Il paradosso della privacy e l'ostentazione al tempo dei social

 

La privacy, richiesta e identificata come diritto irrinunciabile, in una società esibizionista perde tutto il suo significato e diventa uno dei tanti paradossi che identificano l’uomo di oggi.

 

di Elisabetta Bizzotto

 

Peter Fendi,  "L'indiscrète", 1883
Peter Fendi, "L'indiscrète", 1883

 

Secondo il dizionario Treccani quando parliamo di privacy ci riferiamo alla «vita personale, privata, di un individuo o di una famiglia, riconosciuta come un diritto e in quanto tale, va rispettata e tutelata».

Il concetto di privacy fu introdotto per la prima volta il 15 dicembre 1980 dai giuristi americani Samuel Warren e Louis Brandeis, che pubblicarono un breve saggio nella Harvard Law Review intitolato The right to privacy, con l’intenzione di muovere causa contro un giornale della città di Boston che aveva l'abitudine di divulgare fotografie dei parties più in voga tra i cittadini altolocati, tra i quali la moglie di uno dei due giuristi, accompagnate da commenti poco delicati.

 

Nel tempo, il significato di privacy, in particolare con l'evoluzione tecnologica, è cambiato.

Originariamente era riferito esclusivamente alla vita privata, ma con l'avvento della tecnologia ha cominciato ad indicare anche il diritto individuale al controllo e all'utilizzo dei propri dati personali: caratteristiche, abitudini, stile di vita, relazioni personali, salute, situazione economica e quanto altro possa rendere identificabile un soggetto.

Con l’avvento della rete internet, la privacy e soprattutto la sicurezza informatica, che si impegna a proteggere i dati sensibili archiviati in forma digitale, sono costantemente in pericolo di essere violate e quindi i dati sensibili rischiano di essere sottratti e modificati da terzi a nostra insaputa.

Quindi pensare che la privacy ora, intesa come tutela non solo della vita privata ma anche dei dati personali, dovrebbe essere salvaguardata e costituire la pietra miliare di questa società digitalizzata, sembra quasi lapalissiano.

 

Eppure non è così.

 

Nel 1969, in occasione del primo allunaggio, Alberto Moravia sosteneva: «La tecnologia non è la scienza. Al contrario della ricerca scientifica, che stimola l'iniziativa individuale, la tecnologia tende piuttosto a creare gli strumenti per un sempre maggiore controllo di tutti su tutti» (Corriere della Sera, 17 luglio 1969).

Nella realtà virtuale, figlia di un crescente progresso tecnologico che ha caratterizzato l'ultimo mezzo secolo, i dati sensibili riportati e inseriti in ogni dove sembrano proprio essere la cosa meno privata che esista.

All'inizio ciò che andava a minare la privacy erano le dicerie e la possibile diffusione attraverso di esse di informazioni private, fino a minacciare la propria reputazione; ora, non sono solo i pettegolezzi ad esporci, ma anche la possibilità che i nostri dati personali possano essere facilmente sottratti da chiunque e modificati. E la cosa più incredibile è che siamo noi, in prima persona, a postare foto con geolocalizzazione, video che ci ritraggono in situazioni goliardiche e ad accettare termini e condizioni non letti e cookie attraverso un semplice e frettoloso click.

 

Il paradosso della privacy è ormai evidente. Sbraitiamo per averla, ma non facciamo nulla di concreto per custodirla, proteggerla e salvaguardarla. Quindi una domanda sorge spontanea: la desideriamo veramente?

 

I social network rappresentano un mezzo che ha lo scopo di controllare idee, preferenze e abitudini della massa. E funziona così efficacemente proprio grazie alla partecipazione eccitata della massa stessa, grazie all'impegno sfrenato che essa investe nel farsi contemplare e nel regalare informazioni.

 

Questo è il pensiero del sociologo e filosofo Zygmunt Bauman che parla di «società confessionale che promuove la pubblica esposizione di sé al rango di prova eminente e più accessibile, oltre che verosimilmente più efficace, di esistenza sociale». Con queste parole Bauman intende evidenziare il rapporto di dipendenza tra vittima e carnefice, e come la vittima sia soddisfatta nel donare tutto quello che il carnefice richiede. Una specie di sindrome di Stoccolma che crea un tipo di alleanza molto solida fra i due poli della relazione.

 

Il desiderio principale è farsi notare, farsi riconoscere e mostrarsi a più persone possibili. Non importa come, in che situazioni e per quali motivi. Condividere tutto di sé online sembra l'unico modo per sentirsi vivi, accettati, magari invidiati, e soprattutto per essere ricordati. È evidente che anche l'importanza della propria reputazione è cambiata nel tempo: ciò che al giorno d'oggi ci terrorizza non è la violazione della nostra privacy, bensì il contrario. La costante voglia di esibirsi e ostentare condividendo il più possibile pezzi di vita, che siano essi esperienze educative o meno, informazioni estremamente personali, pensieri o commenti inadeguati, richiede l'attenzione di un numeroso pubblico, non certo la privacy, non certo un luogo appartato e mancante di ascoltatori appassionati. I luoghi adatti a mostrarsi sono diventati le riviste, i talkshow televisivi e le piattaforme digitali con milioni e milioni di spettatori pronti a giudicare e decidere chi sarà il prossimo buffone o personaggio ad essere ricordato nei suoi «quindici minuti di notorietà»… giusto per citare Andy Wharol.

 

Sviluppo tecnologico e diritto alla privacy sono indirettamente proporzionali e il rafforzamento della prima implica l'indebolimento della seconda: pertanto maggiore è l'efficacia con cui gli strumenti tecnologici ci permettono di comunicare, crescente è la velocità con cui i dati personali vengano condivisi senza il controllo del legittimo interessato.

Ma, il legittimo interessato, dipendente da iniezioni di tecnologica autostima e timoroso di essere dimenticato, è più attento al proprio ruolo sul palcoscenico virtuale che a proteggere la propria identità reale. Umberto Eco, in una celebre Bustina di Minerva nel 2014, scrisse: «È paradossale che qualcuno debba lottare per la difesa della privatezza in una società di esibizionisti» e, al convegno europeo organizzato dall'Aspen Institute asserì: «Chi difende la privacy difende qualcosa che la gente non vuole più; la gente ormai vuole andare in tv a dire che è cornuta, usa in modo spasmodico il telefonino, che è la negazione della privacy; va su Internet, si fa assalire dalle offerte pubblicitarie, paga ed è contenta».

 

Quindi, tornando alla domanda Nella società dell'ostentazione, desideriamo veramente la privacy?, la risposta è no, o almeno non tanto quanto desideriamo apparire, essere notati, essere famosi.

 

29 novembre 2019

 




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