« Se la giustizia ha un significato, se è altra cosa rispetto all'abitudine sociale, è il nome di questa forza che ci trattiene, davanti a noi stessi. » (F. Gros, Disobbedire)
Esercizi spirituali, riflessione, prendersi cura di sé. Non c’è niente di più attrattivo e sulla bocca di tutti di simile lavoro introspettivo, di questi tempi. La cura al “mondo moderno”, alla quotidianità frenetica di un sistema iniquo, alla fatica delle difficoltà sociali, risiederebbe − secondo la vulgata − in questa riappropriazione di sé, nel senso di un distacco dal mondo, di una tranquilla padronanza delle proprie emozioni e di quella piccola porzione di reale che ci tocca per forza di cose affrontare, lasciando correre ciò che non va e mostrandosi indifferenti nei confronti di qualcosa di eccessivamente doloroso. Niente di più ingiusto e scellerato di questo pensiero. Niente di più antitetico alla filosofia. Si volta lo sguardo e si definisce questo gesto dappoco “riprendersi la propria vita”.
C’è, di base, un grosso equivoco su cosa sia lo “spirituale”, la propria intimità. Un aiuto a vederci più chiaro lo dà Frédéric Gros, nel suo Disobbedire. Qui si lancia in una disamina delle varie figure − dei vari gradi − della disobbedienza, avanzando diverse ipotesi per pervenire infine alla conclusione opposta a quella comune sopra esposta: l’io − l’indelegabile, lo chiama lui − è il politico. Ciò di quanto più intimamente nostro è, per forza di cose, sempre per altri. Quanto più siamo noi stessi, cioè quanto più abbiamo padronanza di ciò che siamo, tanto più siamo al servizio di altri, perché fortemente coscienti dell’universale, del nostro essere indispensabili al mondo in vista della sua emancipazione.
Gros comincia quest’analisi sulla scorta della passeggiata di Thoreau. Ci racconta come, un giorno, il pensatore americano, recatosi in città per delle commissioni, abbia incontrato un responsabile del fisco che si preoccupò immediatamente di chiedere allo scapestrato dei soldi per alcune tasse arretrate. Sapeva che un rifiuto sarebbe valso il carcere, ma accettò la pena. Qualcuno, per fortuna, trattandosi peraltro di una cifra irrisoria, decise di pagare per lui e fu liberato − ma il punto della storia è un altro. Perché aveva rifiutato? Non per semplice irrisione dell’autorità, né per una bravata. Sapeva che pagare le tasse allo Stato americano, in quel frangente, avrebbe significato finanziare la guerra ingiusta contro il Messico − che gli USA si apprestavano, come da consueta prassi, a intraprendere. Noto per la sua introspezione, Thoreau non si era reso insensibile, indifferente, indipendente (se mai queste parole possano avere un senso) alla realtà, ma, al contrario, si “serviva” della riflessione per mettere a fuoco quella medesima realtà materiale e rituffarvici dentro senza esitazioni. Ed ecco qui emergere il vero senso dell’esercizio spirituale: scoprire la verità delle cose, la loro connessione, la nostra relazione con gli altri e il nostro dovere verso ciò che ci circonda. Lo scopo della meditazione è far dire a noi stessi quello che ripete Thoreau tra sé: «se io non sono io, chi lo sarà al mio posto?»
Ecco cos’è l’indelegabile di cui parla Gros: nient’altro che sentirsi responsabili di ciò che si è capito, dell’ingiustizia scorta, e far sì che, a partire da questo, vi sia un risveglio politico di coloro che ci circondano. La finalità del momento di riflessione, di isolamento, di studio è la messa in discussione della nostra opinione sul senso delle cose, sulle convinzioni errate che avevamo, sui nostri errori − per disobbedire anzitutto a noi stessi, a ciò che eravamo. Per raggiungere un’epifania che cambi prima noi e poi il mondo intero. Ma non è possibile fermarsi al primo passaggio, e ignorare la parte in cui si deve cambiare il mondo:
« Si deve disobbedire a partire da questo punto in cui ci si scopre insostituibili nel senso di questa precisa esperienza di ciò che è indelegabile, del fatto che “spetta a me farlo”, che non posso affidare a nessun altro il compito di dover pensare il vero, decidere il giusto, disobbedire a ciò che mi sembra intollerabile.
Questo soggetto indelegabile non incorre mai nelle minacce dell’individualismo, del relativismo o del soggettivismo. Perché questo punto di indelegabilità in me è proprio il principio di umanità, l’esigenza di un universale. Perché ci si scopre insostituibili inizialmente ed essenzialmente per mettersi al servizio degli altri. Siamo lontanissimi dal ripiego soddisfatto su di sé, dal narcisismo consumatore di soddisfazioni egoistiche, o dalla “salvezza”, chiusi nel proprio orticello privato, nel proprio giardino segreto. Scoprire in sé l’indelegabile è sentirsi chiamati ad agire per gli altri, a far esistere questa giustizia di cui si avverte l’urgenza. Il contrario politico del conformismo non è l’Io unico, singolare, che chiede finalmente di essere se stesso: è l’io indelegabile che esige dignità universale. » (F. Gros, Disobbedire)
Non si sopporta un’ingiustizia, se la si sa tale. La si scorge perpetuarsi nel tempo e nei luoghi, sulle spalle delle persone che si incontrano e di cui si comprende benissimo la sofferenza. Diviene inaccettabile, e tutto deve cambiare.
Nel segreto di questa fatica giace l’inizio della disobbedienza all’ordine costituito e risplende nel suo senso più profondo la funzione della filosofia. La filosofia cura la malattia dell’anima rendendoci sopportabile la compagnia di noi stessi e garantendoci il servigio più clamoroso auspicabile: la comprensione di quale sia il nostro posto nel mondo, il nostro compito più immediato, legandoci coscientemente al destino dell’umanità. Pertanto, coloro che vedessero nel lavorio su se stessi nient’altro che una fuga dalle sorti degli altri si sarebbero, paradossalmente, allontanati dal proprio sé. Si sarebbero isteriliti su qualche posizione, chiudendo gli occhi a quanto di più profondo e denso riserva la vita. Infischiarsene pensando al proprio orticello e definendo questa operazione “cura di sé” o farlo dichiarando apertamente di non essere interessati alle sorti del mondo è la stessa cosa. Studiare filosofia per rintanarsi nei propri affari è ricoprire l’assoluto nulla di qualche orpello erudito.
La differenza fra chi si appropria di sé e chi racconta di prendersi cura di sé è palpabile. Risiede propriamente nel divenire coscienti dell’impossibilità di essere indifferenti.
« Un bambino fragile, un vicino impoverito, uno sconosciuto in lacrime. Questi incontri mi obbligano. Mi ritrovo prigioniero della sofferenza altrui. Infagottato nelle mie comodità e nelle mie rassicurazioni, pietrificato nelle mie proprietà, solido, consistente, mi sento improvvisamente afferrato, strappato a me stesso dall’infelicità dell’altro.
L’altro nel suo muto sconforto, l’altro nella sua fragilità tremante, l’altro deprivato, disarmato, è lui che mi comanda. Mi chiama, mi convoca.
È l’idea che noi siamo solidali contro le ingiustizie del mondo. Solidali nel senso che non è possibile, a un certo livello, fare come se non ci riguardassero. C’è sempre qualche capo del filo al quale siamo legati e dove si decide qualcosa del significato e del destino dell’umanità alla quale apparteniamo.
Io divento un soggetto per e a me stesso avvertendo sulle spalle questo peso, il peso delle mie colpe, il peso del significato, il peso dell’altro e del mondo. » (ivi)
Certo, si dirà, è molto bello, ma cambiare sistema è più difficile di raccontarci queste cose, e nella ricetta di Gros e Thoreau non v’è nulla che dica empiricamente a che cosa disobbedire. Non c’è una teoria dello Stato, della società, dell’economia. Senz’altro. È da ricercare altrove. Tuttavia, si tratta di un’analisi che vuole richiamarci all’urgenza del compito di disobbedire, perché oggi ne abbiamo tremendamente bisogno. C’è bisogno di una riappropriazione del politico, lasciato a dei tecnici pregni di un’ideologia che non sa o finge di non essere tale, mentre le masse, sempre più alienate, non decidono nulla. C’è bisogno di un’alternativa alla società capitalista, che sta distruggendo tutto. Questa è l’estrema urgenza su cui vuole farci riflettere l’autore. Perciò, accogliendo il suo consiglio, ricordiamo l’ultima provocazione del filosofo francese:
« È il cuore delle rivoluzioni, quando ciascuno rifiuta di lasciare a un altro la facoltà di chiamarsi fuori per restaurare una giustizia, quando ciascuno si scopre insostituibile nel mettersi al servizio dell’umanità intera, quando ciascuno sperimenta l’impossibilità di delegare ad altri la cura del mondo. » (ivi)
7 ottobre 2019
DELLA STESSA AUTRICE
Il capitalismo e la cultura burocratica
Perché il carcere non funziona. Da uno scritto di Petr Kropotkin
SULLO STESSO TEMA
F. Pietrobelli, Il materialismo storico e la necessità del concreto
G. Zuppa, La proprietà privata, dogma funesto del capitalismo