Il libro del saggista e consulente filosofico abruzzese è un piacevole viaggio tra gli autori presenti e passati: la sua penna scorre dolcemente sulla pagina e ci mette di fronte alle sfide odierne del dibattito filosofico.
È vero: potrebbe storcere il naso Nicolás Gómez Dávila, che era dell’idea che «un diploma di dentista è degno di rispetto, uno di filosofo è grottesco», ma anche la filosofia può – e in certi casi deve – farsi “mestiere”. Non perché debba dissipare nei protocolli dell’“industria culturale” la vampa non addomesticabile del puro domandare (guai se fosse così!), ma perché anche la filosofia prevede una certa prassi, paziente, fatta di letture quotidiane, esercizi costanti di riflessione in mezzo al trambusto della routine, annotazioni a margine, dialoghi interrotti e ripresi con i classici, interminabili ronde intorno a un problema: insomma, un vero e proprio lavorio dell’intelligenza, nella fiduciosa attesa che il Pensiero, quello autentico, ci colga. E lasci intravedere uno spiraglio di senso, di verità. Pur dovendo sempre fare attenzione a non soffocarlo tra le briglie dell’empirico, e quando possibile lasciare che si libri a indicare rotte inattese, il filosofo ha ben presto da imparare una certa “modestia” da artigiano, affinché esso, il pensiero, non gli sfugga, e lo abbandoni.
È dalla profonda interiorizzazione di questa consapevolezza che si muove l’ultimo libro di Davide D’alessandro, docente di Ermeneutica presso l’Università di Urbino, consulente filosofico e giornalista: Fogli & Voci. Abbecedario di storia, filosofia e politica. Tra Machiavelli e Severino (Morlacchi Editore, 2019), che rappresenta in qualche modo una sorta di “diario di bordo” del suo alacre lavoro di studioso e cronista del pensiero. Se avesse dato ascolto a Seneca – esordisce D’Alessandro – non avrebbe forse dovuto mai intraprendere questo cammino, fatto di molte voci e molte pagine. Il grande cordovano infatti ammoniva che «il tuo leggere molti autori e libri di ogni genere può essere una forma di incostanza e di instabilità». E tuttavia, controbatte l’Autore, «la filosofia va frequentata» perché solo così «dalla filosofia si può essere toccati e illuminati». Assaggiare molto, dunque, ma senza fare indigestione; e soprattutto sapendo eligĕre, tra la moltitudine di pietanze, quale “sapore” val la pena tornare a gustare: frequentare i filosofi serve anche ad affinare la capacità di scelta, per decidere cosa portar con sé e cosa invece lasciare o non voler più incontrare quando ci si troverà di fronte a qualcosa di simile. È qui tutto il segreto dell’eleganza.
Ed elegantemente si muove, D’alessandro, tra le parole scritte o proferite dai suoi interlocutori, il più delle volte classici, ma non di rado intellettuali che a quei classici hanno dedicato una vita di studio: in entrambi i casi, la maggior parte consta di italiani. Non è un caso, infatti, che i due astri fissati in questo firmamento a mo’ di stelle polari siano proprio Machiavelli e Severino: due colossi che si guardano da lontano, da un capo all’altro della modernità, quasi a formare un arco che va dal Rinascimento al Novecento. E stanno lì a ricordare a noi che li leggiamo cosa vuol dire, in filosofia, essere un italiano. Anzitutto, si potrebbe dire, “Italia” in filosofia significa concretezza, compromissione ineludibile con la storia, pensamento della contraddizione. Questo è già evidente in Machiavelli, che si presenta con «la carica devastante della realtà effettuale delle cose» e che nel popolo fiorentino già individuava i caratteri di quello che sarà il popolo italiano: «“sottile interprete di tutte le cose”, ma chiuso […] in una contraddizione che ne genera infine la rovina: tanto incapace di essere libero quanto refrattario alla servitù» (nelle parole di Michele Ciliberto). Ma altrettanto evidente lo sarà secoli dopo con Leopardi (penso al Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani). E infatti Leopardi non manca: «Si comincia con Leopardi. Si comincia sempre con Leopardi. […] Quali sono i filosofi se non Machiavelli e Leopardi?». D’Alessandro concorda con Rensi e con lo stesso Severino de Il nulla e la poesia (1990) nel sostenere che, ben prima che in Germania, Leopardi sia stato la perfetta armonizzazione di Nietzsche con Schopenhauer.
E qui si viene al tema del primato della filosofia italiana, rivendicato in passato da Spaventa e Carabellese, e al giorno d’oggi – sebbene in modo assai diverso – da Roberto Esposito & Co., che vedono nel carattere “decentrato” e irrimediabilmente “impuro” dell’Italian Thought uno dei suoi punti di forza. Eppure, la via attraverso cui si è condotta questa impresa di valorizzazione non ha mancato di destare qualche perplessità: notevoli, ad esempio, le obiezioni mosse da Marco Berlanda a Pensiero vivente in una puntuale recensione apparsa nel 2011 su “Per la filosofia”, come anche quelle di Pier Paolo Portinaro ne Le mani su Machiavelli. Una critica dell’«Italian Theory», cui D’Alessandro dà voce: «proprio alla biopolitica, Portinaro, addebita la responsabilità di aver spalancato la strada all’avvento dell’anti-politica, tutto il contrario della lezione impartita da Machiavelli».
Forse, uno dei meriti da riconoscere all’Italian Theory è quello di essersi accorta che l’Italia sta nella storia filosofica delle nazioni come il segno evidente di una ferita – quella scissione (Entzweiung avrebbe detto Hegel) senza la quale il pensiero non sorgerebbe affatto. «Guai se nella vita di ognuno non ci fosse almeno una Caporetto. Solo se vivi una Caporetto, comprendi cos’è la vita, il suo valore, la salita infinita, senza cima» annota giustamente D’Alessandro. Cosa ci sarebbe infatti da pensare se non ci fosse sconfitta, se non ci fosse “crisi” (appunto, ancora: separazione)? Se non si dessero contraddizioni, apparenti o reali che siano, da dirimere? Ma quest’ultimo passo, quello dell’Auflösung, non sono gli italo-teoreti a compierlo, bensì pensatori che provengono da ben altri lidi speculativi: su tutti Severino, che si è formato alla scuola di Gentile e Bontadini.
Dal dialogo con Biagio de Giovanni viene fuori appunto questo:
« Noi siamo sempre figli degeneri di Hegel. Questo è tempo di scissioni. Quindi la filosofia è necessaria. Non c’è epoca più filosofica di questa. […] Lasciami dire però che per me non è senza Croce, ma senza Gentile che non esiste la filosofia italiana. Non esisterebbe Gramsci come non esisterebbe Severino. L’attualismo è stata la vera filosofia italiana del Novecento. »
Dal dopoguerra a oggi, chi ha saputo raccogliere più di tutti questa degenere eredità dell’hegelismo eterodosso e riformato è stato il “filosofo eterno” Emanuele Severino: «il massimo filosofo vivente, definizione persino riduttiva poiché andrebbe allargata a tutto il secolo scorso». A questo punto qualcuno potrebbe alzare la mano, e domandare con vena polemica: “E allora Heidegger?” L’obiezione è prevista da D’Alessandro, che infatti dedica più di un “foglio” al grande tedesco, forse il solo che può giocarsela ad armi pari con il bresciano, in quella che assume le sembianze di una vera e propria gigantomachia.
Sul versante severiniano, l’Autore interroga molti: Nicoletta Cusano, infaticabile e acuta commentatrice del Parmenide novecentesco, che avverte che «con buona pace di chi vedrebbe nel suo pensiero una ripresa di Heidegger […] è evidente che il significato severiniano di “nichilismo” non ha nulla a che vedere con quello heideggeriano»; Salvatore Natoli; Luigi Vero Tarca, che invece individua e difende un tratto in comune col pensiero del collega tedesco: «accusare Severino di essere fissato con il nulla sarebbe come accusare Paganini di essere fissato con il violino, o Tiziano di essere fissato con il rosso»; ma soprattutto Massimo Cacciari, a cui questo libro ha il notevole merito di affidare l’esplicitazione semplice ma potente di qualcosa di cui sono profondamente convinto, ma che ancora si stenta a vedere negli ambienti accademici e non solo; e cioè che la filosofia futura si configurerà essenzialmente come una tenzone a due voci, una latina e una germanica:
« Finché la “storia” della filosofia contemporanea continuerà ad essere “giocata” o all’interno della “linea” nietzschiana-heideggeriana-ermeneutica, o nell’opposizione tra questa e quella analitica, temo non ne risulterà mai comprensibile il vero problema. Esso risulta evidente, a mio avviso, soltanto sulla base di una radicale contraddizione, di un autentico dramma a due protagonisti: Heidegger e Severino. Si tratta di una relazione inconciliabile, di un aut-aut. »
Sul versante heideggeriano, invece, è soprattutto l’opera di Costantino Esposito che consente di inoltrarsi negli abissi spalancati dal “Mago di Meßkirch”, provando a mantenere viva l’inquietudine del problema filosofico cui ha messo di fronte l’Occidente intero a partire da Sein und Zeit; di contro alle fin troppo facili sclerotizzazioni ideologiche che ne sono state offerte di recente, come quelle di chi vuol ridurlo a niente più che un “antisemita metafisico”.
Va segnalato poi che a chiusura dell’opera è posto un intrigante abbecedario per temi (Amore; Antropotecnica; Guerra; Identità; Libertà; Mercato e Politica ecc.), in cui si distingue particolarmente la voce dedicata allo “Stato”, che pone l’accento sulla concezione che ne avevano Hegel e, più tardi, il liberalismo spaventiano; e chiama in causa quei pochi che ancora continuano a valorizzarla, come Giacomo Rinaldi. Mica male, in una fase non certamente molto avvezza a riconoscere le potenzialità politiche dell’idealismo filosofico.
Così, pur nel susseguirsi repentino di temi e autori (di cui quelli qui menzionati sono solo alcuni), Fogli e voci ci restituisce un quadro composito ma al contempo ordinato e perspicuo dello status della filosofia contemporanea, dipinto a partire da una fiera conoscenza della sua genesi storica. Siccome questo è un libro che – come si diceva – vuol essere e di fatto è più la testimonianza di un filosofo al lavoro e all'ascolto, che non una compiuta sistemazione delle idee a cui quel lavoro e quell'ascolto si spera conducano, a parlare sono soprattutto gli “altri”; ma il timbro di D’Alessandro è inconfondibile, perché l’attenzione che agli altri si dirige non è mai neutra, ma sempre orientata e animata da una passione che non può che essere propria di chi la esercita.
Un mosaico, un laboratorio, un cantiere, che conseguono in maniera godibilissima un risultato non da poco: provocare domande, riscoprire autori della nostra tradizione filosofica, aprire prospettive, assecondare intuizioni, calandosi nei dibattiti che infuocano la Penisola e non solo. Insomma, far vedere in che cosa consiste oggi il mestiere di un filosofo italiano.
4 maggio 2019