L’essere non è il nulla dell’ente, come vuole Heidegger ma l’attuazione dell’ente, l’atto dell’ente. L’ente è l’universale concreto e in esso conosco l’essere connesso all’ente e ad esso proprio, e successivamente l’esse ipsum per se subsistens; ma in partenza l’ente non è separato dall’essere, e l’essere non è esterno e trascendente rispetto all’ente. Si potrà pensare l’essere come ciò che rende possibile il manifestarsi fenomenologico dell’ente, ma a livello ontologico l’essere dovrà essere pensato come ciò che fa essere l’ente. Pertanto non è la comprensione previa dell’essere in generale a dischiudere quella dell’ente.
Essere (come essere dell’ente) ed ente sono in connessione e si appartengono reciprocamente, ma in che modo? Sono sullo stesso livello? Oppure l’esse è l’atto dell’ente che lo fa essere. Nell’appartenenza tra esse ed ens vi è un prius che è l’esse. Il Sein heideggeriano è in rapporto all’ente e non sua attuazione o posizione dell’essere: il Sein è fenomenologico, è orizzonte dell’apparire che non esprime alcuna attuazione dell’ente nel rapporto incrociato tra esse ed ens.
Dietro la polarità essere-ente occhieggia la polarità essere-nulla intesa in modo peculiare, ossia tensione tra essere che appare e si presenta ed essere che scompare e si nega, dunque un nulla fenomenologico (ciò che al momento non appare), e in cui il nientificare è solo un uscire dall’apparire.
In sostanza sull’ente e sull’essere le soluzioni della filosofia dell’essere risultano più profonde e decisive di quelle di Heidegger.
Bibliografia
G.G.F. Hegel, Scienza della Logica (SL), Laterza, Bari 1994
M. Heidegger, Introduzione alla Metafisica (IM), Mursia, Milano 1986
M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987
V. Possenti, Ritorno all’essere. Addio alla metafisica moderna (RE), Armando, Roma 2019
V. Possenti, Nichilismo e metafisica. Terza navigazione (NM), Armando, Roma 2004
E. Severino, Heidegger e la metafisica (HM), Adelphi, Milano 1994
E. Severino, La struttura originaria (SO), Adelphi, Milano 1981
[1] Su questo punto nevralgico vedi S. Th., I, q. 85, a. 2, dove si illustra che il termine dell’intelletto è la cosa e non le species: «Et sic species intellectiva secondario est id quod intelligitur. Sed id quod intelligitur primo, est res cuius species intelligibilis est similitudo».
[2] J. Maritain, Riflessioni sull’intelligenza, Massimo, Milano 1987, p. 77. Il pensiero accademico italiano ha ignorato tre testi assolutamente notevoli della filosofia dell’essere del XX secolo: Riflessioni sull’intelligenza di J. Maritain (in specie il cap. “La vita propria dell’intelligenza e l’errore idealista”, 1924), I gradi del sapere (1932) sempre di Maritain (IV ed. Morcelliana, Brescia 2017), e L’Essere e l’essenza di E. Gilson (1948), Massimo, Milano 1988.
[3] Per SO (p. 114) il pensiero è l’immediato, ed in ciò consiste il giudizio originario. Il sistema dell’indifferenziata unità pensiero-essere approda perciò al formalismo e al razionalismo assoluto, dove l’essere è completamente trasparente al pensiero e in esso risolto (vedi RE, p. 272 ss).
[4] Di creazione o invenzione logica del mondo nel neoparmenidismo severiniano ho trattato in RE, nel cap. dedicato al neoparmenidismo e antiparmenidismo italiani.
«È un bisogno fisico dell’uomo che sta lavorando interrompersi dicendo: ‘Ora smettiamo per un po’’. Il fatto che, nel filosofare, si debba pensare contrastando continuamente questo bisogno è ciò che rende il lavoro del filosofo così estenuante», L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 2009, p. 142. L’attività del filosofo non consente requie e raramente può dire con il salmista: «In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare», Sal 4, 9. Ma forse sarebbe meglio non adottare un atteggiamento fortemente sbilanciato nel senso di un’insonne attività costruttrice del pensatore per un atteggiamento segnato invece dalla capacità ricettiva: ricevere in noi le cose nel loro darsi e attendere prima di correre a edificare questa o quella filosofia.
[5] La coimplicazione tra essere ed ente è poi espressa nel Poscritto a WIM: «Appartiene alla verità dell’essere che mai l’essere dispiega la sua essenza (west) senza l’ente, e che mai un ente è senza l’essere», Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 260.
23 giugno 2019
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