Proponiamo qui il discorso, presentato alla sesta edizione della David Foster Wallace Conference, che cerca di mettere in luce come sia Wittgenstein che Wallace abbiano considerato il "sentimento religioso" come risposta filosofica al solipsismo del nostro tempo.
Quando parliamo di “religione” a proposito di Wallace e Wittgenstein, parliamo di una risposta a un problema filosofico. Anzi, al quesito filosofico par excellence, "qual è il senso della vita, del mondo? Quale strana ragione si nasconde dietro il nostro esistere?"
Che religione e filosofia siano strettamente collegate, tanto da essere l’una inclusa nell’altra, può sembrare, se si esclude alcune eccezioni come il primo Agostino, una sciocchezza. In tutta la storia della cultura occidentale, la filosofia ha combattuto con la religione per ottenere per ottenere la sua indipendenza: si pensi ad al-Ghazālī e la sua polemica (nel celebre L’incoerenza dei filosofi) contro la falāsifah (ovvero la filosofia musulmana influenzata da Platone ed Aristotele, come quella di Avicenna ed Al-Farabi) o a Tommaso D’Aquino, che ridusse la filosofia ad “ancella” della teologia.
Ed anche nel modo comune di intendere filosofia e religione, esse sembrano essere già da un punto di vista concettuale diametralmente opposte. Ciò avviene se intendiamo la filosofia come un procedere logico, privo di “pre-giudizi”, mentre la religione come un rispondere “dogmatico”, inculcato da determinate strutture di potere.
Ma oggi sembra di vivere in un tempo diverso: vi sono domande che hanno accompagnato la filosofia sin dalla sua nascita e sono state negli ultimi anni bollate dagli ambienti accademici di spicco (quelli anglosassoni analitici in particolare, maggiormente vicini allo scientismo, con cui sia Wittgenstein che Wallace hanno avuto direttamente a che fare) come insensate e/o inutili.
Wallace e Wittgenstein sono voci fuori dal coro: la religione sembra essere in questa fase culturale l’unico baluardo rimasto per risvegliare quel domandare essenziale che si è ormai perso. È una risposta al solipsismo, questo grosso pericolo che incombe sul Novecento postmoderno.
Sarebbe dunque impossibile affrontare il tema della religione, senza affrontare al contempo la filosofia e la vita personale di Wittgenstein e Wallace, perché questi tre aspetti sono parti di un unicum in realtà inscindibile, che va affrontato nella sua interezza.
Per spiegare questo mio modo di affrontare il problema (tenendo cioè questi tre aspetti sempre uniti), vorrei rinviare brevemente al contenuto dei corsi del famoso storico della filosofia Pierre Hadot sulla filosofia antica come esercizio spirituale. Secondo Hadot è proprio la separazione di questi aspetti che determina la differenza tra mondo antico e mondo moderno: la filosofia nel mondo antico è un esercizio spirituale, che determina un certo “stile” di vita. Pensiamo alla Repubblica di Platone (474d-474a): la filosofia come esercizio per la morte che solleva il saggio da paure vane, una volta contemplata la totalità dell’essere e del tempo.
E se all’inizio del medioevo il cristianesimo erediterà questo tratto – la ricerca della tranquillità, l’impassibilità dell’anima, l’esame di coscienza, la preparazione alla morte) – nella vita monastica, con le università la filosofia smette di essere la scienza suprema dove ragione ed azione sono coestese, ma è teoria astratta. Con le università la filosofia diventa una “professione”, esercitata da professionisti che insegnano ad altri aspiranti professionisti. La filosofia non insegna più a vivere, ad essere uomo, a stare nel mondo, ma fornisce nozioni specialistiche.
La filosofia delle università – quella di Kant, Fichte, Hegel, Bergson, Husserl, Heidegger, Russel, Moore e giunta sino ai nostri giorni – avrà pochissimi avversari: Schopenhauer, che nel Mondo come volontà e rappresentazione la definisce “ciurmeria” che indottrina a-criticamente, e Nietzsche, con le sue conferenze sull’avvenire delle scuole.
Qual è lo scarto evidente che separa allora la filosofia antica da ciò che è seguito? Nel mondo antico fisica, etica, logica non erano parti della filosofia, ma parti del discorso filosofico. Quando insegno filosofia, insegno logica, insegno etica, insegno fisica. Ma la vera filosofia non è nessuna di queste parti divise, perché consta di tutte queste prese interamente: non si fa più teoria dell’azione, si agisce rettamente; non si fa teoria logica, ma si parla e si pensa logicamente. Il discorso filosofico è funzionale solo se a servizio di una vita filosofica.
« Vuoto è il discorso filosofico se non contribuisce a curare la malattia dell’anima. » (Epicuro, Epicurea 222)
Quindi nel mondo antico il filosofare è un atto continuo che implica la trasformazione di sé stessi, che si mette in moto in ogni istante.
Vi chiederete perché mi sia concentrato così a lungo su questa premessa, su questa distinzione tra filosofia e discorso filosofico e sulla rottura tra mondo antico e moderno. La ragione è semplice: questa è la chiave interpretativa secondo me più efficace per comprendere il modo di fare filosofia – e di avvertire un problema filosofico – per Wittgenstein e Wallace.
Partiamo da Wittgenstein: egli è stato una forte presenza negli ambienti accademici di Cambridge e nonostante tutto è stato fortemente critico – sia per posizione filosofica di fondo, che per modo di intendere la filosofia stessa – rispetto ad essi. La distanza da questi ambienti è in certi casi estremamente palpabile. Basti pensare a come Wittgenstein risponde alle critiche che il Weiner Kreis, riunitosi a casa di Moritz Schlick, muove a Martin Heidegger.
Quest’ultimo era già stato bersaglio degli attacchi di Rudolf Carnap nel suo Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio nel quale contestava l’uso heideggeriano della parola “nulla”, che non nega una proposizione, ma è un oggetto esso stesso. Alle provocazioni del circolo viennese, Wittgenstein risponde così, con lo stupore dei presenti:
« Posso immaginarmi molto bene quel che Heidegger intende con ‘essere’ e ‘angoscia’. […] Anche Kierkegaard ha visto questo urto e lo ha perfino designato con un termine simile, come urto contro il paradosso. Questo avventarsi contro i limiti del linguaggio è l’etica. […] Ma la tendenza, l’urto, indica qualcosa. Lo sapeva già sant’Agostino quando diceva: Come, canaglia, non vuoi dire assurdità? Dille pure, tanto non importa! » (Wittgenstein, Conversazioni al Circolo di Vienna)
D’altronde, analizzando attentamente l’unica vera opera pubblica in vita da Wittgenstein, il Tractatus logico-philosophicus, ciò non dovrebbe stupire. Come Wittgenstein stesso spiega, in una lettera rivolta ad un amico, l’opera consta di due parti:
« E forse le sarà di aiuto se le scrivo un paio di righe sul mio libro: dalla sua lettera, infatti, tale è la mia sincera opinione, non ne trarrà un granché, perché non lo capirà e l'argomento le sembrerà del tutto estraneo. Ma, in realtà, il libro non le è estraneo, perché ha un senso etico. [...] In effetti volevo scrivere che il mio lavoro si compone di due parti: ciò che ho scritto, più tutto ciò che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è importante. Grazie al mio libro, l'etico viene per così dire delimitato dall'interno; e sono convinto che, in senso stretto l'etico sia da delimitarsi SOLO in questo modo. In breve, credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io, nel mio libro, l'ho definito semplicemente tacendone. » (Wittgenstein, Lettere)
Nel Tractatus infatti, una volta sistemato nella prima parte il linguaggio – la sua possibilità di rappresentare il mondo – e le possibilità stesse della scienza, si nota che «noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati» (Tractatus logico philosophicus, proposizione 6.52). Nelle annotazioni personali scrive: «l’impulso al mistico viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza», ovvero da uno scarto che il dire non può cogliere e rappresentare. Cosa non può essere dunque detto?
« Che so io di Dio e del fine della vita?
Io so che questo mondo è.
Che sto in esso, come il mio occhio nel suo campo visivo.
Che in esso è problematico qualcosa, che chiamiamo il suo senso.
Che questo senso non risiede in esso ma fuori di esso. » (Wittgenstein, Quaderni 14-16)
E Wittgenstein ritiene che sia proprio questa la risposta tanto cercata: «la risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso» (Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus, prop. 6.521).
Questo concetto ritornerà, spiegato in maniera più approfondita, in alcune annotazioni più tarde:
« La soluzione del problema che tu vedi nella vita è un modo di vivere che fa scomparire ciò che rappresenta un problema.
Se la vita è problematica, è segno che la tua vita non si adatta alla forma della vita. Devi quindi cambiare la tua vita; quando si adatterà alla forma, allora scomparirà ciò che problematico.
Ma non abbiamo forse la sensazione che chi in questo non vede un problema non abbia occhi per vedere qualcosa di importante, anzi la cosa più importante di tutte? Non mi verrebbe voglia di dire che egli, in questo modo, vegeta – cieco appunto, quasi una talpa, e che se solo potesse vedere, allora vedrebbe il problema?
O forse dovrei dire: chi vive rettamente sente il problema non come tristezza, non come problematico quindi, ma piuttosto come gioia; dunque quasi come un etere luminoso attorno alla sua vita, e non come uno sfondo dubbio. » (Wittgenstein, Pensieri diversi)
Per questo anche il tentativo cartesiano – delle Meditazioni metafisiche – ed ogni altro tentativo scettico di dubitare della stessa esistenza del mondo non è inconfutabile, ma insensato, perché domanda lì dove non c’è alcuna domanda possibile. La filosofia deve rigorosamente svolgersi nel silenzio. Una volta concluso il Tractatus, il lettore stesso dovrebbe comprendere che esso è stato una «scala» che, attraverso le sue proposizioni, ci ha condotto oltre esse:
« Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo esser asceso su di essa.) Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo. » (Tractatus logico philosophicus, prop. 6.54)
La filosofia non può dunque giungere alla “verità”, intesa nella forma classica del dire ciò che realmente è, ma, per cogliere l’essenza del mondo, deve mettere in evidenza le regole del linguaggio per delimitare il senso dal nonsenso. In quello scarto tra senso e nonsenso interviene la religione.
Un certo peso in questa formulazione wittgensteiniana li hanno gli eventi vissuti: nel 1914 Wittgenstein si spoglia di gran parte del suo patrimonio ereditato per distribuirlo tra artisti austriaci privi di mezzi (a beneficiarne ci saranno artisti illustri come Rilke, Trakl, Kokoschka, Haecker). Poco dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale decide di arruolarsi come volontario nell’esercito austriaco. Secondo la sorella Hermine la decisione è dovuta ad un «ardente desiderio di impegnarsi in qualcosa di difficile che fosse nello stesso tempo qualcosa di diverso da un lavoro puramente intellettuale», nella speranza di un’esperienza che lo cambiasse come persona.
Ma la guerra si rivelerà essere una esperienza traumatica, per vari ovvi motivi. A salvarlo è la conversione religiosa che lo accompagna nel corso della guerra: la lettura delle Spiegazioni dei Vangeli di Tolstoj è a tal proposito decisiva, tanto da essere portato sempre con sé nei vari spostamenti – a tal punto da essere soprannominato come “l’uomo coi vangeli” – e raccomandato a chi fosse in difficoltà.
Il cristianesimo non è l’oggetto di una credenza, ma è una pratica capace di “guarire” l’animo malato. Per questo non ha senso domandare la verità o falsità del cristianesimo:
« È chiaro che l’essenza della religione non può essere legata al fatto che si parla, o piuttosto: se si parla, allora ciò fa parte dell’azione religiosa e non è una teoria. Non ha quindi importanza che le parole siano vere o false o insensate. » (Wittgenstein, Conversazioni al Circolo di Vienna)
Wittgenstein continuerà a sviluppare questo concetto in alcune annotazioni personali individuando proprio nella religione, in particolare il cristianesimo – non come «dottrina» che si fonda su una «verità storica», ma come «pratica» di vita che deve essere applicata nella buona e nella cattiva sorte – la soluzione per invertire la rotta:
« Il cristianesimo dice fra l’altro, credo, che le buone dottrine non servono a nulla. Si dovrebbe cambiare la vita. (O la direzione della vita)
Che ogni sapienza è fredda e che con essa si può mettere in ordine la vita non più di come si possa battere il ferro a freddo.
Una buona dottrina, infatti, non deve trascinare; la si può seguire, come si segue una prescrizione medica. – Qui però si deve essere trascinati e rivoltati da qualcosa. – (Almeno, così l’intendo io). E una volta rivoltati, rivoltati si deve rimanere. La sapienza è priva di passione. Al contrario, Kierkegaard chiama la fede una passione.
La religione è per così dire il fondale marino più profondo e calmo, che rimane tranquillo per quanto alte le onde siano in superficie. » (Wittgenstein, Pensieri diversi)
Quindi la religione è per Wittgenstein qualcosa di strettamente connesso alla volontà. Fare un simile lavoro di “recupero” di un concetto ben preciso di religione in Wallace è sicuramente più complesso. Ma anche in Wallace vi sono vari elementi che, presi insieme, ci possono fornire un’idea di religione molto simile a quella che Wittgenstein stesso intende.
Il Tractatus di Wittgenstein sarà una delle opere fondamentali per l’educazione di Wallace (su di esso e sulle successive Ricerche Filosofiche Wallace incentrerà il nucleo tematico del primo romanzo, La Scopa del Sistema; e su di esso ritornerà con la recensione di Wittgenstein’s Mistress di David Markson), ma non manca una successiva critica profonda di Wallace alla prima opera wittgensteiniana, definita un «incubo metafisico», perché le parole sarebbero un quadro, una mimesi delle cose che rappresentano, della “realtà”, e tra noi e il mondo esterno ci sarebbe una distanza incolmabile. In esso Wallace intravede il germe del solipsismo postmoderno:
« Era questo il dilemma di Wittgenstein: o si tratta il linguaggio come un puntino infinitamente piccolo e denso, o lo si lascia diventare il mondo – il mondo esterno, è tutto ciò che contiene. La prima ipotesi equivale alla cacciata dall’Eden. La seconda sembra più promettente. Se il mondo stesso è un costrutto linguistico, non c’è nulla «al di fuori» del linguaggio che il linguaggio debba raffigurare o a cui debba riferirsi. Questa ipotesi ci permette di evitare il solipsismo, ma porta dritti al dilemma postmoderno, poststrutturalista, di dover negare a noi stessi un’esistenza indipendente dal linguaggio. In genere si ritiene che sia stato Heidegger a condurci a questo dilemma, ma mentre scrivo La scopa del sistema ho capito che era Wittgenstein il vero architetto della trappola postmoderna. È morto proprio quando stava per cominciare ad essere esplicitamente la realtà come un’entità linguistica invece che ontologica. Questa posizione eliminava il solipsismo, ma non il terrore. Perché siamo ancora bloccati. La tesi delle ricerche è che il problema fondamentale del linguaggio è, cito testualmente, «Non mi ci raccapezzo». Se fossi separato dal linguaggio, se potessi in qualche modo distaccarmene, arrampicarmi da qualche parte e guardarlo dall’alto, osservarne la topografia, per così dire potrei studiarlo «obiettivamente», smembrarlo, decostruirlo, capire le sue dinamiche, i suoi confini e le sue mancanze. Ma le cose non stanno così. Io ci sono dentro. Noi siamo dentro il linguaggio. » (David Foster Wallace, Un antidoto contro la solitudine)
Ma per evitare questa prospettiva (che ne La Scopa del Sistema è rappresentata dal magnate Norman Bombardini, che vuole accrescere il proprio “io”, anche fisicamente, attraverso un aumento di peso tendente all’infinito, sino a fagocitare l’alterità) entrambi hanno negato la prospettiva di un linguaggio privato.
Wittgenstein lo fa cercando di smascherare quelle immagini (interno/esterno; profondità superficie) che hanno condotto alcuni filosofi a relegare la soggettività in un interno privato non accessibile e che portano a mettere in discussione la coscienza stessa degli altri. Un gioco linguistico privato non ha senso, perché non ha un uso e può significare qualsiasi cosa, proprio perché non è condiviso. La verità è sempre in una dimensione collettiva, sociale.
Wallace stesso ribadirà la sua posizione a riguardo:
« Il punto qui è che l’idea di un linguaggio privato, così come l’idea di colori privati e come la maggior parte degli altri lambiccamenti solipsistici da cui il recensore è stato in varie occasioni afflitto, è sia illusoria che falsa, e lo si può dimostrare. Nel caso del linguaggio privato, l’illusione in genere è basata sul credere che una parola come dolore o albero abbia il significato che ha perché è in qualche modo «legata» a una sensazione nel mio ginocchio o all’immagine di un albero nella mia testa. Ma come dimostrato negli anni Cinquanta dalle Ricerche filosofiche del sig. L. Wittgenstein, in realtà le parole hanno il significato che hanno per via di certe regole e verifiche che ci vengono imposte dall’esterno della nostra soggettività, e cioè dalla comunità in cui dobbiamo vivere e comunicare con altre persone. […] Se state pensando che tutto questo sia non solo schifosamente astratto ma anche irrilevante rispetto alle Guerre dell’uso nonché a qualsiasi cosa possa minimamente interessarvi, faccio presente che vi sbagliate. Se i significati di parole ed espressioni dipendono da regole transpersonali e queste regole dal consenso della comunità, allora il linguaggio non solo non è privato ma è anche irriducibilmente pubblico, politico e ideologico. » (David Foster Wallace, Considera l'aragosta)
Si tratta dunque di reagire al solipsismo postmoderno di cui siamo storicamente eredi. In che modo? Questo è il tema di fondo che Infinite Jest deve affrontare. E per farlo – in questo romanzo che è stato giustamente definito come una “epistemologia dell’umanità” – Wallace sceglie un luogo strategico: la Ennet House. Come tutti sappiamo, quest’ultima – situata proprio sulla collina adiacente all’Accademia, a Boston – è una casa di recupero facente parte del più ampio gruppo degli Aa di Boston. In questa casa di recupero, dove sono affrontati vari casi di dipendenza da sostanze, le persone – anche se drogate e malinconiche – paiono più sane di quelle dell’Occidente “sano”, per la loro consapevolezza della tragicità in cui sono immersi, tragicità che il resto del mondo solo a tratti sospetta.
Saranno anche i più devastati, ma allo stesso tempo sono ben consci della causa della loro sventura che ricade sulle loro stesse azioni. L’atmosfera religiosa della Ennet House emerge anche dalla scelta dei termini e dei concetti usati. Uno di questi è quello di “Perdita”, la cui consapevolezza è essenziale nell’iter di riabilitazione. La Perdita è il negativo che illumina tutto ciò che in sua direzione è precluso:
« Durante l’incontro settimanale della Ennet, quando i residenti si lamentavano e mugugnavano per tutte le Perdite che la dipendenza aveva portato con sé, Pat annuiva e sorrideva e diceva che per lei l’infarto era stato in assoluto la cosa migliore che le fosse mai successa perché le aveva finalmente permesso di Arrendersi. » (David Foster Wallace, Infinite Jest)
Ci mette di fronte a tutte le gioie che, guardando questo o quest’altro vizio, non avremo. E sempre in atmosfera religiosa è il contro-movimento alla Perdita: lo sforzo della volontà. Chi non riesce a convincersi che il problema risiede nella propria volontà zoppicherà inevitabilmente, sino a ricadere nella sostanza. Non si a che fare con un’atmosfera punitiva, perché si ha a che fare con un lavoro personale ed un percorso da percorrere con dedizione e convinzione: « Se non ubbidisci, nessuno ti butterà fuori a pedate. Non ce n’è bisogno. Finirai per buttarti fuori da solo, se ti fai guidare dalla tua volontà malata. »
Al contrario, quell’atteggiamento punitivo precedentemente descritto è controproducente: lascia fuori uomini puliti fisiologicamente, ma con gli stessi pensieri e con gli stessi schemi di risposta alle circostanze che hanno causato il loro ingresso negli Aa. La vera cura, la ripresa è un’altra cosa: significa riconquistare dei significati per far sì che il recupero sia totale e definitivo, mostrando il negativo come tale, in modo da non essere più attratti da esso e poterlo rifiutare nelle occasioni future.
E a questo punto vorrei brevemente concentrarmi su uno dei sogni epifanici di Gately: chiuso in una stanza con dei suoi concittadini “sani”, tutti inginocchiati, si accorse che chiunque di loro si alzasse in piedi veniva risucchiato fuori dalla finestra e fagocitato da un losco figuro – il demone – e così avvenne il primo episodio in cui «il cinico Gately seguì il consiglio fondamentale di mettersi in ginocchio accanto alla sua brandina troppo piccola con le molle rotte e Chiedere Aiuto a qualcosa in cui ancora non credeva, e chiedere che la sua volontà malata e morsa dal Ragno gli fosse portata via, asfissiata e schiacciata», in un gesto dal forte peso religioso. Anche quegli slogan ripetuti continuamente, tanto da sembrare sciocchi e apparentemente inutili, acquistano significato e cominciano ad incarnare una semplice verità a molti però sfuggita. E una volta scomparsa la sostanza, alcune problematiche oramai sbiadite acquisiranno un certo significato, un tono più acceso, riaffiorando prepotentemente in cerca di soluzione:
« Obiettivo della struttura è dichiaratamente quello di «far guadagnare un po’ di tempo a questi poveri sciagurati, qualche sottile fettina di tempo di astinenza, fino a quando riescono ad avere qualche sentore di ciò che è vero e profondo, quasi di magico, sotto la vuota superficie di quello che stanno cercando di fare.
Si scopre che tanto più è insipida la frase fatta degli Aa, tanto più affilati sono i canini della verità vera che nasconde. »
In Infinite Jest Wallace, si apre, descrivendo la tristezza e il vuoto che permea l’America, ma anche se stesso. C’è la diagnosi delle seguenti forme di dipendenza che creano una rottura violenta: da un lato, marijuana e DMZ, assorbite dal soggetto che solipsisticamente si allontana dal mondo e si chiude in sé; dall’altro, la depressione e la visione della cassetta Infinite Jest che, in opposizione alle prime due, annullano il soggetto nell’oggetto. L’autore ha per altro sempre esplicitato che l’opera fosse stata pensata come un libro triste e non ironico:
« La tristezza di cui si occupa il libro, e che stavo vivendo io, era un genere di tristezza veramente americano. Ero un giovane bianco, di classe medio-alta, vergognosamente ben istruito, sul piano professionale avevo avuto molto più successo di quanto avrei mai potuto legittimamente sperare, eppure ero come alla deriva. E lo stesso succedeva a molti miei amici. Alcuni si drogavano pesantemente, altri lavoravano con un’ossessione incredibile. Altri andavano ogni sera in qualche locale per single. Si manifestava in molto modi diversi, ma di base il problema era lo stesso. » (David Foster Wallace, Un antidoto contro la solitudine)
E la religione è stata una delle vie per risorgere dal baratro. Wallace infatti si avvicinò, nonostante l’educazione atea, prima alla Chiesa cristiana e poi a quella mennonita:
« Più credo in qualcosa, più prendo sul serio qualcosa che sia altro da me, meno mi annoio e meno mi detesto. E ho anche meno paura. Quando ho attraversato quel periodo difficile qualche anno fa, avevo costantemente paura. »
L’interesse religioso però non è dovuto ad una qualche verità assoluta posseduta da un qualche culto (Wallace infatti non si definirà una persona religiosa e non ha completato alcuna iniziazione ad una chiesa), ma al fatto che gli ambienti religiosi sono luoghi in cui spesso si può parlare di certi argomenti non ordinari e porre certe domande: «Che senso ha la nostra vita? Crediamo in qualcosa di più grande di noi? C’è qualcosa di dannoso nel gratificare ogni nostro singolo desiderio?». E quale luogo migliore per parlare di questi problemi, se non gli Alcolisti Anonimi? Dai quali Wallace, nonostante non fosse iscritto, ha partecipato e imparato, al di là del «sentimentalismo da quattro soldi», lezioni molto importanti. Il comune denominatore di questi due ambienti è infatti la necessità di un rapporto autentico con l’Altro, basato sull’empatia, la capacità di comprendere veramente la persona che ci è di fronte, una lezione che si rivelerà fondamentale. A partire da questo insegnamento, l’obiettivo di Wallace è di recuperare la sintesi tra io e non-io, tra soggetto e oggetto, uomo e mondo, ma anche scrittore e lettore: seguendo la critica di Wittgenstein al linguaggio privato, usato come abuso della sostanza solipsistica in cui si è completamente assorti nel linguaggio del sé, Wallace vuole ristabilire, come vera e propria terapia, i giochi linguistici (attraverso l’Aa, il tennis, le comunità religiose).
18 luglio 2019
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