L’asimmetria della distribuzione delle ricchezze è una realtà tanto universalmente nota, quanto riconosciuta: ma come può verificarsi in un mondo che possiede risorse in abbondanza per chiunque? Ecco come l’estrazione parassitaria di valore sottrae e reindirizza la ricchezza della collettività.
di Antonio Andretta
1. Introduzione al concetto di valore
Una delle manifestazioni più importanti della relazione e collaborazione fra singoli e gruppi umani è l’“economia”, definibile come sistema di interazioni volto alla gestione di risorse limitate (per quantità o allocazione) al fine della soddisfazione ottimale di bisogni individuali o collettivi.
Gli oggetti di tali interazioni sono, dunque, beni (di qualsiasi genere) di cui un soggetto (al quale, in merito, si può attribuire l’aggettivo “economico”) dispone e che un altro soggetto economico necessita. Il rapporto che si configura fra i due soggetti economici assume la connotazione di uno scambio: il primo cederà al secondo un bene in suo possesso di cui quest’ultimo ha bisogno, qualora egli possegga un altro bene da poter cedere per soddisfare un’esigenza del primo.
Il termine di paragone che consente di equiparare due beni differenti in un simile rapporto di scambio è il loro “valore”: un’interazione di questo tipo avviene solo se i due soggetti economici attribuiscono, in misura uguale, un valore maggiore al bene ricevuto rispetto a quello ceduto, riconoscendo, in definitiva, l’equivalenza del valore dei beni coinvolti. Emerge chiaramente, quindi, come il concetto di valore sia fondamentale nella regolazione dei rapporti economici e, al contempo, come lo stesso risulti di difficile definizione e, ancor più, misurazione, essendo indissolubilmente legato alle necessità individuali.
2. Il concetto di valore nella storia del pensiero economico
Tale problematica si evince chiaramente dal succedersi, nella storia della disciplina, delle più svariate concezioni e teorie di come il valore approdi in seno al sistema economico, avendo ciascuna la pretesa di esplicitarne l’essenza ontologica. Tutti i tentativi, tuttavia, sembrano, e, a posteriori, sono, profondamente influenzati dal momento storico in cui sono stati formulati. In ordine cronologico si succedettero: i “fisiocratici” che ritenevano la terra esclusiva produttrice di valore, in quanto intrinseco motore di ogni attività umana, compresa quella di produzione e di scambio; a essi seguirono i “mercantilisti” che, quanto mai figli del loro tempo, consideravano l’oro come unità di misura del valore, e suo unico custode, elevando il commercio (precisamente l’attività di esportazione) a principale sua fonte di accaparramento; si distinsero, poi, i cosiddetti “Classici”, i cui esponenti principali furono Adam Smith e David Ricardo, che a malincuore mi trovo costretto semplicisticamente a liquidare come coloro che, esperenti la Rivoluzione Industriale, elaborarono la teoria del valore-lavoro, arrivando per primi (e unici) a proporre un metodo di quantificazione tanto intuitivo quanto difficilmente discutibile: un bene vale tanto quanto l’ammontare di ore lavorative necessarie per produrlo. Concetto, questo, ripreso, potenziato ed esaltato in una prospettiva di dialettica fra classi sociali, da Karl Marx.
L’evoluzione successiva, ancora oggi attuale, si ebbe con l’elaborazione della teoria cosiddetta “Neoclassica”. Contrariamente ai tentativi precedenti, i quali, una volta individuato e stabilito un concetto determinante la natura del valore di un bene, procedevano alla sua quantificazione e misurazione, i Neoclassici alzarono bandiera bianca in merito alla sua comprensione etica: adottarono utilitaristicamente l’opinabile assunto che sia il prezzo di mercato di un bene a determinarne il valore. In altre parole: un bene ha valore se trova un acquirente, e tale valore corrisponde al prezzo (qualsiasi esso sia) che l’acquirente è disposto (o costretto) a pagare. Tradotto secondo i termini delle categorie di Spinoza sarebbe, dunque, come avere dati “attributi” (i prezzi), senza però la “sostanza” (il valore). Quest’affermazione trascina inevitabilmente con sé degli importanti corollari. La produzione di valore viene estesa, così, a tutte le attività che hanno un prezzo nel mercato (legale). Il prezzo di un bene (e di conseguenza il suo valore) è regolato esclusivamente dal rapporto fra domanda e offerta, risultando, perciò determinato dalla sua scarsità e dalle preferenze di milioni di soggetti economici inconsapevolmente suscettibili di svariate e forti influenze: un bene vale nella misura in cui è scarso e/o desiderabile. Diventano, dunque, quanto mai prima, centrali, nella teoria Neoclassica, i concetti di “utilità marginale”, ossia il godimento che l’acquirente ricava dal consumo di un’unità in più del bene consumato, e di “produttività marginale”, ossia l’incremento di produzione associato all’impiego un’unità in più di fattore produttivo. L’impiego di quest’eventuale unità produttiva ulteriore è valutato in base alle tendenze espresse dai consumatori, e, dunque, in base all’utilità marginale del bene considerato, al fine di attribuirgli il prezzo, e dunque il valore, più alto possibile. La centralità di queste nozioni ha ridefinito la nuova concezione Neoclassica come “rivoluzione marginalista”. Tali concetti, insieme a tutte le altre relazioni che intervengono nel sistema macroeconomico, sono stati formalizzati in termini di funzioni matematiche dall’economista francese Leon Walras in un sistema di equazioni che si è dimostrato avere un (a dire il vero, svariati) punto di equilibrio, che rende così possibile stabilire il prezzo di mercato di qualsiasi bene di consumo e la remunerazione di ogni fattore produttivo (salari di equilibrio e tasso di profitto dell’investimento di equilibrio) in modo che tutti i singoli attori economici ne ricavino il (matematicamente) giusto compenso, in base al loro ruolo nel sistema (ossia all’equazione che rappresenta la loro attività). Forti di quest’elegante formalizzazione matematica, i Neoclassici arrivarono a ripudiare qualsiasi intervento esterno ed estraneo a un sistema economico che si autoregolava nella maniera migliore possibile per tutti. Diversi sono, però, i fattori che portano gli equilibri, per quanto matematicamente coerenti, in una posizione discutibile e stridente: l’interazione fra i singoli soggetti economici sembra, infatti, assumere, più che una connotazione fisico-meccanicistica, quella di un’imprevedibile reazione chimica, motivo per cui la sola matematica non è sufficiente a rappresentarne, e, tantomeno a regolarne, i rapporti.
3. Il concetto di rendita e alcune sue manifestazioni
Questi fattori deterioranti il “sano equilibrio” possono essere sintetizzati soprattutto nel concetto di “rendita”, definibile, in ottica Classica, come reddito non guadagnato, che si manifesta come profitto tratto, più che dall’effettiva produzione di valore, dall’“estrazione” di valore (in realtà insussistente e fittizio) a partire da beni preesistenti. La nozione di rendita attenua inevitabilmente la sua valenza in ottica marginalista, nella quale ogni attività retribuita è considerata, proprio perché retribuita, apportatrice di valore al sistema economico, con deleterie conseguenze: in virtù di ciò trovo provocante ma espressiva la definizione della teoria Neoclassica come quella del non valore.
Il fenomeno dell’estrazione di valore si rende palese soprattutto in tre ambiti: in quello della speculazione finanziaria, nel settore tecnologico-informatico e in quello farmaceutico. Sinteticamente. Nel primo caso l’estrazione avviene mediante l’oscillazione del prezzo delle azioni (titoli rappresentanti quote della proprietà di aziende), dovuta principalmente a meccanismi psicologici di massa, che consentono agli avveduti finanzieri di guadagnare enormi somme di denaro mediante la loro compravendita, senza, però, che l’attività reale che esse rappresentano cambi la sua effettiva entità: il guadagno, quindi, non corrisponde a un reale apporto di valore per il sistema nel suo complesso. Nel secondo e terzo caso l’estrazione avviene attraverso una forma di monopolio, il brevetto. Esso è un titolo giuridico in forza del quale al titolare viene conferito un diritto esclusivo di sfruttamento di un’invenzione (per un dato periodo di tempo) e che consente di impedire ad altri di utilizzare l'invenzione senza opportuna licenza. I settori tecnologico-informatico e farmaceutico sfruttano la ricerca scientifica di base promossa dallo Stato (fonte primaria del valore che essi producono ma che viene loro offerta senza costo alcuno) indebitamente e avidamente tramite questo meccanismo: la garantita esclusività della loro produzione e la scarsità e desiderabilità dei loro prodotti consentono loro di piazzarli sul mercato a un prezzo completamente arbitrario, senza rischio di trovarsi in carenza di domanda.
[Si consiglia la lettura del saggio Il valore di tutto: Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale di Mariana Mazzucato per ottenere una piena comprensione dei concetti trattati in precedenza. A esso, infatti, mi sono ispirato per la loro sintetica esposizione, che ho giudicato interessante nonché necessaria al fine di un più facile intendimento di quanto segue.]
4. La reale ampiezza del fenomeno della rendita ai giorni nostri
Scopo primario di questo scritto è dimostrare la tesi secondo la quale il fenomeno della rendita si configuri, non come limitato ai tre ambiti sopra citati, ma come estrazione di valore pervasiva e trasversale all’intero sistema economico.
La rendita connessa al fenomeno del “branding”
Uno dei fenomeni più importanti e collettivamente influenti dell’economia moderna è il cosiddetto “branding”, ossia una pratica di marketing mediante cui un’azienda crea un marchio, un nome e un logo facilmente riconoscibili da parte del pubblico dei consumatori, che, in tal modo, la distingue da tutte le altre. Un simile modo di operare, in linea di principio, potrebbe sembrare essere una sana espressione della giusta concorrenza, che premia il merito di un’azienda in grado di identificarsi e mettersi in risalto rispetto alle contendenti. Tuttavia, con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, e, ancor più, dei social network, il branding sembra essere degenerato. Infatti, la pubblicità intensiva e la pratica dello sponsor l’hanno trasformato in un vero e proprio culto del marchio, finalizzato alla scientifica colonizzazione dell’immaginario collettivo. La concomitanza di questi fattori consente, quindi, alle case produttrici di fissare dei prezzi di vendita palesemente e, talvolta, immensamente divergenti rispetto all’effettiva utilità marginale che l’acquirente può trarre dal consumo di tali beni. Né si potrà affermare che lo status symbol che il branding attuato sul marchio attribuisce loro possa ragionevolmente entrare a far parte dei fattori che influenzano l’utilità derivata dall’acquisto dei suddetti beni. In questo modo si esprime la perdita di razionalità nella gerarchia dei consumi, manifestazione in evidente contrasto con il presupposto teorico Neoclassico che il consumatore sia in grado di stabilire razionalmente, appunto, le proprie preferenze. Questo fenomeno si configura, dunque, come una potente estrazione di valore, da collocare sullo stesso piano delle moderne rendite, individuate da Mazzucato. Interessante è, in proposito, notare come negli ultimi decenni l’analisi della psicologia di massa abbia assunto valenza e carattere di una scienza esatta, portando alla ricerca volta alla scoperta dei più reconditi sistemi e, a dire il vero, stratagemmi, per influenzare gli stili di vita e di consumo con il fine di indirizzare ed estremizzare le preferenze dei soggetti economici, giungendo, talvolta, alla reale creazione di nuovi “bisogni” prima non percepiti e, perciò, evidentemente fittizi. Si pensi al fenomeno tipicamente giovanile del cosiddetto “hype”: esso consiste in una corsa all’acquisto di capi d’abbigliamento e accessori marchiati con loghi (il cui prestigio, imposto, viene, dunque, riconosciuto) identificativi dello status al quale aspirare. La loro architettata disponibilità in quantità assai limitate concorre all’esponenziale innalzamento del loro prezzo di mercato, che si colloca su livelli incomparabilmente superiori rispetto a quello di prodotti analoghi estranei al fenomeno sopra descritto.
La rendita connessa ai rapporti di forza distributivi
La rendita connessa al branding va molto spesso di pari passo con l’estensione globale dei mezzi d’influenza della psicologia collettiva: quanto più territorialmente vasto sarà il culto del marchio, tanto più redditizia sarà l’estrazione di valore a esso connessa. Pertanto, si rivela conveniente, da parte delle aziende multinazionali proprietarie dei marchi in questione, estendere l’opera di colonizzazione dell’immaginario a una platea indefinitamente ampia di potenziali consumatori. La proprietà di un marchio di suddetta forza, tale da imporre preferenze e, quindi, prezzi, consente alle aziende proprietarie, di squilibrare a proprio favore anche i meccanismi della distribuzione, aprendo il varco a una nuova possibilità di estrarre valore, possibilmente ancor più remunerativa.
Per l’esplicazione di questo fatto si prenda ad esempio il mercato mondiale della birra. Si tratta, infatti, notoriamente, di uno dei mercati più concentrati al mondo: la quasi totalità dei marchi (centinaia) è di proprietà di un numero di colossi multinazionali che si possono contare sulle dita di una mano. Secondo il sito “quifinanza.it”, nel mondo, il 65% del volume del mercato della birra è controllato da soli cinque grandi gruppi; in Italia, per rendere l’idea della portata del fenomeno, al giorno d’oggi, resistono in mano italiana, solo quattro brand industriali: Forst, a sua volta proprietaria di Menabrea, e Birra Castello, cui fa riferimento Pedavena. Questa concentrazione, corroborata dal mito del marchio, ha capovolto i rapporti di distribuzione e pesantemente condizionato la libera concorrenza. Di norma, i venditori di un’azienda produttrice cercano, a colpi di ribasso di prezzo (sana concorrenza), di accaparrarsi un posto fra gli scaffali dei supermercati, dovendo, talora, pagare anche una tariffa proporzionale allo spazio riservato all’esposizione dei suoi prodotti al pubblico. La nuova situazione, invece, consente ai rappresentanti delle suddette aziende multinazionali di imporre prodotti e prezzi, secondo questo meccanismo. Dal momento che esse sono proprietarie anche di marchi imprescindibili per i consumatori, poiché entrati a far parte del loro immaginario tramite i meccanismi del branding sopra esposti, i venditori delle stesse possono inserire nel pacchetto offerto (cui i distributori non possono rinunciare, date, appunto, alcune sue componenti) anche altri marchi di loro proprietà, stabilendo le condizioni di distribuzione: prezzo e collocazione nel punto vendita. Questa la ragione per la quale è possibile vedere spuntare simultaneamente, nei più diversi distributori, “nuove” etichette e, spesso, a un prezzo non competitivo, ossia, pressoché pari a quello di quei brand affermati e ormai irrinunciabili.
Evidentemente quest’oligopolio della produzione consente l’esponenziale aumento della rendita percepita sul marchio dai grandi gruppi, annullando la presunta capacità allocativa dei mercati perfetti e, di fatto, appiattendo enormemente la possibilità di autentica esplicazione delle preferenze degli acquirenti e, di conseguenza, sopprimendo la naturale determinazione del prezzo di mercato come rapporto fra domanda e offerta in un regime di concorrenza trasparente.
Diseconomia da oligopolio
La possibilità di attuazione di questo genere di fruttuose pratiche ha condotto il sistema di produzione a configurarsi come quello che oggi può definirsi un oligopolio da parte di gruppi multinazionali, suddiviso per settori. Ciò permette di ridurre enormemente la competitività all’interno del proprio settore e, dunque, di ottenere quella che è, a tutti gli effetti, una forma di monopolio reale sui fattori distributivi e psicologico sulle preferenze del pubblico. La creazione di questo tipo di soggetti economici onnicomprensivi ha, però, influito direttamente sulle singole realtà di produzione, nella forma di un incremento enorme della burocratizzazione negli impianti. Infatti, se per gestire un birrificio industriale autonomo, è richiesta una certa quantità di personale amministrativo, nel momento in cui esso entra a fare parte di un’immensa organizzazione internazionale, l’attività del birrificio andrà regolata anche in funzione delle altre realtà produttive che compongono il gruppo, e controllata in modo che essa rispetti le nuove politiche aziendali di un’amministrazione che ha il più delle volte sede in un altro Paese (fattore che indurrà, a sua volta, la necessità di altro personale con funzioni interpretative e di mediazione). Questo fattore, più che come rendita, sembra configurarsi come vera e propria sottrazione di valore (o diseconomia) al sistema economico. Infatti, come già visto, i meccanismi del branding e del monopolio della distribuzione, consentono, a parità di produzione, un aumento enorme del profitto, che è pura estrazione di valore. A questo si aggiunge un incremento della forza lavoro necessaria alla sopravvivenza e gestione dell’impianto, diminuendone così l’effettiva efficienza: sempre a parità di produzione è richiesto più personale lavorativo. L’aumento del guadagno, che, in ottica neoclassica si traduce in un consistente apporto di valore all’economia, è doppiamente bugiardo: da un lato perché frutto di estrazione invece che produzione di valore, dall’altro perché associato a un aumento delle risorse richieste non corrisposto in un aumento della produzione, ma, anzi in una diminuzione della produttività, poiché tale forza lavoro in più è impiegata in funzioni di fatto improduttive. In tal senso la creazione di gruppi multinazionali, in regime di oligopolio, è associata a una sottrazione del potenziale del sistema economico.
8 ottobre 2019