Le lingue di esclusione possiedono l'esplicita finalità di disorientamento e coercizione dei destinatari. Concependo la lingua come lo strumento di espressione del linguaggio, risulta corretto riferirsi alle lingue di esclusione come tali?
Che il linguaggio rappresenti lo strumento di comunicazione del pensiero umano e delle idee di ciascuno risulta una conoscenza oramai assodata. Con linguaggio si deve intendere la «capacità tipica della specie umana di comunicare per mezzo di un sistema di segni vocali» e l’«insieme di simboli e regole per la redazione dei programmi di elaborazione» (Lo Zingarelli minore. Vocabolario della lingua italiana). Il linguaggio risulta, quindi, una facoltà umana intrinsecamente connessa e dipendente dalla mente. Esso ha certamente una funzione comunicativa del pensiero, ma si identifica anche in uno strumento utile all’interpretazione della realtà. Come afferma Noam Chomsky in La scienza del linguaggio, esso «non si limita a raggruppare informazioni; non è un dispositivo di registrazione». Si evince come il linguaggio consenta all’uomo di realizzare pienamente la sua umanità, permettendogli di entrare in contatto con l’Altro e, conseguentemente, di partecipare adeguatamente alla vita politica, sociale e culturale della comunità in cui la persona è inserita. Come già espresso in altra sede, il linguaggio è il principale e, oserei dire, unico garante di democrazia, in quanto strumento primo di dialogo e discussione. Nel momento in cui viene meno la facoltà di utilizzare il linguaggio, viene meno anche la possibilità di concretizzare la democrazia. Citando il grande studioso Tullio De Mauro, che riprende un’opinione espressa da de Saussure, linguista e semiologo svizzero, vi è, infatti, un forte e stretto parallelismo tra le dimensioni del parlare, del pensare e del partecipare; ciò significa che la stessa comunicazione verbale permette ai cittadini di partecipare alla vita sociale e comunitaria, facendo loro assumere un ruolo estremamente attivo.
Risulta necessario, comunque, operare un distinguo fra il concetto di linguaggio e quello di lingua: il primo, come esplicato in precedenza, consiste nella capacità di comunicare dei messaggi ad altri «per mezzo di un sistema di segni» e può essere di varia natura, quindi “verbale”, “non verbale”, “musicale” ecc. La lingua consiste, invece, nella forma peculiare attraverso la quale si manifesta il linguaggio verbale. Esistono, infatti, moltissime lingue diverse, le quali rientrano tutte all’interno del grande “contenitore” rappresentato dal linguaggio verbale. Ci viene nuovamente in aiuto Ferdinand de Saussure che, nell'opera Corso di linguistica generale (1916), esplica la differenza tra lingua e linguaggio:
« La lingua […] non si confonde col linguaggio; essa non ne è che una determinata parte […]. Essa è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui. Preso nella sua totalità il linguaggio è multiforme ed eteroclito […]. La lingua, al contrario è in sé una totalità e un principio di classificazione. »
Nel corso della propria vita, ogni persona sarà certamente venuta in contatto, almeno una volta, con la cosiddetta “lingua delle istituzioni”, ossia quella particolare lingua (se tale può essere definita) che le istituzioni adoperano per la stesura dei loro documenti. Si tratta di una lingua che ha la finalità prima di disorientare e confondere i lettori, in quanto estremamente lontana dall’uso quotidiano della lingua. Il linguista Michele Cortelazzo ha svolto un’indagine volta individuare le caratteristiche di quelle che sono state definite burocratese, ossia la lingua della burocrazia, e politichese, cioè quella della politica. Ciò che è emerso dalla ricerca è stato l’individuazione, in queste lingue, di una complessità morfo-sintattica, che sfocia nell’uso di molte proposizioni implicite e di costruzioni sintattiche particolarmente elaborate. È diffuso l’uso della spersonalizzazione, coerente con la volontà di non individuare il soggetto delle azioni, ossia il personale della pubblica amministrazione, assieme a quello dei verbi alla forma passiva e di connettivi arcaici. Dal punto di vista lessicale, si assiste all’utilizzo di sostantivi estremamente complessi e arcaici, con riferimenti alla lingua latina. Questo tipo di lingua possiede, quindi, l’esplicito intento di confondere i lettori, escludendoli dal processo di comprensione dei testi prodotti dalle istituzioni, testi che, comunque, rappresentano un importante strumento di comunicazione tra Stato e cittadini. La maggior parte di quest’ultimi, non avendo una formazione specifica di natura giuridica che ponga loro nella condizione di comprendere autonomamente i testi, non possiedono le capacità adeguate alla comprensione e si trovano esclusi dal processo informativo e comunicativo presente all’interno della comunità. Tale esclusione ha un impatto non banale nella comunità, in quanto non consente ai cittadini di vagliare con pensiero critico le informazioni veicolate dallo Stato e poter, quindi, condividerle o confutarle. Si evince come il burocratese e il politichese rappresentino uno strumento di coercizione e di controllo subdolo delle coscienze dei cittadini, in particolare di quelli culturalmente più svantaggiati; ha accesso a tale lingua solo una marginale élite di persone, ossia coloro che hanno ricevuto una formazione di carattere giuridico.
Finora ci siamo sempre rivolti al burocratese e al politichese come delle “lingue”; tuttavia, se assumiamo la concezione di lingua come una sorta di sottoinsieme del linguaggio, diventa contraddittorio concepire il burocratese e il politichese come delle lingue. Il linguaggio, infatti, essendo uno strumento comunicativo del pensiero, permette la comunicazione e l’interazione con l’Altro; il burocratese e il politichese, invece, interrompono il processo comunicativo, causando l’emarginazione di una grossa fetta della popolazione. La contraddittorietà della concezione del burocratese e del politichese come lingue si palesa anche nella loro non democraticità, aspetto che è garantito dal linguaggio; quest’ultimo possiede intrinsecamente connotati di democraticità. L’americano John Dewey, nella sua opera Democracy and Education (1916) forniva una definizione di democrazia come «more than a form of government, it is primarily a mode of associated living, of conjoint communicated experience» ([la democrazia] è più di una forma di governo, è primariamente un modo di vita associata, di esperienza congiuntamente comunicata). Del resto, lo sfruttamento della lingua a fini coercitivi non rappresenta un fenomeno nuovo nella storia, basti analizzare le strategie comunicative adottate dal duce Mussolini durante l’epoca del Fascismo.
Se, quindi, non risulta possibile concepire il politichese e il burocratese come lingue, come potremmo definirle? Un suggerimento perviene da Calvino, il quale, nel 1965, in un articolo pubblicato ne La Stampa, introduce il concetto di antilingua, intesa come quella forma fatta assumere alla lingua italiana da tutte quelle persone (in particolare, secondo Calvino, avvocati e funzionari, consiglieri d’amministrazione, redattori di giornali e di telegiornali) che sostituiscono i vocaboli di significato ben preciso con altri che veicolano idee e concetti vaghi e sfuggenti.
Affinché gli Stati possano quindi raggiungere livelli più elevati di democraticità e di partecipazione si auspica la realizzazione di un progetto di semplificazione dei testi istituzionali, nel limite consentito dalla complessità dei concetti espressi. In diversi Paesi questo progetto è già stato intrapreso: siamo fiduciosi che tali Paesi rappresentino un emblema da imitare e che le comunicazioni avvengano coerentemente con quell’etica comunicativa che dovrebbe caratterizzare qualsiasi testo, soprattutto di carattere informativo.
8 novembre 2019
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