Gli avvenimenti delle ultime due settimane per la giustizia climatica sono un segnale della sensibilità diffusa per le problematiche ambientali, da anni a cuore di molteplici realtà sparse e isolate, ma che ora devono essere materia di ogni giorno per non ricadere nuovamente nell'ignavia.
di Marco Pieretti
Circa una settimana fa era come se l’umanità fosse entrata in una nuova era, almeno agli occhi di coloro che da tempo ormai si attivano a sostegno della giustizia climatica e della causa ambientale. Il movimento giovanile di Fridays For Future ha saputo raccogliere le voci di migliaia e migliaia di cittadini in un urlo poderoso, rivolto ai rappresentati di un sistema economico e sociale che ha evidentemente fallito nella realizzazione dello sviluppo umano. La guida per cui tutti si sono mossi è la giovane svedese Greta Thunberg e così ogni venerdì gli studenti di tutta Europa e del mondo scioperano per andare in piazza e ricordare a chi governa che, nonostante pare non ne siano coscienti, le scelte su un futuro per cui vale la pena studiare e impegnarsi sono ancora soprattutto nelle loro mani.
Quelli di venerdì 15 marzo sono stati numeri imponenti, che probabilmente non si erano mai avuti nella storia della causa ambientale, tantomeno di quella relativamente recente per la salvaguardia del clima, e una risposta del genere infonde una fiducia mai sentita per una reale presa di coscienza dei cambiamenti in atto per mano dell’essere umano. Il Global Climate Strike For Future ha amplificato enormemente la condivisione di questa necessità, coinvolgendo 1700 piazze in 126 nazioni, dove in ciascuna i giovani erano in media sopra la decina di migliaia. In Italia le città di varie dimensioni son state in totale 182, sebbene il movimento studentesco per il clima abbia cominciato a mobilitarsi in ritardo rispetto a quelli nel resto d’Europa, segno di una sensibilità già presente e tutt’altro che trascurabile ma fino ad ora rimasta nascosta nelle riflessioni di molti o esternata e ignorata con le azioni di pochi. Questi pochi sabato scorso 23 marzo erano tutti a Roma riuniti in un corteo che da Piazza Repubblica a Porta San Giovanni ha sfilato sotto le bandiere di quei diversi comitati che negli anni si sono impegnati a problematizzare sulla realizzazione di grandi opere, in quanto inutili per un vero rilancio dello sviluppo nazionale.
La battaglia di queste realtà ormai storiche con le loro modalità di intervento può essere condivisa o meno ma c’è in essa una verità che dev’essere riconosciuta al di là delle posizioni politiche con cui le istanze di questi comitati spesso collidono, anche perché essa ha richiamato nella Capitale migliaia di cittadini. Tutti loro infatti – chi contro il TAV, che nei giorni scorsi è tornato a far parlare di sé come ago della bilancia per la stabilità del governo Lega-Cinque Stelle, dopo che era stato lasciato dai media in balia degli attivisti, il TAP, il MUOS, le trivellazioni in Adriatico, la privatizzazione dell’acqua dopo il referendum, la prosecuzione dell’esperienza dell’Ilva a Taranto, i roghi di rifiuti della Terra dei Fuochi e molti altri – sono portatori di un messaggio di denuncia ad un'idea di sviluppo che è stato snaturato del suo stesso obiettivo, ossia il benessere globale dell'essere umano, e che ha inteso la sua attuazione come un'estensione sregolata e miope della potenza produttiva dei popoli. La prima vittima di una tale distorsione ideologica è stata da sempre e lo è ancora la ricchezza naturalistica, ignorata moltissime volte nell'espressione strettamente capitalistica di tale sviluppo che ad una ricerca non troppo approfondita investe il territorio italiano da Nord a Sud, sia a livello regionale che comunale vista la diffusione impressionante di comitati cittadini impegnati su diversi fronti, dal consumo di suolo alla qualità dell'aria. Ecco che le conseguenze ambientali di grandi opere, di fronte all'immagine di progresso assoluto che queste sono incaricate di offrire, vengono ridotte a cause minori sostenute da quelli che con sufficienza (e al limite ossessione) vengono definiti "dei centri sociali". Di conseguenza, con un’estrema semplificazione, essi vengono immediatamente bollati come nemici del progresso che non vogliono la realizzazione di un vero sviluppo del Paese quando invece sono i rappresentati di una cittadinanza preoccupata per la sorte di territori in cui i propri discendenti abiteranno, che inevitabilmente subiscono un’alterazione del loro equilibrio con la realizzazione di infrastrutture invasive.
Sebbene ciascuno di essi sia strettamente riferito ad una specifica realtà legata ad un territorio, c’è l’idea comune che la valutazione di un’opera non possa fermarsi al numero di posti di lavoro che produrrà il cantiere o gli utili economici che ne deriveranno ma essa dev’essere condotta in modo globale, tenendo conto delle necessità prioritarie della popolazione nell’immediato ma anche e soprattutto nel lungo periodo, valutando parametri quali la distribuzione equa delle risorse e un ambiente salubre. Anche perché le enormi somme di denaro che vengono scambiate tra appalti e subappalti non è certo una novità – siano poi convogliate nelle vie dell'illecito, spesso di carattere ufficialmente mafioso, o nel migliore dei casi siano la merce di scambio per favori reciproci che hanno il solo risultato di sprecare soldi pubblici in progetti sotto le false spoglie di un progresso mitico.
Su queste convinzioni si è basata la loro azione che ha avuto la forza di continuare negli anni nonostante i media di più largo seguito se ne siano interessati solamente al momento di particolari circostanze politiche o disordini dall’ampia risonanza mediatica. La costanza con la quale questi comitati di cittadini hanno portato avanti la causa risiede nella creazione di una coscienza condivisa attorno al problema per mezzo di informazione e sostegno reciproco nella lotta per un’ideale trasversale alle diverse realtà, che è quello dello sviluppo sostenibile della società odierna. È la stessa costanza a cui deve ispirarsi la mobilitazione per la giustizia climatica, la quale condivide con tutte quelle realtà la preservazione di un fragile ecosistema a livello globale, il quale permetta una coesistenza tra natura e attività umane, a totale vantaggio dell’essere umano, tra tutte le creature terrestri quella che più ne beneficia.
L’incontro di tutti in una stessa piazza rende ciascuno partecipante cosciente di un movimento allargato che non lo lascia solo in una sfida troppo grande per essere accettata e che al suo interno si trova compatto, in quanto fedele alla causa ultima per cui si muove, nel dialogo con chi tende ad annichilire ogni azione concreta o a strumentalizzare politicamente la sua identità dimostrandosi molto spesso contradditorio nelle sue posizioni.
In questi termini l’iniziativa per una svolta seria del sistema mondiale che attenui le conseguenze del cambiamento climatico ha il bisogno di essere continuata nei giorni a venire senza che lo sciopero del 15 marzo sia stato un fuoco di paglia. Occorre che l’urgenza di intervenire sia tradotta nella presa di coscienza che la questione ambientale è oggi più che mai una questione politica, sulla quale tutti hanno ampio margine di azione, incontrandosi e imponendo la loro volontà a chi pare vivere in un mondo altro ed esente dalle conseguenze di quel grado e mezzo in più.
27 marzo 2019
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