A tu per tu con... Vittorio Possenti

 

L'intervista al filosofo romano che ha dedicato la sua vita a difendere le ragioni intramontabili del realismo classico contro la deriva debolista dell'ermeneutica heideggeriana e a mettere in guardia da sue possibili ricadute nel campo etico, giuridico e sociale. Tra Maritain, Tommaso, Marx e Kelsen.

 

 

Si è definito un “realista incallito”. Che cosa intende? 

 

Realismo significa che la persona può ottenere una conoscenza stabile del reale, che il suo conoscere non è illusione, che può raggiungere la verità. Incallito perché tale persuasione, messa alla prova positivamente molte volte, mi accompagna da lungo tempo. Il realismo modera le pretese alla conoscenza assoluta dell’idealismo e lascia da parte empirismo e scetticismo.

 

Che cosa non la convince del “Nuovo realismo”?

 

Dapprima occorre stabilire il significato di ‘Nuovo realismo’, termine non inconsueto a cui si è fatto ricorso varie volte nel secolo scorso, a partire dal movimento per il New Realism del 1912. Poi vennero le sue riprese anglosassoni, tra cui intorno al 1980 quella di H. Putnam. Il termine ‘nuovo’ non è in genere appropriato: il realismo come dottrina della conoscenza rimonta ai Greci, sebbene il termine ‘realismo’ emerga verso il XV secolo. Questo il realismo che merita il nome di ‘classico’, continua il suo cammino anche oggi, quando la filosofia moderna e la dottrina della conoscenza dei moderni si sono concluse da molti decenni. Nel XX secolo il periodo di maggior fulgore del realismo classico è stato la prima metà del secolo (Maritain, Gilson, De Finance, Fabro, etc), poi esso ha continuato il suo cammino e le sue produzioni ma nell’ombra, in quanto il circo mediatico e le mode e correnti filosofiche si muovevano in altre direzioni. Dunque, per il realista ha poco senso parlare di nuovi realismi e di loro rinascite, poiché il realismo classico non è mai andato via, ed anzi si può ritenere che dopo l’immenso dibattito sulla filosofia della scienza, sul fallibilismo ed altro, abbia le carte in regola per offrire validi indirizzi al processo del filosofare dopo la conclusione della modernità filosofica. Per quanto concerne il nuovo realismo italiano di alcuni anni fa, mi convince l’intenzione di pervenire ad una conoscenza delle cose che sono e come sono (la conoscenza della verità), mi convince poco il carattere rudimentale e facile con cui tale nuovo realismo sviluppa la dottrina della conoscenza, perlopiù lasciando da parte ogni metafisica.

 

Già Heidegger, parlando di crisi della filosofia, auspicava un rinnovamento profondo della coscienza filosofica. È avvenuto?

 

La ricerca filosofica mira ardentemente a rinnovarsi in ogni momento, e questo è accaduto anche nel ‘900 nei modi più vari: sarebbe possibile ripercorrere le varie scuole e mostrare i loro propri tentativi di autorinnovamento e di incrocio con altre correnti. Se poi ci si eleva al livello della metafisica come Scienza prima, il discorso diventa radicale: al seguito di Nietzsche, Heidegger ha annunciato la disfatta della metafisica dai Greci a noi, e il suo oltrepassamento. L’influsso di Heidegger è stato notevole nel senso di diffondere l’idea della morte della metafisica. Partendo da premesse opposte a quelle di Heidegger, in Italia Severino ha parlato anche lui dell’errore della metafisica da Parmenide a noi, un unico errore destinale che tutti avvolge, e che si manifesta come nichilismo nel senso del tutto peculiare che Severino dà a questo termine (il continuo riferirsi al nichilismo da parte di tanti significa poco o nulla e aumenta la babele, perché pochi si premurano di determinarne il concetto). A mio parere le filosofia del realismo classico può offrire aiuti considerevoli e molti stimoli per analizzare criticamente le posizioni speculative oggi prevalenti. La filosofia dell’essere dell’Aquinate e dei grandi tomisti dell’ ‘800 e ‘900 non è toccata dalla crisi moderna. Essa ha continuato il suo cammino nel Novecento, fornendo una rigorosa visione metafisica, e mostrando di non essere coinvolta nella dissonanza e confusione postmoderne. Essa è dotata di capacità di futuro.

 

A che punto è la tanto invocata ricostruzione della filosofia politica?

 

Da decenni la filosofia politica si è emancipata dalla cattura delle posizioni in senso lato positivistiche e ha concentrato l’attenzione sulle questioni di libertà, giustizia, diritti; intanto è ripresa l’attenzione al nesso religione-politica e al tema antropologico, assolutamente primario per ogni questione di dottrina politica. Qui le posizioni sono spesso divaricate tra una concezione funzionale ed una sostanziale dell’essere umano, con riflessi importanti in campo bioetico e biogiuridico.

 

Marx è morto tutto o ne resta qualcosa di vivo?

 

Il marxismo fu in Europa occidentale alla metà del secolo scorso la filosofia preminente. Sartre lo considerava il non plus ultra dell’epoca, l’avanguardia vincente del pensiero. Negli stessi anni Aron giudicava il marxismo come oppio degli intellettuali. Certo, il marxismo esercitò un influsso forte sul ’68, insieme a freudismo e radicalismo, ma già alla fine degli anni ’70 la crisi del marxismo teoretico era al culmine, eppure pochi se ne accorgevano. Partecipai negli anni ’80 e ’90 a incontri ufficiali tra delegazioni della Santa Sede e delegazioni marxiste a Budapest, Klingenthal, Mosca dove si notava una scarsa fiducia dei marxisti stessi nel loro sistema. Oggi Marx non può aiutare se si volesse impiegarlo per un rilancio dell’ateismo (l’ateismo di Stato sovietico e dei paesi vicini è stato una bruttura incancellabile, per la quale non si sono sentite sufficienti mea culpa), né può aiutare nell’intendimento dell’evoluzione dove il materialismo dialettico è veramente povera cosa. Il marxismo residuo potrebbe forse dare una mano per aumentare il disincanto sul mercato, le merci, la pubblicità che anestetizza le coscienze, l’idea che il denaro può comprare tutto. Marx non è stato il Galileo delle scienze sociali, ma ha avuto intuizioni sociologiche da non buttare via. L’immenso limite del marxismo, oltre all’ateismo di fondo, è tuttora la mancanza acuta di una concezione adeguata della persona. D’altro canto la critica radicale di Marx alla società allora esistente non rappresenta lo strumentario concettuale più "forte" per criticare la società attuale, mentre lo è l’Insegnamento Sociale della Chiesa, volto tra l’altro contro l’egemonia del pensiero unico. Le persone, nell'illusione di acquisire attraverso tecnologie sempre più sofisticate capacità e poteri eccezionali, non si rendono conto di essere (anche) strumenti passivi e dipendenti dalla prossima innovazione che verrà introdotta, e per la quale viene sapientemente costruita l'aspettativa.

 

Per Wittgenstein, “filosofare è respingere argomentazioni sba­gliate”. Non è anche tanto altro? 

 

Filosofare è tendere alla conoscenza della verità; per giungere a ciò è certo necessario mostrare l’inconsistenza delle argomentazioni errate, tuttavia sarebbe riduttivo ricondurre la filosofia solo a questo, perché vi è bisogno di un approccio positivo al reale, ossia sapere quale sia la veritas rerum.

 

La scienza conosce più della filosofia?

 

Scienza e filosofia sono due forme di conoscenza entrambe necessarie e tra loro distinte, per cui è forse improprio valutare se una conosce più o meno dell’altra. L’oggetto verso cui si volge la scienza è l’universo fisico e in esso i suoi vari gradi sino all’ambito della vita. Qui l’interesse conoscitivo primario è quello di accertare e scoprire il funzionamento e le leggi della natura e la possibilità che una loro parte possa essere espressa in termini matematici e secondo equazioni di vario genere: per questi motivi l’ambito delle scienze è immenso. Quello della filosofia è ancora più vasto e profondo, poiché essa si rivolge all’Intero o al Tutto, sia al mondo visibile come a quello dello spirito, sia al finito coma all’infinito. Tuttavia la modalità della conoscenza è diversa in quanto la filosofia cerca i principi primi, le cause prime e i fini ultimi di tutto ciò che esiste e le loro modalità di esistenza. La filosofia cerca principi e cause universali che riescano a spiegare o a render conto di tutto ciò che esiste, ossia le sue ragion d’essere. Essa risponde alla domanda perché, mentre la scienza a come le cose funzionano. La differenza tra scienza e filosofia risalta ad esempio nel caso della creatio ex nihilo dell’universo. La scienza conosce il mutamento e il divenire delle cose, ma non può mostrare se il mondo sia stato creato o meno; la filosofia dell’essere lo può mostrare, perché la filosofia ha mezzi conoscitivi diversi da quelli della scienza: l’idea di essere e delle sue proprietà universali, la causa, l’atto e la potenza, etc. Qui vale la pena di ricordare l’incongrua posizione di Hawking, secondo cui l’universo sarebbe uscito da solo dal nulla, ma è facile intendere il non senso di tale asserto che non è scientifico e che a livello filosofico non si pone il problema decisivo del nihil absolutum.

 

Perché ritiene che la parola Essere possa risultare equivoca? 

 

Nel linguaggio comune ricorriamo ai termini essere ed ente – specialmente al primo – come fossero sinonimi, e talvolta lo fanno anche i filosofi. Però in filosofia a stretto rigore non possiamo procedere in questo modo: l’essere è un verbo e dunque un’attività, mentre ente è un sostantivo, un soggetto-sostanza. Il primo concetto che noi formiamo, almeno implicitamente, è la nozione di ente, “tutto ciò che è o può essere”. Prendere le mosse dall’ente offre le point de départ più universale e concreto, e ci pone sul giusto cammino. Partire dall’essere è tutt’altra cosa, in quanto l’essere è una nozione astratta e indeterminata con il rischio che il singolo pensatore vi versi dentro quello che desidera e ne deduca quello che vuole. Prendere le mosse dall’ente non consente simili arbitrarie libertà, perché esso è il concreto.

 

Qual è il filosofo che ha segnato il suo cammino filosofico?

 

In realtà sono due, tra loro uniti strettamente nonostante la differenza di circa sette secoli tra di loro: Maritain e san Tommaso d’Aquino. Incontrai il pensiero del secondo al liceo nel corso di storia della filosofia e anche con qualche lettura personale. Quanto a Maritain fu la Fuci torinese a farmelo scoprire attraverso Umanesimo integrale (1936) che lessi a vent’anni e da cui ricevetti l’impronta della sua ‘razionalità appassionata’ e la scoperta di un umanesimo per i tempi moderni e postmoderni. Questa prospettiva rimane tuttora una delle più alte proposte della filosofia moderna nel suo corso secolare. Lo studio di Maritain e dell’Aquinate è proseguito nel corso degli anni, allargandosi dall’ambito della filosofia dell’azione e della politica ai campi della metafisica, della dottrina della conoscenza, della filosofia della storia e dell’antropologia personalistica, della questione del male. Nel corso degli anni ho studiato con passione le posizioni filosofiche di Aristotele, Heidegger, Gentile, Hegel, Popper, Agostino. 

 

Se il pensiero debole, per lei, rischia di tramutarsi in pensiero facile, quale sarebbe il pensiero necessario? 

 

Il pensiero debole, che sembra dopo circa 30 anni aver esaurito la sua spinta, è nato come interpretazione, indebolita appunto, di alcuni aspetti della filosofia di Heidegger, in specie quelli di un allontanamento crescente e indebolimento della tradizione della metafisica, che si tramanda diventando sempre più evanescente e che risulta comunque avversa ad ogni sapere stabile (il cosiddetto pensiero forte). Tutto è ermeneutica che si tramanda e muta con l’evolvere del tempo. Il pensiero necessario è quello che si confronta con la realtà, ossia con la totalità dell’essere e della vita e che cerca di stabilire come stiano le cose, il che si verifica in un giudizio dichiarativo invece che in un’ermeneutica infinita. D’altro canto il pensiero debole può essere inteso come un allontanamento dalla metafisica moderna razionalistica, oggettivistica e lontana dalla vita, ed in ciò mi troverei in certo modo d’accordo. Nel volume Ritorno all’essere. Addio alla metafisica moderna sostengo la conclusione della filosofia moderna nel suo ciclo da Cartesio a Gentile, e la ripresa storica e teoretica della filosofia dell’essere nel suo cammino moderno e postmoderno. In breve, la filosofia moderna non ha più capacità di futuro e non può essere ‘ripresa’, rilanciata, e continuata, la filosofia dell’essere sì.

 

Perché accusa Kelsen di antipersonalismo? 

 

Kelsen ha sempre ritenuto che il concetto di persona fosse una finzione giuridica, un artificio del pensiero per trovare un centro di imputazione cui attribuire una responsabilità e un reato. In nessun’altra parte è evidente il fallimento di Kelsen che là dove discute il concetto di persona, tentando di dissolverlo. Per l’autore il soggetto di diritto o la persona «è soltanto un’espressione unitaria personificante d’un gruppo di obblighi e di autorizzazioni giuridiche, cioè di un complesso di norme»«Se si deve distinguere il concetto scientifico-naturalistico dell’uomo dal concetto giuridico di persona, questo non significa che la persona sia una particolare specie di uomo, ma che i due concetti rappresentano due unità completamente diverse. Il concetto giuridico di persona o di soggetto del diritto esprime solo l’unità di una pluralità di obblighi o di autorizzazioni…». In ogni caso per Kelsen occorre liberarsi del carattere sostanziale della persona e mantenere una netta distinzione tra uomo e persona – forse considerate soltanto finzioni – mentre «reale è soltanto il comportamento umano».

 

È possibile fare a meno del tema teologico-politico?

 

Sino a quando vi saranno religioni e teologie, sarà impossibile fare a meno di tale tema. Anche nell’Europa largamente secolarizzata vi sono numerose teologie politiche, in quanto il nesso tra religione e politica è consustanziale alla vita umana, ed è un’illusione pensare che scompaia. Anche le posizioni severamente secolaristiche sviluppano specifiche teologie politiche.

 

Perché la presenza pubblica della religione in Europa è alquanto precaria?

 

All’incirca dal tempo della Rivoluzione francese e del pensiero liberale radicale si è voluto fare della religione e in specie del cristianesimo un evento intimo, interno alla coscienza, che non avesse influsso sulla sfera pubblica. Questo nucleo è ancora presente in taluni Paesi europei, forse in specie in Francia e Belgio dove vige tuttora la strana religione della laicità pura e dura. Però la situazione è in movimento un po’ dovunque, e numerosi studiosi hanno segnalato da 30 o 40 anni in qua la nuova presenza delle fedi nella sfera pubblica.

 

Il nichilismo è un veleno o è sopportabile (persino necessario talvolta) se assunto in piccole dosi?

 

Il nichilismo è un nome di cui si parla e si straparla con grande frequenza. Dal momento che molti lo impiegano come un passepartout, è un termine molto usurato, un nome ‘usa e getta’ che significa ben poco. A meno che si compia lo sforzo, del tutto indispensabile e faticoso (rimane vero anche oggi che pensare in profondità richiede grande e incessante fatica), a meno che appunto ci si impegni a determinare il contenuto di tale nozione polivoca e sfuggente. Se per nichilismo intendiamo l’abbandono dell’idea di verità, l’assunto che la verità stabile sia violenza, l’idea che non c’è una realtà che misura i nostri giudizi, e la svalutazione di tutti i valori a motivo della pressione della volontà di potenza per cui non ci sono azioni in sé buone o in sé cattive, allora il nichilismo è un veleno mortale in qualsiasi dose.

 

Che cosa accade quando il materialismo si allea con la tecnica?

 

Si eleva al quadrato il dogma secondo cui ciò che è tecnicamente possibile è moralmente lecito, e si ritiene che la persona sia solo un pezzo di materia, certamente di notevole complessità, che però si esaurisce in ciò.

 

Ha ben descritto in un libro l’età delle pretese. Che cosa opporre all’ipertrofia dei diritti?

 

Le carte dei diritti nutrono enfasi sui diritti e un certo silenzio verso i doveri, per cui la figura del dovere è quasi scomparsa dall’orizzonte di non poche culture politiche. Esse spesso riconducono il diritto ad esclusiva espressione di volontà, seguendo il cammino indicato da Nietzsche e da Kelsen che a mio avviso conduce al nichilismo giuridico, un fenomeno che ha investito non scarsamente l’universo del diritto. Col richiamo al volere l’‘io voglio’ prende il posto del ‘tu devi’. La dimenticanza del dovere e l’inflazione dei diritti accade sotto la pressione delle pretese più varie che, alimentate dalla tecnica, si travestono da ‘diritti’ di coloro che hanno voce nella sfera pubblica. Merita sottolineare che in questo processo mena la danza la tecnica e più ancora la sua ideologia secondo cui ciò che è tecnicamente fattibile è ipso facto moralmente lecito.

 

Che cos’ha ancora da dirci Maritain?

 

Come ogni grande filosofo, Maritain non è rinchiuso nella propria epoca. Egli può parlare ai contemporanei e a coloro che verranno dopo in numerosi campi: metafisica, etica, filosofia dell’arte, della politica, della storia, e dell’educazione. Ed è quanto auspico fortemente che accada, dal momento che il filosofo francese è un nome rispettato ma spesso un pensiero sconosciuto. Forse un po’ di ironia viene qui utile: Maritain doveva sormontare due enormi ‘difetti’ e vi è riuscito solo in parte, ma non per sua responsabilità. Ed ecco i due ‘difetti’: era un metafisico di razza in un’epoca in cui dovunque risuonava lo slogan della morte della metafisica; ed era un cattolico in anni in cui in non pochi ambienti questo era un nome di condanna. Quando poi il primo e il secondo aspetto si congiungono in una sola persona, le difficoltà aumentano enormemente. Può darsi che in futuro questi due ‘difetti’ vengano meno.

 

Perché ritiene che la propria vita sia indisponibile?

 

Non ricorro volentieri al termine di indisponibilità. In effetti noi ‘disponiamo’ costantemente della nostra persona con le nostre scelte quotidiane. Qui invece si tratta della soglia ultima dell’esistenza dove è in gioco l’inviolabilità della persona; essa in coscienza può dare indicazioni anticipate di trattamento, quale ad esempio quella di evitare nella fase terminale della vita ricorso a cure sproporzionate, sperimentali ed altro.

 

Sul suicidio sta più con la Chiesa (peccato) o con Kant (atto contro la persona)?

 

In una prospettiva di fede il suicidio può essere ritenuto un atto di incredulità nei confronti di Dio, come riteneva Bonhoeffer; nell’ambito della filosofia vi sono posizioni contrarie al suicidio come quella di Kant e posizioni favorevoli come quelle degli Stoici e per certi aspetti di Plotino. È  significativo che nell’Antico Testamento siano riportati senza giudizio negativo diversi casi di suicidio. In entrambe le posizioni si esprimono esigenze valide che possono congiungersi: un’esigenza religiosa di dipendenza da Dio creatore della vita ed un’esigenza religiosa e filosofica di rispettare in noi la persona che noi siamo.

 

A un allievo che gli domandò cosa fosse l’Essere, Jean Guitton rispose di leggere Platone, Aristotele, san Tommaso, sant’Agostino, Heidegger, Sartre e Marcel. Lei chi consiglierebbe? 

 

Platone, Aristotele, san Tommaso, sant’Agostino, Maritain, Heidegger, mentre consiglierei di non leggere coloro che pensano la metafisica solo come Logica, poiché perdono sin dal primo passo la concretezza dell’esistenza. 

 

9 maggio 2019

 







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