«Gli uomini hanno barattato un po’ di felicità in cambio della sicurezza»: questo è il grande messaggio che ci ha regalo Sigmund Freud nel suo Disagio della civiltà. La felicità ha evidentemente un prezzo, un prezzo che va pagato in parte alla propria coscienza (Super-io) in parte a quel grosso apparato – che ricorda il Leviatano hobbesiano – che è la società. Ma cosa potrebbe accadere se, per un attimo, ci dimenticassimo dei nostri padri severi della coscienza ed assecondassimo esclusivamente le nostre pulsioni?
Freud, padre della psicanalisi, ha ideato quella che è conosciuta ancora oggi come topica della psiche. Non essendo questa una lezione di psicoanalisi, ci ridurremo a presentare la cosiddetta topica strutturale e lo faremo in maniera piuttosto sintetica. La psiche umana presenta la seguente divisione strutturale.
1) L’Es: è il calderone disorganizzato e potente di tutte le pulsioni umane. È qui che risiedono tutte le aggressività, le sessualità, e le immagini più recondite della nostra mente. Nell’es, le immagini possono galleggiare in maniera indisturbata e senza inibizioni.
2) Il Super-Io: è il padre severo della nostra mente, un filtro attraverso cui passano le immagini dell’Es per essere “purificate” e “ripulite” prima di passare all’esterno. Il Super-Io è la risultanza del bagaglio etico e valoriale dell’individuo, una coscienza che vergognandosi di quello che l’es è riuscito a produrre provvede e ripulirlo.
3) L’Io: svolge tutto quello che è riconducibile alla parte vigile e manifesta dell’uomo, è la sintesi tra ciò che ha prodotto l’es e ciò che ha inibito – o non inibito – il Super Io.
Sarebbe troppo riduttivo dire che Arthur abbia un Super-Io troppo poco severo: l’implosione delle pulsioni cattive del protagonista ha un processo ben più complicato che è rinvenibile lungo la pellicola del film. Arthur, a ben vedere, ha un discreto impianto valoriale al quale tiene fede: è una brava persona molto fedele alla madre; si scusa e quasi si sente in colpa del suo disturbo che lo spinge a ridere a crepapelle anche nelle circostanze più serie; gioisce del suo lavoro – clown di corsia – in quanto unica via a sua disposizione per realizzare il suo desiderio di portare gioie e risate nel mondo; è innocentemente spaventato nel toccare per la prima volta un’arma da fuoco; è piacevolmente ammaliato dalle attenzioni della sua vicina di casa. Insomma, comportamenti umani – o troppo umani, per dirlo come lo direbbe Nietzsche – che mai e poi mai avrebbero fatto presagire il destino da criminale del personaggio.
L’impressione sembra essere, piuttosto, quella che il Super-Io sia stato messo a dura prova dalla realtà circostante nella quale è cresciuto Arthur. Il disagio della civiltà è palpabile nel fatto che la sua prestanza morale non abbia trovato un riscontro positivo nel mondo, un mondo dal quale si sente abbandonato e deriso. I pestaggi subiti – prima per strada poi in metropolitana – sono solamente un assaggio del grande dolore che Arthur è costretto a subire e che trova il culmine in due “mali emotivi” che evidentemente non è riuscito a superare: il tradimento della madre e la calunnia del suo idolo Murray Franklin. A quel punto è come se la topica strutturale del nostro personaggio avesse subito uno scossone talmente forte da romperne pareti e confini, unendo il tutto in un’unica massa di risentimento e follia.
Ecco allora come Joker è riuscito a superare quel disagio di cui parlava Freud: quasi come un Superuomo, Arthur, dà un calcio ai valori frenanti ed inizia ad assecondare quei pensieri che egli stesso – in un passaggio del film – ha definito “sempre negativi”. Questa trasformazione del personaggio è riscontrabile anche i due modi di porsi che fanno da bandierina ad inizio e fine film. Nelle prime battute sentiamo il protagonista dire – anzi, scrivere su una pagina del suo diario –: «spero che la mia morte abbia più senso della mia vita», per concludere poi con: «Ho sempre pensato che la mia vita fosse una tragedia, ma ora capisco che è una commedia». Joker pare abbia subito un risveglio della coscienza e si sia risvegliato da un brutto sogno nel quale egli stesso era l’oggetto della calunnia collettiva nonché l’emblema di una società che non supporta tutti i suoi membri, lasciando indietro i più deboli. È qui che ha inizio il suo riscatto sociale. No, la felicità non si ottiene barattandola in cambio della sicurezza. La felicità – per Joker – si ottiene fregandosene della sicurezza e della società (come essa stessa ha fatto con lui) ed assecondando la propria realtà istintuale. Difficile dire se Arthur fosse davvero felice alla fine del film – e quindi del suo iter psicologico – ma il ballo trionfale che esegue con la folla acclamante ci lascia immaginare di sì.
Joker ha liquidato l’impianto “filosofico” di Freud, avvicinandosi piuttosto a quello nietzschiano. L’unica differenza sta nel fatto che questo superuomo più che risultato di una volontà di potenza, è risultato della delusione nata nei confronti di una società infame che pensa a combattere i super-ratti piuttosto che i super-demoni delle persone che soffrono nel loro piccolo angolo di quotidianità. E chissà quanti Joker, lasciati a loro stessi, si nascondono nelle strade del nostro paese e del mondo. Qualcosa, da questo film, possiamo sicuramente imparare.
6 novembre 2019