The Shining è probabilmente il più enigmatico dei film di Kubrick. Tra le diverse letture possibili, sono numerosi gli indizi che inducono a interpretare la pellicola come un approfondimento sulle possibilità di indirizzamento e controllo del comportamento individuale mediante tecniche più o meno mistificatorie di condizionamento ambientale.
di Valter Di Giacinto
The Shining è probabilmente il più enigmatico dei film di Kubrick. In questo caso inoltre, a differenza di 2001: Odissea nello spazio − altra opera aperta a una pluralità di interpretazioni − il riferimento al libro da cui è stata tratta la pellicola non è di grande ausilio. Il romanzo di Stephen King si snoda, infatti, lungo i canoni classici del genere horror. Ci appare quindi popolato, come si conviene al genere, di soggetti dotati di capacità psichiche paranormali e case infestate da presenze maligne, elementi narrativi che, nella trasposizione cinematografica operata da Kubrick (non a caso poco apprezzata da King), finiscono sullo sfondo. Rimane ad ogni modo cruciale, nel film come nel romanzo, l’attenzione rivolta alla struttura al cui interno si svolge la vicenda: l’Hotel Overlook. Mai nome fu più pregno di significati.
To overlook significa, infatti, da un lato l’atto di sovrastare dall’alto, consentendo una vista d’insieme su un dato scenario. In un altro senso, il termine indica anche il sopravvedere, il sorvegliare, il controllare, ossia il compito svolto dal supervisore di una data attività. Ancora in un’altra accezione, infine, to overlook significa trascurare, ignorare, lasciarsi sfuggire qualcosa.
E quella che molti degli spettatori credo abbiano provato uscendo dalla sala dopo la proiezione del film, che si chiude, com’è noto, con una sequenza all’apparenza enigmatica: è esattamente la sensazione di essersi lasciati sfuggire qualche indizio importante ai fini della piena comprensione della vicenda narrata.
La chiave interpretativa che intendo proporre parte dall’assunto che ciò che abbiamo trascurato (overlooked) è precisamente l’Overlook, l’albergo dove ha luogo il dramma e, in particolare, l’esercizio che appare svolgersi al suo interno, che è anch’esso un overlook, ossia un’attività di osservazione e supervisione.
Da un lato, a un livello superficiale, il compito di sopravvedere al mantenimento in efficienza dell’albergo nel periodo invernale in cui la struttura è inutilizzata è esattamente il motivo per cui Jack Torrance viene convocato all’Hotel Overlook assieme alla sua famiglia.
Allo stesso tempo, siamo tuttavia spinti sin da subito a interrogarci su quale sia il motivo per cui si manifesti la necessità che il custode sia accompagnato dai suoi familiari nello svolgimento di tale attività lavorativa. Se il compito era troppo gravoso per venir svolto da una persona sola, non sarebbe stato possibile semplicemente assoldare due o più custodi non legati tra loro da vincoli di parentela (anche alla luce del tragico epilogo che aveva avuto in passato una vicenda simile, che aveva visto uno dei precedenti custodi invernali della struttura fare letteralmente a pezzi l’intera famiglia per poi suicidarsi)?
Tali circostanze suggeriscono che vi potesse essere in programma una seconda attività di supervisione durante l’inverno all’Hotel Overlook, un’attività che avrebbe visto ugualmente Jack Torrance come protagonista, ma stavolta non come sorvegliante, ma in qualità egli stesso di oggetto di osservazione e supervisione.
Come nel Panopticon benthamiano, all’interno dell’Overlook si avverte, infatti, in ogni momento la presenza di un occhio indagatore che scruta costantemente i “reclusi” senza che gli stessi ne siano consapevoli, l’incombere di un soggetto che tiene saldamente in mano le redini del macabro gioco, di cui detta con precisione tempi e modalità di svolgimento. Se siamo, come credo, tutti disposti a escludere l’ipotesi, assai poco kubrickiana, che tale personalità sia un’incarnazione del “maligno” in persona, l’unica ipotesi alternativa valida è che il soggetto in questione sia il regista occulto di una sottile e spietata macchinazione.
Come riuscire a «fomentare artificialmente le cupidigie, per arricchirsi soddisfacendole» (N. Gomez Davila), senza finire per perdere il controllo sociale degli istinti individuali, una volta che questi siano stati liberati dagli atavici freni inibitori. Era questa, come abbiamo visto in precedenza, una delle possibili chiavi interpretative di Arancia meccanica, opera in cui Kubrick aveva mostrato come tecniche di condizionamento di stampo pavloviano, di comprovato successo se applicate agli animali, fossero destinate al fallimento nel caso degli esseri umani.
Il meccanismo di condizionamento visto all’opera in Arancia meccanica, se ci pensiamo, aveva tuttavia una ben precisa caratteristica: la sua perfetta trasparenza. È lo stesso soggetto deviante a stipulare il contratto con cui accetta di essere sottoposto al trattamento, la famigerata cura Ludovico, a fronte di un forte sconto di pena.
Ciò fa tuttavia sì che l’individuo trattato, al manifestarsi della nausea e del disgusto che lo colgono nel momento in cui si trovi nuovamente a deviare dal comportamento socialmente accettato, sia immediatamente in grado di attribuire tale nuova condizione di disagio alle conseguenze del trattamento cui si era volontariamente sottoposto. E da tale consapevolezza matura facilmente in lui il rigetto del trattamento stesso.
Mantenere i meccanismi di controllo sociale così patentemente alla luce del sole li rende, alla fine dei conti, scarsamente efficaci. Il vero potere è, infatti, quello che si esercita nella più completa inconsapevolezza dei soggetti su cui, e per il cui tramite, esso si dispiega.
« Il potere invisibile è anzitutto un potere assolutamente anonimo, di cui noi siamo i portatori, di cui noi siamo il transito, che certamente noi realizziamo, ma non realizziamo come soggetti consapevoli e padroni di questo potere ma, appunto, come coloro che prestano a tale potere il loro corpo. » (Carlo Sini, Politica e verità. Dal potere sovrano al potere invisibile, Festival della politica-Fondazione Pellicani, 2013)
Tra le mille letture possibili, The Shining può essere quindi interpretato come un approfondimento sulle possibilità di indirizzamento e controllo del comportamento individuale mediante tecniche velate di condizionamento ambientale.
In tale ambito, un celebre esperimento fu condotto dal team dello psicologo statunitense Stanley Milgram nel 1961. Obiettivo dello studio era quello di accertare in che misura i fattori ambientali – nello specifico la condizione di soggezione indotta nella persona dall’essere tenuta a fornire la propria prestazione all’interno di un rigido apparato gerarchico-tecnocratico – condizionino il comportamento dei soggetti, fino al punto di poterli indurre a compiere azioni di efferata violenza. Senza entrare nei dettagli, è importante ricordare come l’esperimento si avvalesse di un certo numero di attori che interpretavano ruoli prestabiliti e che interagivano con il soggetto “trattato”, del tutto ignaro delle reali condizioni in cui si trovava a svolgere il proprio ruolo, che solo all’apparenza era quello del supervisore, mentre, in realtà, egli costituiva il vero e unico soggetto posto sotto osservazione.
Se il potere, come ci ricorda il filosofo Carlo Sini, sta esattamente in «ciò che ognuno è pronto a fare» (C. Sini, Il potere invisibile), l’esperimento di Milgram può essere quindi letto come un tentativo di fornire una misura empirica dell’attuale estensione raggiunta dal potere nelle moderne società buro-tecnocratiche.
I parallelismi con la vicenda narrata da Kubrick in The Shining a questo punto dovrebbero essere evidenti, avvalorando quindi l’ipotesi interpretativa che le vicissitudini cui assistiamo all’interno dell’Overlook non siano altro che il logico e consequenziale dipanarsi di un crudele esperimento di manipolazione à la Milgram, articolato secondo la seguente procedura:
1. assoldare una normale famiglia, composta dai due genitori e uno o più figli;
2. separarla per un lungo tempo dall'usuale consesso sociale di appartenenza, in maniera da ingenerare un progressivo distacco ed evitare che il confronto con soggetti esterni finisca per svelare l'apparato mistificatorio su cui ruota l'intero esperimento;
3. esercitare una pressione crescente sul capofamiglia mediante l’impiego di tecniche di condizionamento e persuasione (ricorrendo, ad esempio, a dei sottili trucchi scenografici, unitamente alla recita di un apposito copione da parte di un gruppo di attori allo scopo addestrati), fino a indurlo a ritenere il proprio figlio colpevole dei più atroci misfatti, un comportamento deviante che meriterebbe di essere punito con la pena capitale;
4. verificare se il padre giunge fino alle estreme conseguenze e intervenire fermando, possibilmente, la sua mano nel momento conclusivo in cui egli si accinge a compiere il delitto.
Le scene “rivelatrici”, ai fini di una tale interpretazione, sono numerose. È particolarmente illuminante, ad esempio, l’episodio in cui Jack si trova improvvisamente immerso in un party all’apparenza andato in scena molti anni prima (come si evince dall’abbigliamento dei partecipanti) e, accingendosi a pagare il conto, si sente rispondere dal barman che per lui il drink è gratuito, facendo riferimento, a tale riguardo, a ordini superiori impartiti dalla Direzione («orders from the House»). Al che Torrance replica: «Io sono il tipo d’uomo che vuole sempre sapere chi è che paga i suoi drink», ma si sente rispondere perentoriamente «questa non è una faccenda che lo riguardi, almeno per il momento». A questo punto l’atteggiamento del protagonista muta repentinamente ed egli acconsente in maniera incondizionata («come dice lei, Lloyd», «anything you say», in inglese). A partire da quel momento egli si fa quindi pienamente carico del suo ruolo nel gioco: non è più l’aspirante scrittore Jack Torrance (o quantomeno questo diviene ora un particolare irrilevante), è il custode dell’Overlook. Essendo perfettamente entrato nel suo nuovo ruolo egli è quindi “pronto a fare” tutto ciò («anything you say») che lo stesso impone, ossia ad attenersi, così come fanno tutti gli altri personaggi della messa in scena, agli «orders from the House».
Quello che la “Direzione” richiederà, ai fini di verificare ciò che in concreto Jack è “pronto a fare”, sarà allora (con scarso sforzo di fantasia) nient’altro che una replica del sacrificio del proprio figlio Isacco che il Dio biblico impose ad Adamo come prova di assoluta e incondizionata sottomissione. Gesto che l’inebetito Torrance, ormai totalmente circuito dalla perfetta messinscena architettata dai suoi “osservatori”, si sforzerà in tutti i modi di mettere in atto.
Quanto era apparsa rozza e sostanzialmente inconclusiva la “cura Ludovico”, tanto ferreamente efficace ci appare a questo punto lo spietato apparato manipolatorio che si dispiega d’inverno all’Hotel Overlook.
Con una precisazione: nell’esperimento di Milgram una quota non trascurabile dei soggetti testati riuscì a sottrarsi, almeno in parte, dal gioco, non arrivando a somministrare la dose fatale di scosse elettriche alla persona che avevano come controparte nel “role game”. Nemmeno questa risicata possibilità era stata tuttavia offerta a Jack Torrance, il cui destino era perfettamente segnato sin dalla partenza. Non solo si sarebbe integrato perfettamente nella mortale macchinazione accuratamente predisposta per lui e la sua famiglia: egli ne aveva in realtà fatto parte fin dall’inizio, come esplicitamente affermato dal precedente custode Grady nella scena ambientata nelle rosse toilette della sala da ballo («Lei è il custode qui, anzi, lo è sempre stato») e come testimoniato dalla fotografia su cui si concentra in chiusura l’occhio della telecamera, che vede il protagonista già ritratto all’Overlook in uno scatto risalente al party del 4 di luglio del 1921.
2 luglio 2019