La prima parte dell'intervista al filosofo e jazzista, in cui ci parla del suo rapporto con Hegel e con il maestro Severino, pensatori dell'Origine, dell'infinita avventura della filosofia e delle sue connessioni con le arti e la poesia. Nella seconda parte: Aristotele, Kant, Gentile e Emo; il ruolo dello Stato; la meditazione sull'acqua; Shakespeare e Leopardi.
Vincenzo Vitiello un giorno fu colpito “dalla profondità e dalla sicurezza con cui Lei trattava di un problema tra i più spinosi del pensiero hegeliano, il concetto di Assoluto”. Che cosa disse di così decisivo?
Mah, cosa dissi di decisivo lasciamolo spiegare a Vitiello, che con me è sempre stato molto generoso. D’altro canto, insieme a Emanuele Severino, Massimo Cacciari, Carlo Sini e Piero Coda, Vitiello è stato uno dei miei Maestri. Uno di quelli in relazione a cui mi sono formato. Per quanto riguarda poi la questione dell’Assoluto in Hegel, ecco, direi che si tratta di una questione che mi porto dietro ormai da decenni; forse quella intorno alla quale ho mosso i miei primi passi nel mondo della filosofia. Una questione intorno a cui ancora oggi mi arrovello, e che ritengo costituisca la prova del nove per qualsiasi filosofo che voglia dirsi tale. Pensare l’Assoluto significa fare i conti con la questione con cui ogni autentica filosofia, prima o poi, è costretta a confrontarsi. Perché, se è vero che i filosofi si sono sempre interrogati non tanto su questa o quella questione specifica (se non in seconda battuta), è anche vero che i medesimi sono stati veramente tali sono là dove abbiano saputo interrogarsi sulla questione delle questioni, ovvero soffermarsi sulla questione della Verità, o del Principio (quello che i Greci chiamavano Archè). È evidente, dunque, che fare filosofia ha sempre significato cercare di testimoniare quel Principio che, in quanto “primo” od “originario”, non può essere fondato su nulla (essendo esso, piuttosto, il fondamento di ogni altra determinazione), e per ciò stesso non potrà che essere as-soluto (fermo restando che “assoluto” significa appunto sciolto-da ogni legame, da ogni condizionamento… e forse, proprio per questo, “libero”). Ma, pensare l’Assoluto significa per la filosofia anche pensare la dimensione che, in quanto originaria, non potrà che essere intrascendibile (nel senso che ogni essente la presupporrà come propria condizione di possibilità). E dunque la dimensione all’interno della quale diciamo sì anche la nostra parzialità, la nostra finitezza, e dunque anche la nostra contingenza, ma nello stesso tempo “indichiamo” (con il nostro stesso semplice esistere) quella dimensione che, in quanto assoluta, sarà anche infinita, necessaria e intrascendibile, per l’appunto. Ecco, Hegel è stato il filosofo che forse più di ogni altro ha saputo fare i conti con questa questione da grande testimone; con il rigore di cui solo i grandi sono capaci. E, con un rigore tanto radicale da sapersi fare intrinsecamente ‘aporetico’; da saper sopportare cioè le aporie più radicali – che sono poi quelle che gli hanno consentito di elaborare un pensiero che sarebbe diventato il terreno fertile su cui doveva crescere tutta la filosofia moderna e contemporanea; anche quella più esplicitamente anti-hegeliana. Con Hegel, insomma, non ci si può non confrontare; perché nessuno ha saputo, come lui, parlare anche nelle parole di coloro i quali hanno pensato di potersene liberare con eccessiva leggerezza. E poi, la grandezza del modo in cui Hegel ha saputo fare i conti con la questione dell’Assoluto è dimostrata anche dal fatto che l’autore della Fenomenologia dello Spirito ha saputo comprendere come l’Assoluto avesse intrinsecamente a che fare con una straordinaria figura come quella costituita dalla “dialettica”; una figura intorno alla quale lungo tutto il Novecento ci si è impegnati in un confronto a partire dal quale sarebbero nate tutte le principali correnti filosofiche del nostro tempo. Che l’Assoluto fosse (e non potesse che essere) intrinsecamente ‘dialettico’ è stata la grande intuizione hegeliana; quella che, tra l’altro, gli ha permesso di comprendere che parlare del finito significa indicare immediatamente l’infinito, che parlare della necessità significa chiamare in causa la libertà; che gli ha permesso di comprendere che, in fondo, i diversi (finanche gli opposti) sono sempre anche risolutamente identici. Che l’identità dell’Assoluto, cioè, vive e risuona in ogni sua diversa manifestazione come in ciò che, non solo la rende possibile e giustifica, ma soprattutto lo manifesta per quel che esso già da sempre (non) è.
Conoscendo la sua abilità musicale, si sente più un musicista che fa filosofia o un filosofo che suona?
Domanda difficile, questa; perché tocca un dilemma che mi tormenta da sempre. E da sempre mi costringe a rispondere a domande di questo tipo. E che, soprattutto, mette in gioco la questione della mia supposta identità. Ad ogni modo, sono ormai giunto ad una convinzione: che fare filosofia e fare musica siano in fondo la stessa cosa. Certo, i linguaggi sono diversi – anche solo per il fatto che uno è fatto di “significati”, mentre l’altro solo di “suoni” (come tali non significanti altro che se stessi – come sapeva bene un grande come Hanslick). Ma in entrambi i casi si tratta di “tessere relazioni”. Di ordinare i diversi tasselli (i significati, ossia le parole, e i suoni, ossia le note) in modo tale che la loro morta rigidità venga animata, e la loro astrattezza risuoni in una concretezza che li renda il più possibile vivi. E che sia in grado di chiamarci in causa; di provocarci invitando anche noi (che leggiamo quelle parole o ascoltiamo quei suoni) a modificarci, a trasfigurarci, a diventare persone realmente nuove, e soprattutto vive. Non stanche, cioè; ossia, non irrigidite nei loro pregiudizi, e dunque neppure sempre identiche a sé e prevedibili (e per ciò stesso anche poco interessanti). E poi le dirò una cosa: in realtà, scrivo come se suonassi, e suono come se scrivessi. L’esperienza è per me davvero molto simile. Sia quando suono, sia quando scrivo, infatti, non so bene dove il disegno che ho iniziato a tracciare mi porterà; mi faccio portare dalla logica del discorso, che è quasi sempre più forte delle mie intenzioni, dei miei progetti, della mia volontà Aveva ragione Schopenhauer: e lo capiamo bene scrivendo o suonando, che quel che facciamo, quando ci sembra di essere guidati da una ben precisa intenzione, non sarà mai quello che ci potevamo anche esserci proposti di realizzare. Ci rendiamo perfettamente conto che volendo, in verità non vogliamo; ma siamo voluti da una forza che ci fa andare dove vuole lei. Perciò – come diceva un carissimo amico e grande scrittore, Daniele Del Giudice –, il compositore o lo scrittore sono sempre e solamente i “primi lettori” della propria opera. Che, una volta ultimata, vivrà di vita propria, e se sarà riuscita, li stupirà, proprio così come potrà, nel migliore dei casi, stupire i propri lettori o i propri ascoltatori. Suonare, scrivere, pensare… sono poi attività che non sono asservite ad alcuno scopo. Che vogliono semplicemente essere praticate; che il musicista e il filosofo non possono fare a meno di esercitare, a prescindere da tutto. Sono veri e propri esercizi di libertà, dunque; in cui facciamo e fatichiamo senza un vero perché. D’altro canto, l’impegno a cercare il perché delle cose non può avere nessuna ragione che lo giustifichi; l’impegno che ci spinge a creare, sperando che qualcosa di bello accada, non ha davvero alcuna ragione. Se una ragione vi fosse, infatti, non si tratterebbe di attività libere, ossia di vere esperienze dell’assoluto. Certo, ogni persona può tranquillamente vivere senza filosofia e senza musica; ed assecondare i principi che lo spingono a muoversi nel modo più efficiente e utile possibile per raggiungere un determinato scopo. Ma non interrogarsi sul ‘senso’ del nostro incessante impegnarci per raggiungere gli scopi più diversi (che possono essere nobili, ma anche ignobili – ce ne rendiamo conto tutti, credo) è un po’ come vivere da schiavi, da macchine che non si interrogano sul senso del loro funzionamento. È un po’ come vivere da idioti; e l’idiozia e la stupidità credo siano le cose più terribili che ci possano capitare nella vita (anche se forse… ma non so fino a che punto…. – qualcuno comunque la pensa così – gli idioti vivono spesso più serenamente delle persone intelligenti).
In quale filosofo ha maggiormente riscontrato un pensiero musicale?
Beh, anzitutto il già citato Hegel; anche se la sua musica sarebbe apparsa più come l’esecuzione di una partitura già scritta ab aeterno che come un’improvvisazione alla Ornette Coleman. Da cui quella che ho avuto modo di definire una vera e propria traduzione del tempo in “storia”, e della storia in Destino. Vere e proprie anticipazioni di quello che sarebbe stato realizzato, in forma ancor più radicale, dal mio Maestro, Emanuele Severino; anche lui, però, guarda caso, musicista (almeno, da giovane). Ricordo a questo proposito che l’anno scorso abbiamo presentato a Milano il cd con la musica composta dal Severino diciottenne. Un’operazione che sono riuscito a realizzare grazie all’aiuto e alla generosità di cari amici come Giuseppe Fausto Modugno (pianista), ma anche della direttrice del Conservatorio di Milano (Cristina Frosini), e all’impegno e alla sapienza del Maestro Bombonati. Filosofi senz’altro musicali sono stati poi Bruno e Leibniz. Attenti alla tessitura di una rete concettuale che risultasse viva e ben armonizzata; capace di restituire nella forma del “concetto” il florilegio di consonanze e dissonanze di cui è fatta ogni esistenza concreta. E dunque l’esistenza del cosmo nella sua interezza. Ma musicale sarebbe stato anche il pensiero di Fichte; ossessivamente impegnato a cercare il principio del movimento; anzi, ancor di più, a cercare il principio nella forma di un ‘atto’, di un’azione, di un moto… lo stesso che anche a Goethe sarebbe apparso come vero e proprio principio di tutto (si pensi al Faust). Filosofi musicali, oltre che musicisti (come il sottoscritto) sarebbero poi stati, tra l’Otto e il Novecento, anche Nietzsche e Jankelevitch. Affidati entrambi ad una teorizzazione sempre irrequieta; incapace cioè di ancorarsi alla propria radice come ad un fondamento inconcusso, ma amanti piuttosto della danza, della fluidità, e dunque di un’armonia sonora in grado di poetizzare la rigidità del tempo cronologico e farlo diventare espressione intraducibile di un’aporetica (perché impossibile) ripetizione del mai identico a sé. Ma fortissimamente musicale si sarebbe rivelato anche il pensiero di Deleuze; che, con le sue pieghe e i suoi chiasmi avrebbe saputo restituire con grande levità e fantasia (ma insieme con grande profondità) il tessuto costitutivamente poroso dell’umana esistenza. Insomma, non pochi sono stati i filosofi capaci di produrre un pensiero quintessenzialmente musicale; e già nell’antichità troviamo alcuni sorprendenti esempi di una tale attitudine. Dall’immenso Pitagora (non a caso anche scopritore di alcuni importanti segreti della forma musicale) – che riteneva che al fondo di tutto risuonasse il timbro celestiale prodotto da un’armonia sostanzialmente metafisica – al mai abbastanza interrogato Eraclito. Fautore di un’armonia contrastante come quella dell’Arco e della lira. Come quella di cui sembra esser stato capace Apollo. A cui Nietzsche, peraltro, pensò di abbinare l’estro talvolta finanche distruttivo di Dioniso – da lui connesso, in ogni caso, alla potenza incoercibile propria solo del fatto musicale.
Perché i filosofi hanno un qualche timore della poesia?
Cominciamo col ricordare che già Platone parlava di una palaia diaphorà (antica inimicizia) tra poesia e filosofia. E forse non si trattava di un timore del tutto ingiustificato; un timore che, comunque, definirei reciproco. Ché anche la poesia mal sopporta la sequenzialità, ossia la linearità del discorso filosofico. Diciamo che si tratta di due linguaggi costitutivamente ‘incomponibili’. Perché da un lato il linguaggio poetico ha orrore per la definizione (si pensi solo al disprezzo che manifestava Leopardi per la ‘precisione’ del linguaggio filosofico-scientifico), non sopporta cioè la pretesa della forma logica che crede di poter catturare l’essente, ossia le cose del mondo, e restituire – appunto in forma linguistica – la loro essenza nel modo più chiaro e distinto (per dirla alla Descartes) possibile. E non può sopportarla! Certo, perché per sua natura la poesia evoca si il mondo, ma si limita a ricostruirne l’immagine comunemente percepita come reale. Si preoccupa cioè non tanto di capire cosa gli essenti siano veramente, quanto piuttosto di far emergere la complessità di connessioni, di correspondances (per dirla con Baudelaire), che vanno ben oltre quanto un atteggiamento definitorio ed essenzialistica può cercare di guadagnare. La poesia, potremmo anche dire, amplifica i significati cari al senso comune; li deforma, li ridisegna, ne porta alla luce gli infiniti rinvii, le infinite risonanze, li affida cioè alla phantasia e non ha alcun interesse per ciò che le cose finiscono ogni volta per essere, là dove ci si trovi impegnati a servirsene per gli scopi pratici che la vita quotidiana ci impone di raggiungere. La poesia è inevitabilmente sospettosa, dunque, nei confronti di chiunque pretenda di chiudere “la cosa” in una definizione intorno alla quale tutti possano convenire. La poesia ama la differenza; non cerca il consenso, l’accordo. Non nasce da un patto sociale. Non è utilizzabile in vista di nessun fine pratico. E dunque non si preoccupa neppure di tenere fede alla non-contraddittorietà. Per il poeta, cioè, una montagna, di per sé (per il senso comune e per la scienza) pesante, può anche essere leggerissima, volatile, aerea. Può trasformarsi cioè in una realtà puramente spirituale e farsi oggetto di una visione simbolica in relazione alla quale essa non sarà neppure più una montagna (ricordiamo che Magritte avrebbe dipinto una pipa di cui avrebbe detto non essere una pipa; ma si pensi anche alla montagna ossessivamente dipinta da Cezanne… che in certe sue rappresentazioni finisce per confondersi con l’aria che la circonda).
E la filosofia? Beh… evidentemente la filosofia, sin dal suo nascere, ha cercato (spesso disperatamente – ad esempio in Platone) di distinguere la verità dall’errore, di distinguere il bello dal brutto, il bene dal male. E dunque si è posta nei confronti del mondo con un atteggiamento ben diverso da quello fatto proprio dai poeti. Il filosofo ha sempre voluto realizzare un sapere incontrovertibile; stabile, condivisibile, intersoggettivizzabile. Ha sempre rifuggito le rappresentazioni soggettive, a favore di un sapere supposto oggettivo, che non lasciasse alcuna incertezza al ricercatore. Ma non a lungo la filosofia è rimasta espressione di un atteggiamento del genere; valevole come estremizzazione ed esasperazione delle certezze di cui è capace il senso comune. Trasformando la loro labile consistenza in qualcosa di inviolabile e per ciò stesso connotato metafisicamente. Già in epoca barocca, però, questa pretesa ha cominciato a rivelarsi utopica, e soprattutto lontana da quel che le cose del mondo sembrano comunque destinate a farci comprendere. Già nel Seicento, cioè, ci si sarebbe resi conto che compito della filosofia avrebbe potuto essere anche essere quello, invece, di riconsegnare le cose alla loro naturale ambivalenza, alla loro costitutiva contraddittorietà. Shakespeare sarebbe stato maestro in questo senso. Il mondo avrebbe cominciato a manifestarsi come caos incoercibile e normabile solo da un intelletto astratto, ignaro, in quanto tale, della confusione che regna nella realtà. Ne avrebbe fatto le spese anche il mitico Don Chisciotte. La filosofia comincia così a proporsi di far emergere i paradossi che ogni realtà di fatto custodisce; impegnandosi a svolgerne le infinite implicazioni. E il mondo avrebbe cominciato ad apparire come un universo fluttuante, ricoperto da scura caligine che ci impedisce di tagliare le cose con l’accetta e restituirle ad oppositività reali e sempre uguali a se stesse. La filosofia avrebbe sempre più consapevolmente cercato di riconsegnare l’ordine ritenuto per vero dal senso comune alle sue aporie di fondo. Cercando per ciò stesso di ridefinire lo statuto epistemologico dell’umana conoscenza; e pervenire ad una nuova assiologia, ad una nuova ontologia, ed a conformarsi al mondo per come esso “non-è”; piuttosto che per quel che esso ‘sembra’ essere. Ma in questo modo la filosofia avrebbe cominciato a rivedere l’idea che anticamente si era fatta della poesia. E avrebbe cominciato a riconoscere proprio nella poesia e nel mito le forme esemplari, ossia i paradigmi di una nuova forma di sapere. La cosa sarebbe emersa con tutta la sua forza nel corso della grande epopea romantica; si pensi solo ad autori come Novalis o Hölderlin, che tanta influenza avrebbero avuto sulla filosofia otto-novecentesca, e quanto siano stati importanti per essi filosofi come Schiller, Fichte e Schelling. Il sapere stava ormai imboccando una nuova direzione, e il rapporto tra poesia e filosofia avrebbe assunto connotazioni sino ad allora del tutto inedite. In questo senso, il Novecento sarebbe stato ancora più chiaro; e non sto pensando solo ad Heidegger e al ruolo da lui assegnato al linguaggio poetico, ma sto pensando anche ad autori come Derrida, Deleuze e Jabes, ad autori come Celan o come Artaud; che tanta influenza avrebbero avuto sul pensiero del nostro tempo. Come sa molto bene Enzo Vitiello, la filosofia non può più rimanere indifferente alle testimonianze e al coraggio dimostrato da poeti che avrebbero saputo condurre il linguaggio della tradizione ad una definitiva catastrofe, arrischiandosi ed azzardando un rapporto quanto mai paradossale con l’insondabile origine del significare medesimo.
Si è laureato con Emanuele Severino. È lui il più importante filosofo vivente?
Posso solo dire che Severino è sicuramente uno dei pochi filosofi che rimarrà nel futuro; di lui si ricorderanno le opere e continuerà a venire studiato come un ‘classico’. Se non altro perché la sua filosofia è assolutamente originale; anzi, unica. Una filosofia che si pone oltre tutte le testimonianze dell’Occidente – di cui pur è anche figlia. Una filosofia che pensa “in grande” – come deve fare ogni vera filosofia. Una filosofia che pensa l’essente alla luce del Destino; che non intende porsi cioè come espressione della semplice opinione di un filosofo (nella fattispecie, Emanuele Severino), ma come manifestazione della Necessità. A partire da La struttura originaria, Severino ha inteso porsi oltre ogni semplice esercizio ermeneutico; e ha ritenuto di doversi fare testimone di una verità rispetto alle quale anche le sue parole faticano a farsi inoppugnabile testimonianza. Non a caso, nel corso degli anni, il filosofo bresciano ha continuato ad affinare il logos facente capo alla Struttura Originaria; consapevole del fatto che anche il linguaggio che si vuole testimonianza del Destino può avere delle cadute; che è costitutivamente imperfetto. D’altro canto, Severino sa anche molto bene che è la stessa verità a non poter fare a meno dell’errore – indipendentemente dal quale non potrebbe neppure palesarsi come verità. E poi il discorso che viene articolato nei testi di Severino è l’unico che consente oggi una grande lettura della storia – come quella già disegnata dal grande affresco hegeliano. Consentendoci di interpretare il tempo presente di là da giudizi più o meno ragionevoli, più o meno convincenti di cui sono pieni gli scaffali delle librerie. Il suo è infatti l’unico discorso che provi a rendere ragione del tempo presente riconducendolo alle sue vere radici; ossia, al nichilismo essenziale che inizia con i Greci. Quella di Severino è insomma una delle pochissime testimonianze che nel tempo presente non si conformano alle mode e ai tic del presente. Per questo il suo è un pensiero con il quale è impossibile non confrontarsi. E i filosofi che non hanno fatto i conti con il pensiero di Severino si riconoscono subito. Ché spesso il loro discorso si confonde con il chiacchiericcio filosofeggiante di molti altri colleghi, che non riescono a tagliare il presente come avrebbe fatto Fontana con le proprie tele. Che non riescono cioè a incidere con le proprie parole un segno indelebile nella storia della civiltà, che sia capace di invitare il nostro sguardo a spingersi oltre il commento più o meno erudito dei fatti e dei testi, e dunque a lasciarsi alle spalle interpretazioni più o meno plausibili, ma del tutto estemporanee e quindi destinate a manifestare un semplice e spesso assai poco interessante pregiudizio.
Se la filosofia è un’avventura senza fine, qual è almeno il suo compito?
La filosofia è senz’altro un’avventura senza fine, lo ribadisco; e lo è almeno per un motivo: perché nessuna realtà ci interpella senza fare cenno alla propria originaria condizione di possibilità; ossia senza chiamare in causa il principio di tutto. E dunque il fondamento infondato di cui nulla potrà mai rendere ragione. Per questo nessuna realtà potrà smettere di interrogarci; infatti, là dove ad apparire, nel suo stesso manifestarsi, fosse appunto quel principio di tutto di cui è anch’essa necessariamente espressione, non potrebbe che venirci incontro quella mancanza di ragioni (che caratterizza la ragione di tutto) che non può fare a meno di chiedere quel che peraltro mai potrà essere restituito alla medesima: ossia, una ragione. Il fatto è che ci mancherà sempre una ragione; come dire che ogni finito continuerà ad essere manifestazione di un’infinitudine destinata a smentire qualsiasi risposta si possa essere in grado di rinvenire. Stante che ogni risposta non potrà che darsi con quel segno affermativo, di cui l’origine (in quanto infinita o incondizionata) non può che essere “negazione”. Insomma, la filosofia non giungerà mai alla propria fine; ché il suo fine è appunto l’origine. Ma quest’ultima continuerà sempre e in ogni caso a dirci di non essere il risultato che si potrà di volta in volta essere guadagnato. Ma se il risultato cui dovessimo pervenire, in quanto concepito alla luce dell’origine (che è sempre anche la sua origine), non potrà fare a meno di mostrarsi come quel che la sua origine propriamente non-è, diventerà per ciò stesso necessario tornare ad interrogare il principio che ci mostra, ogni volta, di non essere quello che è. Certo, la risposta che potremo dare si disegnerà sempre nella forma affermativa che ogni dire (anche quello configurantesi come negazione assoluta) sembra non poter che manifestare. Non vi sarebbe, infatti, neppure la negazione, se non venisse affermato quello di cui la negazione si dice appunto negazione. Ma la risposta ultima torna a dirci di non essere quello che peraltro non potremo fare a meno di dire, della medesima. D’altro canto, neppure il principio, in quanto incondizionato e infinito, sarà mai quello che riusciremo a dire, di esso. Dunque, esso non sarà quello che crederemo di esser riusciti a capire, del medesimo, ma neppure la cosa che ci aveva mosso all’interrogazione, sarà più quello che sembrava essere, appunto, nel chiamarci all’interrogazione (nel muoverci a cercare il suo principio). Anch’essa, infatti, mostrerà di non essere quel che sembrava essere, prima che ci impegnassimo a ricondurla al suo principio; facendola diventare manifestazione del medesimo – e dunque negazione della propria determinatezza. Il discorso sembra complesso; ma lo è molto meno di quanto possa sembrare. Si tratta di comprendere anzitutto questo: che se ogni cosa parla del principio, e lo mostra (in quanto capace di muoverci alla ricerca delle sue condizioni di possibilità), per ciò stesso mostra quel che essa medesima per l’appunto non è. Ma in seconda battuta si tratta anche di comprendere che neppure il principio sarà mai quel che avremo trovato in seguito alla ricerca cui ci avrà mosso la cosa (in quanto interrogabile e affidata alla possibilità di esser altro da quel che sembra essere). Neppure il principio, cioè, per definizione infinito e incondizionato, potrà sentirsi rappresentato da quel che sempre affermativamente potremo dire, di esso. D’altronde, interrogarsi al cospetto del reale significa esser consapevoli del fatto che le cose potrebbero anche essere diversamente da come sembrano costituirsi agli occhi del senso comune. Ma, affinché venga avviata la ricerca, è necessario che nella cosa, a parlare, sia appunto il principio; solo esso potendoci mettere sull’avviso del fatto che la cosa potrebbe anche non essere quel che sembra essere. Perché suo principio è appunto il non esser mai quel che è, da parte di quel che è.
Lo so, non sono questioni facilissime, ma bisogna inoltrarsi per queste vie, se vuole capire perché – di là da troppo facili retoriche – la filosofia non potrà mai aver fine. E che il suo compito, dunque – per tornare alla sua domanda –, non potrà che essere quello di liberare le cose dalla loro parvente determinatezza. Dall’apparente rigidità con cui si presentano in quanto oggetti, e con cui sembrano indicare un percorso realmente diretto ad una conclusione definitiva. Compito della filosofia è dunque anzitutto quello di “liberare” il reale da quella rappresentazione in virtù della quale ogni cosa sembra davvero essere quel che è. Un compito vitale, certo; che, solo, può farci restituire alle cose una vita infinita. Coincidente, guarda caso, con l’infinità di una ricerca, che là dove funzioni correttamente, non potrà che sentirsi essa medesima affidata ad un cammino libero da qualsivoglia destinale conclusione. La filosofia è insomma un vero e proprio esercizio di libertà; che nulla ha a che fare con il fatto che nel suo orizzonte sembra poter venire detta qualsiasi cosa. Come se suo fosse l’ambito della mera doxa; dove le opinioni si confrontano in modo del tutto arbitrario, e dove, più che come ricerca della verità (di una verità che già da sempre abitiamo, essendo tutti inscritti all’interno dell’orizzonte intrascendibile disegnato dal Principio), la filosofia rischia di presentarsi come ambito all’interno del quale sarebbe possibile sostenere qualsiasi tesi, in modo del tutto arbitrario, come accade quasi sempre nei talk show televisivi.
Prossimamente, la seconda parte dell'intervista.
16 maggio 2019