In un mondo equiparabile ad un palcoscenico teatrale recitano degli attori insoliti, spietati: noi, che cerchiamo, con fittizi espedienti, di estirpare ogni colpa gettandola a ridosso degli altri. Mentre, invero, per individuare il colpevole, non dovremmo che guardare noi stessi; noi, che ben sappiamo giocare con i sentimenti altrui e abbattere un qualunque rapporto.
di Yassemine Zitouni
« Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto
della vita incontrerai tante maschere e pochi volti. »
Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila
Siamo tutti buonisti ipocriti. In una realtà regnata dall’ipocrisia, in cui la medesima storia è sempre calata nel resoconto asettico di una ordinarietà mortificante, parlare di una simile questione – che ha da sempre tormentato l’uomo, o meglio tutti coloro che si sentono soffocare da un vizio conveniente alla sola specie umana e al quale spesso ci si rassegna, oppure ci si dilegua, inseguendo la solitudine o la comitiva di quella smorta minoranza di persone che ne è, per certi versi, esente – risulta tanto arduo quanto frastornante. L’ipocrisia è una trappola in cui facilmente si ruzzola senza avvertirne la caduta, è sottile, celata, un miraggio che ci designa un mondo fittizio, utopico e contemporaneamente spregevole in cui predomina il piacere. Di qui, non si tratta di difendersi da essa, bensì di liberarsene, di comprendere e di incalzare quest’insidia.
Ovunque si vada la si inspira, ma ovunque non la si esamina. Probabilmente è vista come un argomento tabù, un’intoccabile questione da molti considerata estranea e non appartenente alla propria vita, pur esercitandola giornalmente. Non di rado, infatti, nei social network, ormai culla dell’ignoranza, si leggono asserzioni che con sciorinato orgoglio negano ogni accezione ipocrita di fondo portando con cinismo contenuti, precedentemente cuciti, sull’ostilità verso ogni forma di slealtà e sull’esaltazione dell’onestà. A questo punto, lecito sarebbe interrogarsi sul perché l’uomo tenda a trasmettere immagini fuorvianti di sé che completamente si discostano da quelle autentiche o perché sia incline alla finzione; tuttavia la risposta a queste domande è alquanto lapalissiana.
L’ingrediente fondamentale per vivere agevolmente in società, per ottenere vantaggi, per guadagnarsi una buona reputazione – in sostanza, per aggiudicarsi il premio dell’eterna e, allo stesso tempo, apparente felicità – pare sia, per l’appunto, la finzione, la continua messa in scena di maschere diverse. Per tal motivo, si potrebbe sostenere che è conveniente vivere felicemente ipocriti piuttosto che onesti ma "insoddisfatti". Certo, bella vita! Passare i giorni della propria esistenza continuando a negare di fronte all’apparenza, a contraddirsi nell’agire e nel parlare e a turlupinare gli altri – non appena si trova la giusta occasione per conseguire le proprie aspirazioni – è molto appagante, perché il risultato viene ottenuto nell’immediato. Con l’onestà la strada per raggiungere l'obiettivo pare sia invece tortuosa e, per questo, insoddisfacente.
Ci si annulla, come quando si moltiplica un numero per zero, si diventa schizofrenici: perché in fondo l’ipocrisia è figlia della schizofrenia. Le parole, e non solo, divengono prive di peso; sminuite e vuote portano un dialogo ad essere carente di un qualsiasi fondamento, perché vuoto è il contenuto della contraddizione. Altro che rispettare gli altri, fare il bene e agire secondo giustizia: nulla di ciò che si pretende di effettuare viene attuato. Ciò che viene realmente conseguito è soltanto un ripugnante individualismo e relativismo nelle azioni che portano inevitabilmente a compiere il male per se stessi, ad operare "ingiustamente", trasgredendo ogni patto instaurato con gli altri e conseguentemente invadendo e tradendo questi ultimi. E questo significa avere una dignità? Non è di certo avere una buona veste civile od occupare una posizione preminente nella società a conferire all’uomo la dignità, ma è come la si ottiene.
Nel gioco teatrale dell’ipocrisia rientra l’incolpare gli altri dei propri errori, allontanando da sé ogni loro attribuzione con l’intento, spesso, di ottenere attenzione e benefici. Può riguardare singoli eventi, episodi o situazioni che tuttavia hanno una portata drammatica e la cui responsabilità è addossata sulla "vittima" con effetti devastanti. Tale atteggiamento è volto ad avvalorare la propria figura, a raggiungere la serenità, non curandosi del gesto compiuto, per non essere giudicati: è semplice incolpare e "puntare il dito", difficile diviene essere visti come colpevoli e vedere se stessi come tale. Ricordando il film V per Vendetta:
« A dire la verità, se cercate il colpevole… Non c’è che da guardarsi allo specchio. »
Sin dalla tenera età viene insegnato come essere ipocriti, spesso inconsapevolmente, come bisogna atteggiarsi, cosa dover dire per non infierire sugli altri. Pertanto, se un bambino o se uno qualunque esprimesse le proprie opinioni riguardo a un determinato fatto e la persona in questione non si attenesse al pensiero collettivo vigente, verrebbe accusato, dal momento che mentire è un genere di trasgressione a quell’"inconfutabile" e "sacro" pensiero, un delitto; verrebbe poi aggredito da insulti, incorso nel biasimo, emarginato. Sorte, questa, che toccò a diversi illustri personaggi storici da Socrate a Galilei, passando per Giordano Bruno, Lavoisier e via discorrendo. Nell’impero dell’ipocrisia la sincerità viene afflitta, sottovalutata e condannata.
L’ipocrisia è un avviso che simula di essere una relazione, una comunicazione che snatura l’essenza stessa della relazione, togliendone in tal modo entità alla sua sostanza. Essa ha una mansione esorbitantemente sterminatrice per le relazioni; non a caso, essa le disgrega, destruttura la personalità di chi la patisce – come se non lo fosse già di per sé –, impedisce l’affioramento dell’autenticità della vita, sminuisce l’umanità. È lampante, sulla base di ciò, che nessuno possiede, o che, per meglio dire, difficilmente si instaura una vera amicizia, la quale non sia volta all’utile, come delineava Aristotele nell'Etica Nicomachea, allo sfruttamento reciproco, all’inganno. Soggiacere a queste relazioni ipocrite e adattarsi ad esse è un suicidio nella forma in cui l’uomo perde la padronanza della vita, l’empatia, la capacità di differenziare tra la veridicità di un fatto e il falso. Si giunge di conseguenza a seguire schemi di comportamento convenzionalmente delineati, un copione da inseguire per recitare più adeguatamente la parte, non accorgendosi dell’implicita privazione dell’espressività emotiva e cognitiva che comporta. La cultura dell’apparenza e dell’immagine, che anima la società in maniera brutale e innaturale, ha portato tutti a privilegiare successo e immagini alle emozioni e all’espressione del sé. Nel De Rerum Natura, Lucrezio irrompe dichiarando che:
« Quando la necessità ci costringe a usare parole sincere, cade la maschera e si vede l’uomo. »
Questa necessità deve presentarsi ininterrottamente, deve nascere e alimentare gli animi, spronandoli a manifestare non più quelle rozze maschere, ma i volti, ad evadere dalla gabbia dell’ipocrisia che li tiene rinchiusi, isolandoli dall’autentica realtà. Compito dell’uomo ora è parlare alla luce e non più al buio in cui sempre è vissuto. È ora di diventare onesti, perché è solo tramite l’onestà, ovvero l’agire secondo valori fondati sul reale concetto di bene e giustizia, che si possono raggiungere realmente i propri obiettivi, anzi gli obiettivi comuni. È giunto il momento di gettare le maschere, di mettersi a nudo, di rivelare la propria entità, di essere sinceri e di non temere nel farlo. È tempo di conoscere se stessi, direbbe Socrate, innanzitutto, per conoscere gli altri; ponendo fine a questo spettacolo, chiudendo per sempre i sipari di questo teatro. Come William Shakespeare ammoniva nell'Amleto:
« Questo soprattutto: sii fedele a te stesso, e ne seguirà, come la notte al giorno, che non potrai essere falso con nessun altro. »
29 marzo 2019
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