Tanto il libero “pensiero” quanto il relativismo sono delle fughe dal conflitto, dalla messa alla prova, dalle stesse basi di qualsivoglia dibattito
Parlare o scrivere della verità è ultimamente un tabù nell’agone pubblico. Verità è diventato un nome del potere: meglio, cristallizzazione di una determinazione storica di rapporti di potere che incatena il pensiero. Di contro, troviamo numerosi editoriali, interventi televisivi e radiofonici – e più semplicemente anche interventi sparsi tra social networks e blogs – in cui si difende il “libero pensiero”. Questo poiché è largamente assunto da fette sempre più larghe dell’opinione pubblica il libero pensiero come antidoto alla Verità. Cioè, paradossalmente, il relativismo si è fatto ideologia e come scriveva anzitempo Antonio Lombardi: «[il relativista] non avrà mai, quindi, l'umiltà di dire all'altro "hai ragione tu e io ho torto, perché quel che dici tu assolutamente vero"; la verità infatti è soltanto SUA: pare proprio, da come parla, che ne sia lui il depositario».
Su Gazzetta filosofica è stato aperto a questo proposito un importante dibattito che ha ospitato anche un altro intervento, di Francesco Pietrobelli, di cui condivido il tono gramsciano nella critica al soggettivismo. In una posizione come la mia, quella privilegiata di chi arriva dopo, ho provato a ragionare a partire proprio dai due interventi appena citati.
Per invertire questa tendenza è forse utile ricordare la ormai celebre frase di Kant nell'introduzione alla Critica della ragion pura: «il campo di battaglia [Kampfplatz] di queste controversie senza fine si chiama metafisica» (I. Kant, Critica della ragion pura). Qui, ovviamente il filosofo critico risponde alla conflittualità del campo metafisico con un discorso esterno ad esso. Entrambe le Critiche sono tentativi di uscire dal Kampfplatz affermando un’universalità teoretica e pratica della Ragione («La sua filosofia si tiene fuori dal «Kampfplatz», in un altro luogo, di dove si assegna appunto la funzione di arbitrare i conflitti della metafisica in nome degli interessi della Ragione», L. Althusser, Lenin e la filosofia). A noi, però, qui interessa proprio stare dentro il conflitto che attraversa la produzione intellettuale e che si dispiega attorno alla verità. Infatti, se guardiamo la filosofia come una dimensione costitutivamente attraversata da più soggettività e più prassi, anziché come un palcoscenico vuoto sul quale affacciarsi ed esibirsi, iniziamo anche a cogliere il peso strategico e politico della verità.
Quando ci raffiguriamo la filosofia come puro campo dell’astrazione (intesa nel senso comune di “allontanamento dalla realtà”), arriviamo a concepire mostri dell’intelletto, se non situazioni assurde. Un esempio, ironico ma anche terrificante vista la sua veridicità attuale, ci è stato fornito da Althusser in Essere marxisti in filosofia:
« [i filosofi] smarriscono qualsiasi cognizione del passato e del futuro, vale a dire, come ha detto (sant’)Agostino, del presente. Da lì derivava quel fraterno miscuglio di epoche, che li rendeva tutti reciprocamente contemporanei. Il grande disordine della temporalità nel disordine delle idee! »
Immaginandosi un banchetto o, meglio, il Banchetto tra tutti i filosofi in una dimensione a-temporale, Althusser sottolinea come il risultato non possa che essere una totale confusione teoretica. Cioè, o la pratica filosofica si riconosce parte di un Kampfplatz o non è. Ichida Yoshihiko ha commentato questo passo di Althusser con le parole seguenti:
« occupare un campo è allo stesso tempo evocare, riesumare il passato e i morti, perché il campo è occupato da sempre: per occupare, bisogna anzitutto sgomberare uno spazio, e per sgomberarlo, bisogna scontrarsi con chi lo occupa. » (I. Yoshihiko, Temps et concept chez Louis Althusser in "Multitudes")
Il Banchetto di Althusser finisce già prima di iniziare, poiché la filosofia non è appunto un banchetto, ma un esercizio quotidiano del conflitto. Ciò non elimina la possibilità di pensare una verità, ma anzi ne radicalizza la necessità. In altre parole, il filosofare (ma anche lo stesso parlare della verità) non ha modo di esistere se prima il soggetto non si cala nel proprio presente – Das Sein e Kampfplatz soli restituiscono dignità al “lavoro della talpa”.
Per scavare, dunque, la talpa deve posizionarsi dentro e a lato del campo di battaglia. Perciò, tanto il libero “pensiero” quanto il relativismo sono delle fughe dal conflitto, dalla messa alla prova, dalle stesse basi di qualsivoglia dibattito. Sono reazioni alla complessità del vero e alla responsabilità del confronto, che – attaccando l’esistenza di una verità oggettiva – oggettivano e assolutizzano la verità del relativista. Questo, che può sembrare un paradosso, è proprio il difficile processo di mistificazione del potere della verità cui oggi assistiamo. Ma il problema non si dà solo in termini teoretici, quanto invece in termini propriamente etico-politici perché «prendere la parola [...] significa anche uscire fuori da sé stessi, fuggire la solitudine, incontrare gli altri e costruire comunità» (M. Hardt, A. Negri, Assemblea). Bisogna, dunque, avere il coraggio di parlare della verità, perché la sua costruzione collettiva è la stella che ci guida nella notte oscura della realtà.
12 marzo 2019