Era sufficiente dotare l’uomo delle sole competenze tecniche a garantire che esso riuscisse a compiere fino in fondo il proprio percorso di emancipazione dalle necessità dello stato di natura? Se rileggiamo per intero il mito prometeico, che presenta chiare affinità con l’esperimento immaginato da Kubrick e Clarke in 2001: Odissea nello spazio, appare lecito avanzare dei forti dubbi.
di Valter Di Giacinto
Abbiamo visto in precedenza come, in 2001: Odissea nello spazio, l’esperimento condotto da un’ignota intelligenza cosmica avesse previsto l’iniziale “inoculazione” di abilità tecniche in una specie umana ancora in condizioni primordiali; abilità potenzialmente tali da condurla verso il definitivo affrancamento dalle necessità dello stato di natura. Il conseguente, progressivo e irrefrenabile sviluppo tecnologico, avrebbe portato l’umanità, al termine di un lungo e tormentato percorso evolutivo, a imboccare il tratto conclusivo del cammino per essa tracciato dalla divinità galattica; quello che l’avrebbe condotta all’approdo definitivo di civiltà post-tecnologica e finalmente pacificata. Ma era sufficiente dotare l’uomo delle sole competenze tecniche a garantire che esso riuscisse a compiere fino in fondo il proprio percorso di emancipazione? Se rileggiamo per intero il mito prometeico, che presenta chiare affinità con l’esperimento immaginato da Kubrick e Clarke, appare lecito avanzare dei forti dubbi.
« Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco – infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco – e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. […] La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve […]. <Gli uomini> cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano. Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. » (Platone, Protagora)
Secondo il Protagora di Platone, dotare l’umanità di abilità tecniche, senza il supporto di pari competenze politiche, la lascerebbe priva della necessaria coesione sociale, radicata nel rispetto delle leggi e nella comune condivisione di un’idea di giustizia, che sola può consentire di mettere pienamente a frutto le potenzialità della tecnica ricevuta dagli dèi. Nel mito platonico, al fine di venire definitivamente a capo della questione, si richiese un secondo intervento supremo, questa volta ad opera del dio Ermes. Ma di tale secondo intervento divino non vi è traccia nell’Odissea di Kubrick e Clarke. Gli ominidi primordiali ricevono sì dall’esterno le capacità tecniche, ma quelle politiche dovranno acquisirle da sé, lungo un percorso evolutivo denso di insidie e ostacoli. Vediamo, infatti, sin da subito come l’ominide Moonwatcher, non appena reso capace di usare ossa animali come armi, inizi a servirsene contro i propri stessi simili: per la prima volta l’uomo si scopre in tal modo homini lupus.
« Una fallacia particolarmente insidiosa che ha influenzato una larga parte del pensiero politico e filosofico è che l'uomo sia essenzialmente buono e che sia la società a renderlo cattivo. Rousseau ha trasferito il peccato originale dall'uomo alla società e questa visione ha contribuito in modo rilevante a quella che io ritengo sia una premessa scorretta su cui basare una filosofia politica e morale. » (S. Kubrick, intervista pubblicata sul «New York Times» del 4 gennaio 1972)
Partendo da tali presupposti – dichiaratamente hobbesiani – tutta la filmografia di Kubrick successiva all’Odissea ci appare oggi come una spietata disamina delle diverse modalità con cui l’umanità ha cercato, senza mai riuscirci in maniera soddisfacente, di sfruttare al meglio il dono dell’abilità tecnica, essendo di base priva della necessaria saggezza politica. Come sappiamo, l’esito catastrofico e definitivo di tale condizione di dissociazione tra competenze tecniche e politiche era già stato grottescamente dipinto in Dottor Stranamore. Con l’Odissea il regista ci aveva successivamente mostrato come il lancio dell’ordigno-fine-di-mondo potesse non essere l’unica e ineluttabile conclusione delle umane vicende, che un esito opposto e felice fosse quantomeno pensabile. Tuttavia, nelle opere che seguono l’Odissea, quella che ci si para di fronte è di nuovo l’immagine di un’umanità che, pur rimanendo in bilico, sembra scivolare pericolosamente nella direzione del peggiore degli esiti immaginabili. E questo sin dalla prima, da quell’Arancia meccanica che, per la brutalità della narrazione e l’insidiosità dei temi affrontati, avrebbe acceso dibattiti e polemiche che stentano ancora oggi a placarsi.
In assenza di competenze politiche universali e innate, quali sarebbero gli strumenti di cui il consesso umano dovrebbe dotarsi, nel tentativo di arginare pulsioni e aspirazioni dei singoli in maniera da renderle compatibili con gli obiettivi perseguiti dalla collettività nel suo insieme? (Soprassediamo, per il momento, su come tali obiettivi siano stati fissati). E posto che un certo grado di coercizione sia necessario, fino a che punto è ottimale per le istituzioni che sovraintendono al mantenimento dell’ordine sociale spingersi nei propri intenti manipolatori? In Arancia meccanica il regista sembra porre esattamente tali interrogativi al centro della narrazione.
Come sappiamo, Sigmund Freud, nel confrontarsi con il tema hobbesiano del contenimento delle pulsioni aggressive innate, nella seconda topica aveva ipotizzato per il super-io il ruolo di una sorta di leviatano inconscio, che agirebbe da controllore interno all'individuo reprimendone gli istinti aggressivi e le esorbitanti pulsioni sessuali, altrimenti destinati a sovvertire l’ordine sociale ove lasciati liberi di esprimersi senza remore. Il super-io tuttavia, nel meccanismo di trasmissione che lo veicola di padre in figlio, si presenta come il frutto delle millenarie stratificazioni evolutive cui sono andate incontro le civiltà umane nel corso della propria storia.
« Fomentare artificialmente le cupidigie, per arricchirsi soddisfacendole, è il delitto imperdonabile del capitalismo. » (Nicolás Gómez Dávila, Escolios)
Come rimediare, quindi, allorché ci accorgessimo che il super-poliziotto interno comincia a far fatica a tenere a bada le pulsioni erotico-aggressive dei singoli, magari perché nel frattempo la società consumistica, onde favorire il continuo sviluppo della capacità produttiva e dei profitti, ha preso a fomentare artificialmente le cupidigie umane, liberando i costumi sessuali e dando ampio sfogo all’edonismo individualistico? (E una delle componenti più straordinariamente visionarie del film sta proprio nell’iperrealistica iconografia del sesso sdoganato, che aleggia onnipresente fino a giungere tappezzare le pareti di un innocente “centro di dimagrimento” come fossero quelle del più osceno dei bordelli).
È qui che si innesta l'intuizione originale degli autori della pellicola. Con evidente riferimento agli studi di Pavlov sul condizionamento dei comportamenti animali, si ipotizza infatti che, all’infiacchirsi del poliziotto interno, si possa, all’occorrenza, porre rimedio con l’imposizione di un pauroso e disumano trattamento di rieducazione agli individui particolarmente devianti: la «cura Ludovico». Ma le cose non sembrano andare per il verso giusto. Privare del tutto Alex, il soggetto “preso in cura”, della capacità di rispondere con violenza alle vessazioni subite da parte di altri soggetti, non parimenti “ricondizionati”, lo porta rapidamente a tentare di togliersi la vita per sfuggire a tale insostenibile condizione.
Il trattamento rieducativo del criminale, operato mediante questa sorta di pavloviano poliziotto interiore, fallisce quindi miseramente, ma non sulla base di motivazioni etiche (ossia in quanto, escludendo il libero arbitrio, viola una precondizione sacra e inviolabile della dignità della persona umana), quanto piuttosto perché semplicemente non riesce a mantenere in vita il condannato, trasformandosi quindi in una sorta di surrettizia reintroduzione della pena di morte.
Le pulsioni erotico-aggressive debbono di conseguenza – e a furor di popolo – venire nuovamente liberate nel protagonista: l’opinione pubblica non ne accetta infatti più la semplice e brutale repressione. L’esito distopico della vicenda vedrà allora gli istinti prevaricatori, definitivamente liberati dai freni inibitori del super-io, riemergere tra le fila degli apparati repressivi polizieschi di cui la società deve di norma dotarsi, innalzandone così il grado di violenza gratuita, che in qualche misura finisce sempre per connotarli. A un certo punto della narrazione vediamo infatti due dei teppisti compari del protagonista già all’opera in divisa, ed è facile immaginare per lo stesso Alex un simile ruolo in futuro, con ogni probabilità a un livello gerarchicamente superiore. Se non è già il peggiore dei mondi possibili, la strada imboccata è decisamente quella.
Ma qual era il problema di fondo della «cura Ludovico»? A ben guardare, essa, sebbene ottenesse il comportamento desiderato in maniera assai rapida (solo un paio di settimane di trattamento), non agiva favorendo un’intima convinzione del soggetto trattato, ma per il fatto di somministrare all’occorrenza un pesante deterrente fisico, nella forma di insopportabili nausee. È lecito quindi chiedersi se esistano modi, meno sbrigativi e più profondamente manipolatori, per ottenere, in tempi ugualmente ragionevoli, l’allineamento dei comportamenti individuali alle vigenti aspettative della collettività. E questo sarà il tema affrontato dal regista nei successivi The Shining e Full metal jacket.
28 maggio 2019