Il concetto di decrescita non coincide necessariamente con quello di crescita negativa. È infatti più opportuno parlare di “acrescita”, così come si parla di ateismo e, al tempo stesso, sta diventando quanto mai necessario farlo.
Serge Latouche è un economista e filosofo francese. È un ammiratore della Revue du MAUSS, presidente dell'associazione La ligne d'horizon, nonché professore emerito di Scienze economiche all'Università di Parigi XI e all'Institut d'études du developpement économique et social (IEDES) di Parigi.
Lavoro e decrescita: una doppia sfida
« Il sistema economico produce ricchezze crescenti con una quantità decrescente di lavoro. Ma rifiuta di redistribuire il lavoro in modo tale che tutti possano lavorare meno e meglio, senza perdita di reddito. Preferisce che una parte della popolazione lavori a tempo pieno, che un’altra sia disoccupata e che una terza, sempre più numerosa, lavori a tempo e a salario ridotti. » (A. Gorz, Capitalismo, socialismo, ecologia)
Nel 1989, il programma dell’SPD tedesco calcolava che l'obiettivo di raggiungere il tempo di lavoro settimanale a 30 ore spalmate su cinque giorni, a cui andava aggiunto il diritto all’anno sabbatico e ai congedi pagati, avrebbe portato ad una riduzione di mille ore di lavoro annue. Questo programma sosteneva chiaramente una decrescita. La brutalità del grande salto sociale all’indietro, generato dalla mondializzazione, ha condotto le politiche cosiddette socialiste a rimettersi in tasca, per motivi di realismo, i progetti di cambiamento. Ma la sinistra “altermondialista” o radicale, quella che sogna un altro mondo possibile, ha mostrato forse di rifiutare la società del lavoro e della crescita? Non è del tutto sicuro. La nostalgia per l’economia della piena occupazione, quella dei “Trenta gloriosi” sembra avere la meglio anche per quella sinistra dell’utopia di una democrazia ecologica. Costretti dunque a farsi realisti, “questi figli viziati dei ricchi”, secondo un giornalista di Le Monde, quali soluzioni suggeriscono di elaborare al problema della disoccupazione? Quale posto e quale statuto per il lavoro nel progetto di una società della decrescita? Quale politica sociale? Risolvere a breve termine il problema della disoccupazione, senza rinunciare ad abbandonare la religione della decrescita, è la doppia sfida che si è posto Serge Latouche.
Che cos'è la decrescita?
La decrescita non coincide con la crescita negativa. Il rallentamento della crescita sprofonda le nostre società nello sgomento, aumenta i tassi di disoccupazione e causa l’abbandono dei programmi sociali, sanitari, educativi, culturali e ambientali che vanno a determinare la qualità della nostra stessa vita. Nulla è più temuto in una società della crescita che la crescita si renda latitante. Tuttavia, questo stesso regresso sociale e civile è esattamente ciò che Latouche si aspetta a meno che non si attui un cambio di direzione.
A rigore, sul pieno teorico, si dovrebbe parlare di a-crescita, come si parla di a-teismo, più che di de-crescita. Si tratta proprio di abbandonare una fede o una religione, quella dell’economia, del progresso e dello sviluppo, di rigettare il culto irrazionale e quasi idolatra della crescita fine a sé stessa. La decrescita è dunque la meta di coloro che hanno fatto e fanno una critica radicale dello sviluppo e vogliono delineare i contorni di un progetto alternativo per una politica del dopo-sviluppo.
L’attuale sovra-crescita economica si scontra con i limiti della finitezza della biosfera. La capacità rigeneratrice della terra non riesce più a seguire la domanda: l’uomo trasforma le risorse in rifiuti più rapidamente di quanto la natura sia in grado di trasformare questi rifiuti in nuove risorse. I ricercatori dell’istituto californiano Redifining Progress e della World Wild Foundation (WWF) hanno calcolato che lo spazio bioproduttivo consumato pro capite dalla popolazione mondiale è in media di 2,2 ettari. Dunque gli uomini hanno abbandonato da tempo il sentiero di una civiltà sostenibile, che richiederebbe di limitarsi a 1,8 ettari a persona – ammesso che la popolazione attuale rimanga stabile. Inoltre, questa impronta media nasconde disparità enormi. Un cittadino degli Stati Uniti consuma 9,6 ettari, mentre un francese 5,26. L’umanità già consuma circa il 30 per cento in più della capacità di rigenerazione della biosfera. Se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero tre pianeti, sei se invece tutti vivessero come gli americani. Ciò che colpisce ancor di più è che la maggior parte dei paesi dell’Africa consumano meno di 0,2 ettari pro capite di spazio bioproduttivo e, al tempo stesso, ci forniscono gli alimenti per il nostro vivere.
Tutti hanno considerato la crescita economica come la pietra angolare indiscutibile dei loro sistemi. Il cambiamento di rotta oggi necessario non è del tipo realizzabile semplicemente con delle elezioni; è necessario infatti qualcosa di più radicale: né più né meno che una rivoluzione culturale, che porti a una rifondazione della politica.
Le otto R
Negli anni sessanta del secolo scorso i professori di economia e i tecnocrati sottolineavano continuamente i circoli virtuosi della crescita. Quel periodo, definito dei «Trenta Gloriosi», se si fa un bilancio dei danni subiti dalla natura e dall’umanità, può essere meglio definito dei «trenta disastrosi» (G. Clément e Louisa Jones, Un'ecologia umanista).
Dall’altra parte si può avviare una trasformazione necessaria per la costruzione di una società di decrescita che può essere rappresentata come l’articolazione di otto cambiamenti interdipendenti che si rafforzano reciprocamente. Si può sintetizzare l’insieme di questi cambiamenti in un circolo virtuoso di otto «R»:
- Rivalutare: è necessario passare dalla fede nel dominio sulla natura alla ricerca di un inserimento armonioso dell'uomo nel mondo naturale;
- Riconcettualizzare: la rarità postulata dagli economisti è diventata una profezia autorealizzantesi e non sarà possibile uscire dall’economia senza affrontare la sfida della scomparsa delle risorse naturali;
- Ristrutturare: è in gioco il cammino verso una società della decrescita. Si pone concretamente la questione della fuoriuscita dal capitalismo, nonché della riconversione di un apparato produttivo che deve adattarsi al cambiamento di paradigma;
- Ridistribuire: l’impronta ecologica può essere un ottimo strumento per l’introduzione di un’elasticità nel modo di gestione dei suoi stessi limiti;
- Rilocalizzare: i movimenti di merci e di capitali devono essere limitati all’indispensabile e, d’altra parte, questa rilocalizzazione non può essere soltanto economica;
- Ridurre: non sarà possibile costruire una società serena della decrescita senza ritrovare le dimensioni della vita che sono state rimosse: il tempo per fare il proprio dovere di cittadino; il piacere della produzione libera, artistica o artigianale; la sensazione del tempo ritrovato per il gioco; la contemplazione, la meditazione e la conversazione o semplicemente la gioia di vivere;
- Riciclare: non può più essere contestabile la necessità di una riduzione dello spreco sfrenato, dell’obsolescenza programmata delle attrezzature e del riciclo dei rifiuti non direttamente riutilizzabili.
Se sicuramente l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, la sua realizzazione può essere avviata soltanto sul campo. Il progetto di decrescita comprende quindi altri due elementi interdipendenti: l’innovazione politica e l’autonomia economica locale.
- Riutilizzare: riparare le apparecchiature e i beni anziché gettarli in una discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi, dell’obsolescenza degli oggetti e la continua abitudine allo spreco che caratterizza i paesi ricchi da ormai mezzo secolo.
La decrescita come nuovo umanesimo
I sostenitori della decrescita sono sospettati, come tutti gli ecologisti, di rifiutare l’antropocentrismo della tradizione illuminista a favore di un ecocentrismo integralista, dunque di aderire a una forma di ecologia estrema che implicherebbe posizioni antispeciste. In altri termini, li si sospetta di preferire la salvaguardia della natura a quella degli uomini. Se a questi si aggiungono coloro che introducono nel discorso persino una dimensione spirituale, ecco che vengono automaticamente accusati di ecolatria.
Prima di tutto è necessario intendersi su cos’è l’umanesimo, che si può definire come la convinzione che il concetto di “essere umano” celi una realtà sostanziale che trascende la pura esistenza della specie (Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita). Detto in altri termini, l’umanità dell’uomo esisterebbe a prescindere dagli uomini concreti.
Secondo Latouche, la decrescita, intesa come filosofia fondatrice di un progetto di società autonoma escludente il discorso umanista, deriva dal fatto che essa si basa su una critica dello sviluppo, della crescita, del progresso, della tecnica e in sostanza della modernità e implica una rottura con l’occidentalcentrismo. Non a caso, la maggioranza degli ispiratori della decrescita (Ivan Illich, Jacques Ellul, ma anche Claude Lévi-Strauss, Robert Jaulin, Marshall Sahlins e molti altri) hanno denunciato l’umanesimo occidentale. Con i diritti dell’uomo, la democrazia e, ovviamente, l’economia, le invarianti transculturali hanno invaso la scena e non sono più contestabili, tuttavia riconoscere una “ecomoralità” non significa necessariamente scivolare nell’ecolatria dei nuovi culti ecologici, né farsi seguaci dei culti neopagani sincretistici e new age che fioriscono qua e là per riempire il vuoto dell’anima delle nostre società alla deriva. In Occidente non si è instaurato un rapporto armonioso tra l’uomo e il suo ambiente vivente e non vivente; persino la riflessione marxista si è inserita in questa analisi, il che fa dire a Hans Jonas che l’umanizzazione della natura altro non è che la sottomissione totale di questa da parte dell’uomo, con uno sfruttamento assoluto per il soddisfacimento dei suoi bisogni. Utilizzare massicciamente un’energia fossile fornita gratuitamente dalla natura sminuisce il lavoro umano e autorizza un saccheggio illimitato delle ricchezze naturali. Ne deriva una sovrabbondanza artificiale sfrenata, che distrugge ogni capacità di meraviglia di fronte alla realtà. Serge Latouche sostiene che il “disincanto” del mondo moderno è più semplice, ma anche più profondo di quello che fa intendere l’analisi di Max Weber. Esso non deriva tanto dal trionfo della scienza e dalla cancellazione degli dei, quanto piuttosto dalla banalizzazione delle cose prodotta dallo stesso sistema termoindustriale.
È proprio a questa banalizzazione mercantile che bisogna opporsi, ponendosi quasi dal punto di vista di un artista, in quanto, per una società della decrescita, come per Oscar Wilde, l’arte è inutile e dunque essenziale.
15 ottobre 2019
DELLO STESSO AUTORE
Problema ecologico e internazionalismo nel pensiero di Yuval Noah Harari
SULLO STESSO TEMA
Valentina Gaspardo, Oltre il capitalismo
Francesco Pietrobelli, L'economia: tiranno o suddito dell'uomo?