Tra i sintomi presenti nella post-modernità, intesa come concetto generale che si definisce per differenza da ciò che è moderno, quello più ricorrente è la solitudine. Essa è riscontrabile in ogni dimensione pratica del vivere post-moderno, e tuttavia nasce dalla teoria, da quel concetto di “io” – diventato un “noi stessi”, veramente – che ci trasciniamo dall’epoca moderna. Ciò che oggi chiamiamo, e percepiamo, come solitudine è unito in maniera indissolubile alla teoria filosofica dei moderni. In un filosofo in particolare, la solitudine assume ugualmente i connotati di pratica e teoria.
Ovviamente in questa sede la solitudine dei nostri giorni è trattata come un assunto del quale ricercare le cause, non come un’ipotesi ancora da dimostrare: superfluo, qui, approfondire la sublimazione che tale solitudine ha avuto per esempio con l’avvento dei social network, i quali nella dicotomia tra essere e apparire amplificano il secondo termine, o con la globalizzazione, la massificazione della cultura; superfluo, ancora, sviluppare il distacco della logica dei diritti individuali dal ferace concetto di comunità pre-moderna, oppure il superamento della dépense del sé come epico stile di vita e di morte verso un atteggiamento conservativo della vita stessa, in quanto bene primario che consente l’accesso a tutti gli altri beni di cui un individuo può/deve godere – diremmo oggi «soddisfare i bisogni». Fatta la dovuta precisazione, la domanda da porsi è: in quale punto della modernità è possibile rintracciare un collegamento diretto a questa solitudine, la quale deve rispettare i canoni di essere sia teorica che pratica? La risposta completa sembra fornirla Cartesio. Il solipsismo a cui il filosofo approda nel XVII secolo è una teoria senza via di uscita e risulta essere così stupefacente da caratterizzare tutto il dibattito postumo, fino ai giorni nostri.
Volendo disambiguare, in Cartesio tutto comincia dal concetto di verità, ovvero ciò che rispetta un principio di evidenza tanto nel criterio quanto nella verifica. Una volta appurato che una cosa è evidente, diventa anche reale, cioè ha statuto di esistente. Ma delineare la verità non è sufficiente per trovare una cosa effettivamente evidente. In questa ricerca, la filosofia cartesiana procede come un matematico che voglia attuare una dimostrazione per assurdo e tuttavia non riesca più a liberarsi dalle negazioni metodologiche postulate in precedenza. Per prima cosa dovete distruggere tutto ciò che vi ha ingannato, anche fosse una volta nella vita. La potenza del messaggio scettico del filosofo è così forte da giungere al dubbio iperbolico. Non potete concedere l’assenso più a niente, i sensi ingannano, con essi anche la realtà circostante e l’educazione ricevuta. Tutti i vostri ricordi, persino il vostro stesso corpo, potrebbero essere un infingimento. Ma, in fondo al gorgo di tenebra, la ricognizione cartesiana riesce ad approdare a una certezza indubitabile, unica nel suo genere. Si tratta di un “io” pensante, un cogitare individuale, nient’altro che l’atto di prendere coscienza di star pensando: «è il pensiero quel che cercavo, ché questo solo non può essere separato da m » (Meditationes de Prima Philosophia).
Tuttavia, proprio quando si è dimostrata l’evidenza del proprio esistere, si giunge al vicolo cieco del solipsismo. Il solipsismo – solus ipse – arriva dal momento che tale grado di verità-evidenza-realtà non è trasferibile, con il medesimo rigore della dimostrazione matematica, da se stessi all’esistenza del pensare altrui. Gli altri potrebbero essere automi ben congeniati, macchine senza pensiero. La presenza di una mente altra, e diversa dal soggetto, è affidata allora unicamente a Dio, il non ingannatore per eccellenza. Il problema è che questo passaggio è foriero di non pochi cortocircuiti in Descartes, additato di ricalcare il circolo vizioso anselmiano riguardo l’esistenza della Divinità. Il risultato è una fabula, la quale ha in nuce il seme della post-modernità: il mondo reale potrebbe rivelarsi una distopia, non esistere fuori dalla vostra mente. Cosa è reale? Cosa non lo è?
Il solipsismo teorico caratterizza a tal punto Cartesio da possedere anche una forte dimensione pratica. In poche parole, già per lo stesso filosofo, il solipsismo sfociò in una solitudine inarrestabile: esiste un intreccio tra la vita e il pensiero, tra il solipsismo e la solitudine. Non si avrebbe avuto il pensiero se non si fosse patita un’anacoresi e, mutuamente, non si sarebbe giunti a un definitivo isolamento se non ci fosse stata una teoria solipsistica alla base. Sussiste un onnipresente fil rouge che unisce le esperienze vissute in prima persona da Descartes con la sua filosofia. Questo legame risulta inestricabile:
1) Il letto e la meditazione.
Cartesio trascorse nove anni nel collegio dei Gesuiti di La Flèche. Si tratta di una buona parte dell’infanzia e della gioventù. A causa di una malattia ritenuta incurabile, al contrario degli altri pensionnaires che si svegliano all’alba per studiare e pregare, egli rimane a letto fino al termine della mattina, da solo. La terapia a cui si deve sottoporre è un riposo allettato, la finestra semiaperta per il ricambio dell’aria, di tanto in tanto anche un salasso. Immaginatelo in quel letto di collegio, egro e con il volto cereo: cos’è reale? Il sogno della notte appena trascorsa? Ciò che ha studiato in un libro poco prima che il dormiveglia lo riprendesse? Oppure le voci senza volto dei suoi compagni che provengono dal cortile, fuori dalla finestra? I piani della realtà si mescolano nella solitudine della camera del collegio. Il desiderio di discernere la veglia dal sonno è l’incredibile metafora che sta alla base di tutto il proposito scientifico-filosofico di Descartes di distinguere il vero dal verosimile – quest’ultimo non inteso nel senso di falsità, bensì come qualcosa simile al vero e quindi è inganno massimo.
Inoltre, proprio la condizione di malato solitario ha instillato in quel ragazzo un quesito fondamentale: io sono davvero questo corpo gracile o c’è dell’altro, da ritenersi più sicuro dei sensi? C’è da pensare tuttavia che la Ratio Studiorum dei Gesuiti puntasse a risolvere tutti i residui di anomia all’interno del collegio. I padri devono pur aver proposto una soluzione ai dubbi del giovane Cartesio e questa deve averlo affascinato non poco. Si tratta della pratica degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola dai quali Descartes deve poi aver preso le basi per la sua personale abitudine alla meditazione. Gli esercizi spirituali prevedono uno svuotamento totale prima di ricostruire una nuova esistenza. Cartesio non abbandonerà mai il metodo della meditazione e con essa la sua condicio sine qua non: la solitudine, sdraiato nel letto fino a tarda mattina.
2) Il viaggio scettico.
Terminato il collegio, nonostante la malattia infantile ancora non l’abbia abbandonato, Descartes decide di partire da solo – eccetto che per la compagnia di un valet – con l’intento di arruolarsi. Così facendo seguirà la scia della guerra di religione tra cattolici e riformati in giro per l’Europa. Il viaggio assume connotati quasi romanzeschi, l’anabasi si trasforma presto in catabasi: una discesa dantesca negli Inferi della sua epoca, l’incontro con personalità solitarie e esoteriche, fugge dalla realtà grazie al perenne inverno della piccola glaciazione. Come ci suggerisce il biografo Adrien Baillet, il filosofo considererà se stesso uno «spettatore» di eventi (Vie di monsieur Descartes, 2 voll.), rimarcando il metodo solitario e distaccato di approccio al reale. Il lungo viaggio che intraprende diventa un vero e proprio modus operandi euristico: diventa l’essenza del procedimento scettico che lo porta a dubitare di ogni cosa incontrata sul suo percorso. Il dispositivo intrinseco a questo scetticismo, che lo allontana da tutto e da tutti, è ancora una volta la solitudine. Non per niente, i maggiori momenti filosofici di Cartesio sono riconducibili alle situazioni in cui si è trovato da solo. Ne è un esempio l’esperienza avuta nella “stufa”, un alloggio riscaldato alla maniera tedesca. Proprio grazie a questa anacoresi, Descartes scorge i fondamenti di una nuova conoscenza mirabile la quale sarà compendiata nei tre sogni di carattere divino che avrà in seguito alla meditazione in quella poêle. Immaginatelo di nuovo, in quel santuario riscaldato in mezzo a un deserto di ghiaccio, scorgere per la prima volta Dio, la geometria analitica e la certezza della propria ragione.
3) La macchina.
La sintesi di questo intreccio vita-pensiero – solitudine-solipsismo – in Descartes arriva con l’esilio volontario del filosofo in terra olandese. Qui sarà immediatamente chiaro come i costanti richiami al suo «ermitage» (Belgioioso, Tutte le Lettere), riferendosi ai paesaggi campestri e cittadini dei Paesi Bassi, siano collegati alla solitudine. Anzi, la ricerca di questa diventerà un’ossessione: arriverà a cambiare nome, avrà una figlia di cui si fingerà sempre lo zio, si trasferirà più volte da una cittadina all’altra per non farsi rintracciare. Un’altra ossessione sarà la ricerca medica perpetrata nel vano tentativo di fuggire dalla morte. Ogni azione di Cartesio volta all’autarchia porterà alla costruzione definitiva della nuova filosofia moderna in opposizione alla vecchia Scolastica. Il maggiore risultato del suo pensiero sarà la costruzione di un mondo fisico, funzionante sul modello di una macchina dagli ingranaggi perfetti, dai quali è impossibile fuggire. Un mondo fatto di materia e di geometria dove non esiste l’errore. È possibile immaginare questo mondo-macchina? La solitudine si fa soluzione della macchina stessa, l’unica possibile, quando ci si accorge ben presto dell’impossibilità di far uscire se stessi fuori dai vincoli deterministi creati. Allo stesso tempo, all’interno del meccanismo non può entrare l’esistenza di un altro individuo, il quale sembra ridursi definitivamente a un automa, a mera res extensa. La potenza del parossismo è espressa efficacemente da Jeanne Hearsch: «Cartesio non può comunicare i suoi risultati» (L’étonnement philosophique. Une histoire de la philosophie). La filosofia di Descartes getta definitivamente le basi per la distopia futura: la propria esistenza diventa una macchina mono-mentale, all’interno della cui realtà si è soli.
Sembra incredibile come la solitudine post-moderna affondi le sue radici nel solipsismo di Cartesio. Oggi, la più grande sfida filosofica poggia sui quesiti generati da quel principio teorico. Il body-mind problem, il dibattito sull’Artificial Intelligence e sulla struttura di una mente computazionale, i robot e la loro ragion d’essere, le stesse neuroscienze, le scienze cognitive, si fondano tutte sulle aporie cartesiane: come può, qualcosa di immateriale come la mente, entrare in relazione e addirittura “guidare” la sostanza materiale di un corpo? Ancora: come posso entrare in relazione con la mente dell’altro? Se questo ci sorprende, appare ancora più incredibile come la solitudine, che percepiamo essere nostra, sia riconducibile alle esperienze vissute da un singolo uomo, là, agli albori della modernità. Allora, un antidoto alla solitudine post-moderna può essere il tentativo di recidere i legami, di netto o reinterpretandoli, con la filosofia cartesiana.
9 ottobre 2019