Graffiti Harimi: un ponte artistico verso l'emancipazione

 

L'arte come strumento di lotta pacifica, di denuncia e di riscatto sociale...

 

di Federica Rubino

 

 

Graffiti Harimi è innanzitutto un’idea, un progetto nato da una situazione di subordinazione e, dunque, di insofferenza. 

Esso nasce per volere di un gruppo di donne egiziane e street artist (infatti, la traduzione di Graffiti Harimi è proprio graffiti delle donne) impegnate nelle Primavere arabe, quel periodo di tumulti che ha colpito le nazioni mediorientali e nordafricane nel corso del 2011. Resesi soggetti partecipanti e attivi assieme agli uomini,  hanno preso parte ad alcune rivolte mirate alla trasformazione del profilo socio-politico della comunità. Questo insieme di fenomeni è stato ribattezzato da numerosi osservatori Primavere rosa, per l’ingente partecipazione femminile, titolo inoltre di un’opera di Anna Vanzan, docente di Cultura Araba presso l’Università degli Studi di Milano. I graffiti delle donne non sono solo realizzati da donne, ma le raffigurano, servendosi dell’arte come di uno dei numerosi canali atti ad esprimere il proprio dissenso nei confronti del patriarcato totalizzante e dell’androcentrismo esclusivo, scardinando il pregiudizio secondo il quale la donna musulmana sia il candido esempio di angelo del focolare e creatura passiva rispetto alle trasfigurazioni frenetiche del reale.

 

I graffiti e la Street art, entro la quale rientrano movimenti artistici come la Guerrilla art, che tra i suoi maggiori esponenti annovera la personalità di Banksy, sono una forma d’arte immediata, figlia della liquidità della nostra epoca. La loro efficacia sta nell’essere in grado di trasmettere dei messaggi di veloce fruibilità e facile comprensione, che interrompono il grigio fluire della  routine urbana grazie ai decori policromi. L’arte, in questo contesto, rappresenta un porto franco, uno spazio comune inteso come una piazza ideale nella quale interfacciarsi in maniera orizzontale. Tracciando il profilo del soggetto politico, del cittadino, si proclama un "Noi" che è corpo e in quanto tale può riversarsi nelle assemblee, nei luoghi pubblici e nelle manifestazioni. Ciò non significa, come afferma Judith Butler in Che cos’è un popolo, che il soggetto plurale condivida aprioristicamente degli ideali in quanto popolo, o rivendichi i medesimi diritti. Significa sostenere la necessità di percorrere un processo unanime per giungere all’autodeterminazione e all’autopoiesi, mettendo in discussione il potere costituito e mirando alla realizzazione di quella che l’autrice definisce di viability (vivibilità); essa è basata sull’idea secondo la quale la vita debba essere molto più che mera sopravvivenza affinché possa essere definita vivibile. A tal proposito Butler, nel saggio Noi, il popolo, afferma:

 

« "Noi, il popolo", non presuppone né fabbrica un’unità, ma fonda o istituisce una serie di domande sulla natura del popolo e su ciò che esso vuole. »

 

Il caso dei Graffiti Harimi – ma anche del collettivo italiano Guerrilla SPAM, attivo nei centri di accoglienza e nelle comunità, con una decisa propensione verso le tematiche sociali – costituisce un abbandono delle pratiche quotidiane, abitudinarie. Come nella teoria già formulata dal filosofo tedesco contemporaneo Christoph Menke, queste azioni, in quanto esperienze estetiche, trasformano i soggetti osservatori mediante la loro dirompenza e irriverenza, non si lasciano assorbire dalle esperienze non estetiche e, pertanto, possono essere definite autonome, attraverso il verificarsi di un fenomeno inaspettato che sospende la continuazione segnica automatica grazie al significato veicolato dalle opere d’arte. 

L’arte intesa come mistificazione del reale si è evoluta, nella diacronia, per divenire filtro prezioso di una riconcettualizzazione dell’effettività e, in casi come quello mediorientale, per una palingenesi ideologica e sociale; la portata ideale dell’arte è compresa come trasposizione di una protesta che spinge a dubitare, come è nella natura stessa della filosofia, a voler riformulare le fattezze dello spazio pubblico. Calandoci utopisticamente in un dipinto di Giotto, il primo artista ad aver dipinto una piazza italiana nel ciclo di affreschi situato nella Basilica superiore di Assisi, affermiamo la possibilità comune di un cambiamento lasciando intuire quanto l’affermazione democratica del "Noi" parta dall’esposizione dei corpi in quanto esigenti, esposti e vulnerabili. 

 

Essa non appartiene solo al passato, ma è l’inizio di un futuro da tenere ancorato al nostro presente per evitare derive autoritarie e votate al controllo securitario, a favore invece del progresso che deve avere come spinta propulsiva la lotta alla precarietà e alle disuguaglianze. 

29 maggio 2019

 









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