Nel suo libro, Francesco Marrone ricostruisce una genealogia della nozione di realitas obiectiva. Comunemente considerata una scoperta moderna, "cartesiana", essa va invece fatta risalire ai dibattiti dello scotismo francese e italiano dei secoli XV e XVI.
Almeno da Étienne Gilson in poi, il lessico della modernità filosofica è stato oggetto di studi che ne hanno ridimensionato – e giustamente – il carattere di assoluta novitas assegnatogli precedentemente, quando si guardava alle categorie squadernate ad esempio nell’epistemologia e nella metafisica cartesiane come a dei veri e propri “funghi” concettuali: spuntati dal nulla, a un certo punto della storia del pensiero occidentale. Una storia che da lì in poi sarebbe cambiata radicalmente, perché sin da subito quei concetti sono stati percepiti come alternativi (se non addirittura opposti) ai paradigmi della tradizione medievale. Ma, banalmente, per crescere, i funghi hanno bisogno di un terreno, e fertile. E per quanto potremmo non esserci accorti della fecondazione, e ci capiti di trovarli lì da un giorno all’altro, non possiamo non sospettare che il terriccio contenesse tutti i “presupposti” utili alla proliferazione delle spore.
È alla perlustrazione di questo vero e proprio humus storico-filosofico che si rivolge un recente libro di Francesco Marrone, ricercatore presso l’Università degli Studi di Bari, intitolato Realitas obiectiva. Elaborazione e genesi di un concetto (Edizioni di Pagina, 2018), in cui la missione è esattamente quella di andare a caccia dei prodromi teorico-testuali di una nozione modernissima, quella di “realtà oggettiva” appunto; che si è imposta in maniera esplicita a partire dalle Meditazioni di Descartes, ma che ancora oggi costituisce una protagonista indiscussa del nostro linguaggio: quando si parla del mondo, della natura, della società, dei fatti della politica, ciò che ci interessa è che venga fuori la realitas obiectiva delle cose di cui parliamo. Eppure non è così scontato cosa significhino i lemmi che compongono questa locuzione, la cui struttura è stata anzi preparata in secoli di storia della filosofia andando incontro a diverse ricalibrazioni semantiche, come lo stesso Marrone vuol farci vedere. Ciononostante, ci avverte, si tratta di uno di quei concetti di cui finora non è stata chiarita l’esatta provenienza teorica. Ed è proprio per questo che egli si mette alla ricerca:
« Via via che l’indagine sulle cosiddette fonti cartesiane procedeva, due elementi si imponevano con peculiare chiarezza: in primo luogo, che la letteratura critica, salvo qualche rara e non del tutto valorizzata eccezione, non è riuscita a rintracciare ‘antecedenti determinati’ per la nozione di realitas obiectiva; in secondo luogo, che tale indagine retrospettiva ha permesso di individuare nozioni, concetti e sintagmi che sono senz’altro simili all’espressione utilizzata da Descartes, ma non coincidenti con essa o ad essa perfettamente sovrapponibili. » (p. 13)
Una tendenza prevalente della ricerca storiografica ha inteso individuare nella grandiosa sintesi scolastica costituita dalla metafisica del teologo gesuita Francisco Suárez (1548-1617), e nella nozione di conceptus obiectivus da questi messa a punto nelle sue Disputationes metaphysicae, il vero e proprio antecedente della realtà oggettiva cartesiana. Ma – osserva Marrone – se la linea evolutiva che dal teologo granadino giunge allo scienziato e metafisico francese non può essere smentita per moltissimi altri “plessi teorici”, per quello in questione sarà necessario immaginare nessi genealogici alternativi rispetto a quello suarezista, su cui si punta anche e soprattutto per la formazione di Descartes, notoriamente avvenuta presso il collegio gesuita di La Flèche. La ragione principale è di ordine terminologico: al netto delle affinità reciproche dovute al contesto storico-culturale, non si può dare per scontata la convertibilità di “concetto” e “realtà”. Già a noi uomini del terzo millennio paiono due termini assolutamente distinti (se non addirittura opposti); ma anche per questi autori non dovevano apparire “indifferenti” o “sinonimi”, per quanto sicuramente molto più vicini di quanto non lo risultino oggi. Pertanto, la propensione per l’uno piuttosto che per l’altro dovette avere un significato dottrinale non trascurabile nei dibattiti pre-moderni. E tale sarebbe apparso allo stesso Cartesio.
« Questo punto non ammette ambiguità. Descartes avrebbe potuto fare ricorso alla nozione di conceptus obiectivus e collocarsi di conseguenza nell’alveo di una solida quanto attestata tradizione, che teneva assieme, com’è noto, le Disputationes suareziane e la quasi totalità dei commenti e manuali in uso nei collegi. Al contrario, in netta controtendenza rispetto a quella tradizione, Descartes ha deliberatamente preferito la nozione di realitas obiectiva, operando una scelta che lo avrebbe esposto ad una serie di obiezioni di volta in volta elaborate proprio dai moderni scolastici che egli aveva l’intenzione di persuadere. » (p. 456)
Questo ed altri indizi conducono Marrone a cercare lungo altre vie gli alvei in cui è stato generato il concetto moderno di “realtà oggettiva”; e tali sono soprattutto i sentieri di quei seguaci di Duns Scoto meglio noti sotto l’etichetta di formalistae, cui sono appartenuti pensatori come Antoine Sirect; il francescano patavino e “princeps scotistarum” Antonio Trombetta (1436-1517); Pierre Tartaret; Martin Meurisse (1584-1644).
Il problema con cui sono alle prese questi scolastici è quello, tipicamente scotiano, dell’attribuzione intrinseca dell’essere tanto a Dio quanto alle creature, senza con ciò compromettere l’assoluta semplicità del primo. Per distinguere infatti Dio dagli enti creati, con i quali pure condivide la proprietà di “essere”, si dovrebbe ammettere ch’esso possieda altre proprietà, che ne farebbero una realtà composita: il suo concetto sarebbe una sorta di “aggregato metafisico”. Il che evidentemente non si addice all’Essere perfettissimo. Il problema insomma è quello di pensare, senza contraddizioni e salvaguardando la trascendenza divina, l’assoluta univocità della nozione di ente.
La soluzione adottata da Scoto sarà quella di distinguere tra una univocità “reale” (in realitate) e una “concettuale” (in conceptu), ammettendo che l’ente infinito, cioè Dio, e gli enti finiti condividano l’essere solo secondo questo secondo tipo di univocità: nella realtà, essi non avrebbero nulla “in comune”.
Quel che Marrone lascia emergere con acribia invidiabile nel corso della sua disamina storica è come, nelle successive sistemazioni dei formalisti, la suddetta coppia realitas/conceptus venga sostituita da quella realitas subiectiva/realitas obiectiva. La convenienza nell’essere è impossibile nella prima, cioè nella realtà considerata da parte dei differenti “soggetti” che la compongono (questa penna, il cane del mio vicino, me stesso, Dio), ma necessaria nella seconda, cioè nella realtà considerata come intenzionata dall’intelletto, e perciò come quell’oggetto in cui “oggettivamente” convengono tutti i diversi subjecta. Attenzione, però: la realtà oggettiva così concepita non è da intendersi come una mera immagine mentale o come un’astratta fictio logica, ma conserva uno statuto ontologico tale per cui essa è una vera e propria “entità”, seppure noetico-formale. Si tratta di uno “scivolamento” lessicale apparentemente innocuo a un occhio non avvezzo a calarsi nella complessità dei processi storici, ma dalla portata epocale:
« Con un colpo di mano dalle conseguenze incalcolabili, i formalisti confermano una tesi che più volte era stata avanzata in epoca scolastica, soprattutto dal XIII secolo, ma che non era mai stata formulata con altrettanta chiarezza e rigore.
Realtà ed esistenza non sono nozioni equipollenti: questa è, nella sostanza, la tesi che emerge dalla rielaborazione formalista della solutio di Duns Scoto.
Questa disarticolazione tra realtà (realitas obiectiva) ed esistenza (realitas subiectiva) non implica tuttavia che le due accezioni della realitas siano a loro volta disarticolate l’una rispetto all’altra. Realtà ed esistenza rientrano infatti nello stesso ambito semantico, perché costituiscono la specificazione di una sola e medesima nozione di realitas; nondimeno, esse rinviano ad accezioni differenti, che si rapportano l’una all’altra in maniera ‘asimmetrica’. » (p. 463)
La dettagliata ricostruzione di Marrone sembra così corroborare filologicamente ed ermeneuticamente quanto è stato sostenuto in sede euristica da certi neoscolastici milanesi, come Gustavo Bontadini, secondo cui la filosofia dei Dottori, nelle sue fasi più tarde, ha incominciato a pensare la realtà noetica come alcunché di “sganciato” dalla realtà effettivamente esistente, contribuendo a produrre quel cortocircuito che darà vita allo "gnoseologismo" latentemente operante da Cartesio in avanti: e cioè a quel presupposto tipicamente moderno per cui la realtà delle cose si situa ab origine al di là delle idee e dei concetti che ne abbiamo, del pensiero in generale. E difatti Marrone si augura in conclusione che l’indagine vada avanti a capire se e come la genealogia da lui individuata e studiata sopravviva e si sviluppi a partire dalla storia degli effetti della terza Meditazione cartesiana.
Non bisogna però commettere l’errore, fin troppo facile, di considerare questi svolgimenti premoderni come se fossero teleologicamente ‘Descartes-oriented’: Cartesio rimane, come dice Marrone, “un caso a parte”, e pur recependo dai suoi predecessori il vocabolario della realtà oggettiva, se ne serve in maniera ben più ampia rispetto ai grattacapi univocistici degli scotisti, conferendo ad esso una curvatura tutta particolare. Il che, oltre a quella di Cartesio, preserva anche nella sua autonomia e nel suo peculiare interesse l’impresa speculativa di Antonio Trombetta, «vera e propria sintesi delle interpretazioni pre-moderne delle cosidddette Formalitates Scoti» (p. 458), cui è dedicata tutta la prima parte dell’opera. Alla seconda e alla terza parte è invece affidato, rispettivamente, l’esame delle dottrine di coloro che hanno preceduto Trombetta stesso nella definizione del concetto di realtà oggettiva (Enrico di Gand, Scoto, Giovanni Canonico) e di coloro che lo hanno succeduto (Tartaret e Meurisse). Quattro appendici, inoltre, impreziosiscono il tutto, presentando al lettore estratti dei testi discussi nel corso del lavoro, di cui val la pena menzionare almeno il trombettiano In tractatum formalitatum Scoti sententia (1505). In questo modo, Marrone raggiunge il non facile scopo di restituirci l’anatomia, complessiva e complessa insieme, di una giuntura della storia del pensiero tanto importante quanto, proprio perché delicatissimo momento di passaggio, difficilmente comprensibile.
9 novembre 2019
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