Vorremmo che con il tempo si cambiasse definitivamente, eppure alcuni misfatti si ripresentano sotto nuove sembianze. Ne è esempio il caporalato, tipologia di schiavitù che affligge il presente delle nostre terre.
di Francesca Bocca
Si definisce caporalato, secondo l’Enciclopedia Treccani, «quella forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, specialmente agricola, attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali». In altre parole, con esso si intende lo sfruttamento del lavoro agricolo di individui senza autorizzazione.
Oggigiorno il problema del caporalato è diffuso in tutta Italia, principalmente nel Meridione, ed è oggetto d’interesse di molti giornalisti, i quali quotidianamente rivelano di un numero sempre più grande di sfruttati, tra cui stranieri, che vivono e lavorano in condizioni di vera e propria schiavitù. Secondo alcune stime della Rassegna Sindacale, sono circa 400.000 i braccianti agricoli in Italia costretti a lavorare 10-12 ore al giorno per 3-4€ l’ora.
La cronaca sconcertante di questi giorni ha luogo nella provincia salernitana: secondo quanto riportato da aSalerno.it, i carabinieri hanno individuato 35 indagati, di cui 8 non ancora rintracciati, responsabili di sfruttamento di lavoratori e di riduzione in schiavitù. Per di più, si è scoperto che mentre gli imprenditori agricoli si garantivano manodopera sottopagata per il lavoro nei campi aumentando notevolmente il loro guadagno, i migranti clandestini erano anche obbligati a pagare fino a 12.000€ per falsi permessi di soggiorno con la promessa di una loro successiva regolarizzazione, ovviamente mai avvenuta. Il volume dei profitti si stima superi i 6 milioni di euro per le sole autorizzazioni di soggiorno, un numero tanto elevato quanto preoccupante.
Le vittime di caporalato sono riconosciute come schiavi, in quanto sono estremamente soggette al volere dei loro padroni: sono strumenti di lavoro, privi di diritti e ritenuti oggetti di proprietà.
Quali origini ha la schiavitù e quale posto nella storia dell'umanità? Già è presente con lo sviluppo dell’agricoltura nelle civiltà della Mesopotamia e dell’Egitto. Successivamente, durante la conquista di una città, era consuetudine dei vincitori catturare e obbligare centinaia di prigionieri di guerra a coltivare i propri terreni. Da ciò si svilupparono le gerarchie sociali, e gli squilibri politici. Tuttavia, la schiavitù divenne una vera istituzione con la fondazione delle polis greche: sebbene fossero comunità di persone uguali e libere, furono sé stesse causa di forti tensioni sociali. Infatti, la maggior parte dei contadini possedeva campi piccoli e aridi, ed era costretta a chiedere grano in prestito all'aristocrazia; ma, poiché non riuscivano mai a restituirlo, diventavano per legge “schiavi per debiti” e perdevano la cittadinanza.
Tra le teorizzazioni della schiavitù la più nota è certamente quella di Aristotele, il quale, nella Politica, afferma:
« Un essere che per natura non appartiene a sé stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all'azione e separato. »
« Gli schiavi e gli animali domestici sono quasi uguali e rendono su per giù gli stessi servizi. La natura stessa vuole la schiavitù, perché fa differenti i corpi degli uomini liberi da quelli degli schiavi: gli schiavi col vigore che richiedono i lavori a cui sono predestinati, gli uomini liberi incapaci di curvare la loro diritta statura a opere servili e adatti, invece, alla vita politica e alle occupazioni guerresche o pacifiche. Dunque, gli uomini sono liberi o schiavi per diritto di natura: la cosa è evidente. Utile agli stessi schiavi, la schiavitù è giusta. »
Quello che vuole affermare Aristotele è che esistono individui per natura liberi, mentre altri per natura schiavi. I primi, razionali e capaci di compiere scelte coerenti e ragionevoli, devono dedicarsi alle questioni politiche e militari. I secondi, invece, quasi privi di ragione, è giusto che forniscano esclusivamente lavoro manuale. Inoltre, è considerato corretto che questi ultimi, incapaci di autogovernarsi, obbediscano a chi sa comandare poiché da tale forma di autorità ne traggono anche un vantaggio: essi, paragonati agli animali domestici, ricevono protezione in cambio della loro manodopera.
La società ellenistica era quindi basata su queste concezioni: i greci, liberi da qualsiasi condizione perché intelligenti e coraggiosi, e gli stranieri, o barbari, impotenti giacché provenienti da un’altra città e pertanto incolti.
Pur avendo giustificato teoricamente la schiavitù, lo stesso Aristotele dichiara anche:
« Tuttavia, non è difficile vedere che quanti ammettono il contrario in qualche modo dicono bene. “Schiavitù” e “schiavo” sono presi in due sensi: c’è in realtà uno schiavo e una schiavitù anche secondo la legge e questa legge è un accordo per cui ciò che si è vinto in guerra dicono appartenere al vincitore. »
Aristotele sancisce l’esistenza di una schiavitù strettamente legata al concetto della “legge del più forte”: in una guerra colui che vince è ritenuto il più forte indipendentemente dalle qualità intrinseche degli individui partecipanti. Perciò, è possibile che un uomo, pur non essendo schiavo per natura, lo diventi per motivi bellici. Questo secondo tipo di schiavitù è da lui ritenuto ingiusto.
Analogamente i braccianti agricoli, per natura, dovrebbero essere schiavi perché incapaci di compiere scelte autonome e razionali. Ciononostante, come precisa anche Aristotele, è necessario riconoscere le virtù che un uomo libero deve possedere. Una tra queste è la benevolenza, come spiega lo stesso filosofo nell'Etica Nicomachea, che, senz'altro non è una gran dote dei caporali. Essi non sono superiori secondo determinati valori e virtù, bensì per il semplice fatto che esercitano violenza e quindi ingiustizia. Si astengono dal conoscere i valori e la volontà altrui.
Da qualunque parte lo si guardi, il caporalato non trova il suo fondamento nella natura, ma è causa del susseguirsi delle azioni, delle malefatte dell’uomo, che persistono ancor oggi nella nostra Italia. È l’uomo stesso che dovrà saper rimediare purché sia giusto e benevolo.
23 marzo 2019
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