Pur impegnato in severi studi rinascimentali, Francesco Fiorentino, nel testo “Lezioni di filosofia ad uso dei licei”, matura definitivamente l’adesione al neokantismo: temperando il proprio idealismo “critico” con le scienze sperimentali e il metodo spenceriano, realizza un’opera di autentico valore storiografico che ha formato intere generazioni nel primo Novecento.
di Giuseppe Gallelli
Con la pubblicazione nel 1880, a Napoli, delle "Lezioni di filosofia ad uso dei Licei", seconda edizione degli “Elementi di filosofia”, già precedentemente pubblicati (1877), lo storico della filosofia Francesco Fiorentino (Sambiase 1834 – Napoli 1884) docente alle Università di Bologna, Napoli e Pisa, segna un passo decisivo nel neokantismo, dopo una sua prima formazione hegeliana, alla scuola di Bertrando Spaventa. Egli, infatti, condivide ancora, il punto di vista fischeriano, della filosofia come «scienza del pensiero in quanto si riflette sopra di se stesso», ma nello stesso tempo cerca di dare un fondamento più concreto al processo psicologico della conoscenza, attraverso l’utilizzazione delle scienze empiriche, quali la fisiologia e la psicologia.
Mantiene, come nella prima edizione, la distinzione neokantiana tra logica e giudizio sintetico a priori. La prima come forma di giudizio che presuppone i concetti già formati, la seconda come processo dalla rappresentazione al concetto, attraverso un elemento universale, proveniente dalla medesima attività umana. La psicologia si inserisce in quello spazio che riguarda il pensiero in formazione, spazio suscettibile di indagini sperimentali, al contrario della logica che si riferisce al pensiero già formato.
Mantiene la divisione hegeliana tra logica formale e logica reale e afferma la necessità d’integrazione tra pensiero e realtà. Immutata rimane, quindi, la concezione hegeliana della logica come logica reale che «considera l’universale come unità viva, una forza da cui rampolla la molteplicità dei fenomeni ed il concetto, che corrisponde all’universale, come la legge costante della molteplicità delle rappresentazioni, che a quel concetto si riferiscono.» (Francesco Fiorentino, Lezioni di filosofia ad uso dei licei, Napoli, 1880, pag. 84 cfr. Elementi di filosofia ad uso dei licei, Napoli, 1877, pag. 105) E di conseguenza, immutata anche la concezione hegeliana della scienza che ha il compito di «ridurre le cause immediate dei fatti sotto una legge comune.» (Idem, seconda ediz. pag. 183 cfr. prima ediz. pag. 213)
A questo proposito egli scrive:
« La sperienza è certamente il primo fondamento della scienza […] la sperienza chiarisce un fatto, l’induzione un gruppo di fatti: ma la scienza sola, coordinando questi risultati e ricavandone le leggi generali, può prevenire la determinazione dei fatti futuri. » (Idem, seconda ediz. pag. 184, cfr. prima ediz. pag. 213)
Da questo punto di vista vede, come nella prima edizione, che tutto il presupposto della scienza si basa non sulla sola osservazione, sul solo esperimento e sul solo processo induttivo, ma sulla uniformità delle leggi di natura e sulla integrazione del processo induttivo con quello deduttivo. (Idem, seconda ediz. pp. 196-217, cfr. prima ediz. pp. 215 - 249).
Immutata rimane inoltre la sua posizione che, pur nella distinzione tra eventi naturali e storia umana riconosceva, fino ad un certo punto, la possibilità di applicare il metodo delle scienze naturali a quello della storia, concludendo che «non bisogna adunque né impugnare ogni sorta di applicazione del metodo induttivo ai fatti umani, né presumere di poter, a via di calcoli, prestabilire la meta futura dell’umanità.» (Idem, seconda ediz. pag. 236, cfr. prima ediz. pag. 269)
Egli quindi rimane sostanzialmente aderente al concetto hegeliano di scienza, al concetto di “logicismo” hegeliano, ma tuttavia avverte l’esigenza di apportare delle sostanziali mutazioni al processo psicologico della conoscenza, secondo gli ultimi sviluppi della psicologia empirica e della moderna fisiologia. Aveva infatti assimilato proprio a Pisa la psicologia dello Helmholtz e del Lewes e la fisiologia del Volkmann. E trattando del contenuto della sensazione, aggiunge:
« Il contenuto della nostra sensazione non è, di fatti, né uguale né simile alla qualità dell’oggetto che ha occasionato lo stimolo; tanto che allo stesso stimolo possono corrispondere sensazioni differenti, e, viceversa stimoli diversi possono produrre la stessa sensazione. » (Idem, seconda ediz. pag. 7)
Con queste nuove acquisizioni psicologiche, scrive un capitolo (cap.3) sulla fisiologia degli organi sensori, di cui descrive accuratamente la funzionalità.
Trattando poi dell’ordinamento delle nostre sensazioni, definisce la posizione soggettivo-psicologica delle dimensioni spazio temporali, che chiama “nostro tempo” e “nostro spazio”. A proposito dello spazio, scrive: «Il nostro spazio è primieramente la coesistenza di più sensazioni, o di più rappresentazioni nel medesimo stato di coscienza» (Idem, seconda ediz. pag. 26) ma, subito dopo, afferma la necessità di fondare lo spazio ed il tempo non sulle rappresentazioni coesistenti, bensì sulla rappresentazione della coesistenza:
« ...non basta che ci siano rappresentazioni coesistenti, bisogna rappresentarsi la coesistenza per avere lo spazio. Lo stesso succede nel tempo: non basta che ci siano sensazioni successive: bisogna rappresentarsi il processo del succedere: rappresentarselo, non giudicarlo. » (Idem, seconda ediz. pag. 29)
E salva così la concezione dello spazio e del tempo come forme necessarie e a priori, affermando, in particolare che «per avere l’intuizione del tempo io debbo rappresentarmi non già un termine particolare, ma il processo stesso del rappresentare: la mia intuizione non è empirica, ma pura, come l’aveva chiamata Kant: non rappresenta un oggetto, cioè, ma un processo, una funzione.» (Idem, seconda ediz. pag. 29) Però, in nota, spinto da un’esigenza di fondare storicamente queste funzioni a priori, avverte la necessità metodologica di coglierne e spiegarne la “genesi” alla luce della associazione psicologica e della teoria dell’ereditarietà. Egli scrive:
« Veramente Kant intende per a priori soltanto ciò che non è derivato dalla sperienza, ma che invece è condizione indispensabile perché la sperienza sia possibile. Egli non investiga, se questo a priori abbia potuto originarsi da un’associazione di esperienze anteriori accumulate, trasmessa poi per eredità; né poteva ai suoi tempi, e prima del Darwin porre il problema in questi nuovi termini. L’a priori kantiano è una funzione dello spirito non già un dato: e questo riteniamo anche noi; ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si possa cercare di spiegare la genesi. È una ricerca, in vero, la quale oltrepassa i limiti di un insegnamento elementare… ma qui si nota, e non pei giovani, vogliamo avvertire, che lo a priori kantiano è una semplice fermata, che si traduce in queste parole: in noi c’è un’attività già preformata a compiere certe funzioni, senza di cui la sperienza non si farebbe. La filosofia moderna accetta la tesi kantiana, e domanda: come si è preformata? E cerca di trovare la risposta in due fattori: l’associazione e la eredità: la prima che accumula, la seconda che trasmette. Per loro mezzo, lo a priori dell’individuo sarebbe ciò che è a posteriori per la specie. » (Idem, seconda ediz. pag. 30, nota 1)
Certamente, il Fiorentino non riuscirà o non potrà andare oltre e dimostrare storicamente questa sua esigenza metodologica, forse perché preso dagli studi storici sul Rinascimento, cui andava dedicandosi in quegli anni, ma soprattutto perché sollecitato da una forte esigenza di salvaguardia della “metafisica” che egli recupera anche nella leggera coloritura positivistica. Trattando, infatti, dell’associazione psicologica, ne trova il fondamento nell’associazione fisiologica:
« Più nervi che abbiano ripetutamente vibrato insieme, associano talmente le loro vibrazioni che toccato l’uno, vibrano gli altri: ecco il fondamento fisiologico dell’associazione psichica. La moderna psicologia attribuisce una grandissima importanza all’associazione, e ritiene che essa non solo dia la spiegazione della memoria dell’individuo, ma dell’istinto nella specie: onde lo Spencer dice: la memoria è l’istinto nel suo diventare, come l’istinto è la memoria già resa organica e quindi trasmissibile per eredità. » (Idem, seconda ediz. pag. 38)
Esaminando il passaggio dall’associazione psicologica all’associazione logica ne coglie l’elemento mediatore nel linguaggio (cap. V). Ma esprime chiaramente una precisa storicizzazione dell’autocoscienza, che considera, sulla via aperta da Bertrando Spaventa, come “risultato”, nell’esaminare la coscienza e i suoi vari gradi, anche se elimina del tutto il capitolo che tratta della formazione degli universali e quello che tratta della formazione degli idoli fantastici (cap. VIII e IX della prima edizione). Egli scrive:
« Le due condizioni perché si desse un’unica coscienza, la permanenza dello stesso soggetto e l’immediata sua percezione sono entrambe impossibili. La autocoscienza è dunque un risultato e non già uno stato originario e permanente: di originario c’è la distinzione implicita ed oscura, che si occulta ancora nell’indistinzione della sensazione: c’è la potenza di ulteriore sviluppo che si attua mediante i gradi progressivi da noi indicati: c’è la forma unica: io penso… ai tre gradi della funzione conoscitiva che sono sensazione, rappresentazione, concetto, rispondono tre gradi di coscienza, la sensibile, la percettiva, l’autocoscienza. E la coscienza sensibile spunta dal sentimento fondamentale corporeo; la coscienza percettiva dalla continuità della serie delle rappresentazioni: la coscienza di sé, o l’autocoscienza dalla continuità del processo rappresentativo. » (Idem, seconda ediz. pag. 52)
Anche nell’etica è evidente questa posizione dicotomica tra l’origine psicologica e le conclusioni universali e necessarie. Elimina, infatti il cap. II che trattava del “piacere e del dolore” e vi aggiunge un cap. nuovo (VII) “dei sentimenti e specialmente del sentimento morale”, ove, dopo aver distinto dal “sentimento sociale” il “sentimento morale”, considerando il primo come appartenente “a parecchie specie animali” e il secondo come esclusiva “prerogativa dell’uomo”, distingue anche questo dalla “virtù” e dal “carattere morale” di cui lo considera grado inferiore. Per questo motivo, il “sentimento morale” ha “come criterio, l’utilità comune” e come “fondamento psichico la simpatia”. Egli scrive:
« Il primo di questi elementi si trova consegnato nell’ambiente morale in cui vive ciascun popolo: l’approvazione e la disapprovazione di certe azioni fa parte del tesoro tradizionale delle esperienze accumulate di generazione in generazione, le credenze religiose, le leggi civili, le costumanze concorrono a rinvigorirne l’efficacia. L’altro elemento, il subbiettivo, crea nell’organismo certi gruppi di associazioni che diventano tenaci, e fino ad un certo punto trasmissibili per eredità. Così a poco a poco l’uomo acquista il senso morale, il quale esercita non piccola parte nella determinazione del nostro volere. » (Idem)
E aggiunge: « Il senso morale però non è ancora la virtù, né molto meno il carattere morale. Tutti i popoli civili sono forniti di senso morale… non tutti sono potenti di esercitarlo e molto meno di conformarvi costantemente la condotta di tutta la vita. Perché ciò succeda, il sentimento deve trasformarsi in volere ed in abito. » (Idem, seconda ediz. pag. 284)
A questo punto, come nella prima edizione, distingue la ragione dalla volontà. La prima come “attività originaria”, la seconda come “funzione risultante da più altre”. Si allontana così, decisamente, dalla psicologia dello Spencer, per la quale «non c’è nulla di originario, nulla che non derivi dalla “sperienza”» (Idem, seconda ediz. pag. 288, nota I; cfr. prima ediz. pag. 327, nota I); e fa suo il punto di vista degli psicologi che «notano che questa attività centrale si va anche essa accumulando nel primo stadio della vita sensibile.» (Idem, seconda ediz. pag. 291) Inoltre, precisa meglio l’affermazione, fatta nella prima edizione, del “fine umano” come acquisizione progressiva, cui tendiamo prima «inconsciamente con le nostre prime azioni» e poi, «conosciuto questo fine… con coscienza piena e chiara» (Idem, seconda ediz. pag. 298; cfr. prima edizione, pag. 336), affermando che:
« se il fine etico che è la vita comune, è stato il risultato di una lunga lotta per la esistenza, è pur vero che cotesto primo acquisto viene oggi trasmesso per eredità, che gl’individui trovano e non debbono più riacquistare. » (Idem, seconda ediz. pag. 298, nota 1)
Rimane, tuttavia. del tutto immutato il concetto della necessità della assimilazione progressiva di questo fine che proprio attraverso di essa, da “naturale” diviene “umano”, di modo che “il fine”, conosciuto, ha acquistato il carattere di necessità e di universalità. (Idem, seconda ediz. pag. 298; cfr. prima edizione, pag. 337)
Ma anche nella concezione della legge morale, che il Fiorentino continua a considerare come integrazione della posizione kantiana con quella aristotelica, manifesta le proprie esigenze storiografiche.
« Dato l’uomo con il suo organismo fisico e psichico, egli afferma qui, come nella prima edizione, date le sue tendenze, ed una attività razionale ch’è norma del loro sviluppo, abbiamo due elementi, uno naturale, dove il fine è ancora implicato; e un altro razionale, che cerca di raggiungere quel fine, sottomettendo gli appetiti alla ragione. Ora poiché la ragione tutto quello che pensa lo pone come necessario ed universale; nello stesso modo in cui i dati del senso, per un processo teoretico, si convertono in concetti, così i dati dell’appetito, per un processo della ragion pratica, si convertono in virtù. » (Idem, seconda ediz. pag. 325; cfr. prima edizione pag. 364)
Egli, insomma, pur nella affermazione della necessità della integrazione dell’elemento naturale con quello razionale, riconosce sempre la preminenza del secondo; e ciò è evidente in quanto nella seconda edizione cerca non di analizzare l’elemento razionale, «la riflessione su quest’abitudine» che «converte la necessità psichica nel concetto di dovere» (Idem, seconda ediz. pag. 326), ma solo il fondamento sensibile e psichico della legge morale, come, prima, nel problema della conoscenza, cercava l’origine psicologica della associazione e non il passaggio da questa alla “razionalità” ed alla “universalità” della scienza, che rimaneva scontato.
E delineando il passaggio dall’ “appetito” alla “ragion pratica”, egli scrive:
« Le nostre azioni sono originate da uno stimolo […] Ma esse si riferiscono ad altri individui, ed in questa relazione giovano o nuocono ad altri; e se giovano, sono approvate; se nuocono sono biasimate. L’approvazione o il biasimo sono giudizi altrui su le azioni nostre, ma giudizi che si riflettono in noi, di cui la nostra coscienza è in certo modo l’eco: noi proviamo un nuovo genere di soddisfazione dalla lode, un nuovo genere d’inquietezza dal biasimo. Penetrando nella nostra coscienza il giudizio altrui, succede una specie di riscontro: se noi operiamo a vantaggio altrui, ne abbiamo avuto veramente la intenzione, sentiamo di aver meritato la lode […] La continua abitudine di operare in modo che la coscienza nostra si trovi in armonia con la coscienza altrui produce quella necessità psichica, che è appresa immediatamente dal senso morale. »
E conclude affermando che «La riflessione su quest’abitudine converte la necessità psichica nel concetto di dovere; e converte il fatto dell’approvazione altrui e dell’approvazione propria in legge morale.» (Idem, pp. 325 - 326) E proseguendo:
« La natura ci porge il fine ma non ci dà, né ci può dare la necessità di attuarlo: ci dà la vita e la tendenza a conservarla; ma non ci dà punto la necessità di farlo; codesta necessità la sentiamo, la pensiamo in noi. » (Idem, seconda ediz. pag. 330; cfr. prima edizione, pag. 338)
Il significato di questa seconda edizione degli “Elementi di filosofia” consiste, quindi, nel fatto che pur in mezzo a diverse contraddizioni, il Fiorentino, accostandosi, in qualche misura, alla psicologia empirica, seguendo le indicazioni del positivismo inglese e dello Spencer in particolare, ha ormai decisamente maturato la propria posizione storicistica neokantiana.
7 giugno 2019