Vale ancora la pena dedicarsi seriamente alla filosofia perché è l'attività che insegna a porre le domande "giuste", quelle che ci permettono di capire il mondo. Attualmente, però, i diversi stili del domandare sembrano contrapporsi, con qualche interessante eccezione.
Una volta Oscar Wilde ha scritto che a dare risposte son capaci tutti, mentre è per porre le vere domande che ci vuole un genio. Ma si può imparare ad essere un genio? Verrebbe da rispondere di no, poiché la genialità è quasi un talento naturale o una dote eccezionale del singolo individuo. Eppure, se ci pensiamo, c’è una sorta di “genialità” che appartiene quasi nativamente alla nostra intelligenza (indipendentemente dal fatto di essere poi dei “geni”). È quello di cui parla Cartesio all’inizio del Discorso sul metodo (1637): la cosa meglio distribuita al mondo, quella «naturalmente uguale in tutti gli uomini» è il buon senso o ragione, vale a dire «la capacità di giudicare rettamente, discernendo il vero dal falso»; e la diversità delle nostre opinioni non deriva dal fatto che alcuni possiedano una quantità maggiore di intelligenza rispetto ad altri, ma dal fatto che seguiamo strade diverse e non prendiamo in considerazione le stesse cose. Per questo, come avverte in maniera fulminante Cartesio, «non basta avere un buon ingegno: l’essenziale è applicarlo bene». E questo sì che lo si può imparare, nel senso che si può – e si deve anche, se non si vuol rinunciare al proprio ingegno – imparare a riconoscere la via attraverso cui esercitarlo, ossia il “metodo” richiesto per raggiungere la verità (ed evitare la falsità). Per questo non è contraddittorio dire che geni si nasce nella misura in cui lo si diventa.
Forse è a questo livello che si può tentare di rispondere alla domanda se valga (ancora!) la pena studiare filosofia. Le soluzioni tradizionali di tale quesito (soprattutto in riferimento alla collocazione della disciplina “filosofia” nei curricula scolastici) consistevano prevalentemente nel rivendicare due tipi di funzione a questo insegnamento: una funzione per così dire “architettonica”, secondo la quale la filosofia avrebbe il compito di connettere in un quadro unitario i diversi campi del sapere prospettando l’obiettivo cui tutte le conoscenze tendono; e una funzione “critica”, grazie alla quale gli studenti possano esercitare una riflessione e una valutazione del loro stesso sapere e delle motivazioni delle loro azioni. La prima funzione è oggi probabilmente molto più indebolita rispetto alla tradizione storicistica italiana, quella che aveva trovato un’espressione paradigmatica nella riforma Gentile della scuola. Una tradizione nella quale tuttavia rientravano, se pure in modi e con prospettive molto diverse, anche altre tendenze, come quelle dello storicismo crociano o della filosofia gramsciana della prassi, del neo-illuminismo laico o dell’ermeneutica di tradizione religiosa.
È certamente la seconda funzione quella che oggi resiste meglio e viene continuamente rilanciata. E tuttavia, se da un lato la formazione di una mentalità critica costituisce un programma condiviso e conclamato, dall’altro esso rischia sempre di dare per scontato il suo obiettivo, cioè quello di fornire un metodo per il buon uso della nostra intelligenza, o meglio ancora, quello di fornire le condizioni per poterlo trovare. Per questo mi pare che la cosa più utile possa essere proprio il non considerare come cosa ovvia la dinamica della nostra ragione e quindi la posta in gioco delle nostre conoscenze e delle nostre azioni, finendo per intenderla come il risultato di strategie di apprendimento o di tecniche retoriche.
È possibile individuare una sintassi condivisa della razionalità, cioè un percorso in cui poter esercitare e mettere alla prova le capacità (e le incapacità̀) della nostra intelligenza e del nostro giudizio? Ed è possibile prospettare una semantica o più semantiche della razionalità, vale a dire la scoperta dei possibili significati delle cose, di noi stessi e del mondo, o anche la capacità di dare e riconoscere il “senso” del reale?
È assai diffusa l’idea che uno studio come quello della filosofia fornisca gli strumenti più utili per i procedimenti di “problem solving”, la soluzione dei problemi che si presentano continuamente nei più diversi campi del pensiero e dell’attività umana (dall’economia alla politica, dalla gestione delle risorse umane all’ottimizzazione dei processi socio-politici ecc.), proprio perché insegnerebbe a “ragionare”. Ma forse la leva della competenza filosofica, più che nel saper risolvere problemi (e proprio per poterlo fare), sta nel saper porre le domande giuste. Porre una domanda è davvero il lavoro più impegnativo per la nostra intelligenza, poiché si tratta di capire che cosa c’è al mondo, e che cos’è quello che c’è. Sembra l’attività di un notaio o di un mero registratore, mentre è l’attività di un genio (e naturalmente anche i notai sono chiamati ad esserlo!).
Proprio per imparare a porre le domande vere (cioè quelle che più “rispondono” alle cose), vale ancora la pena avventurarsi nella storia del pensiero, alla scoperta di come questa competenza del domandare sia stata esercitata. Come testimoniano le vicende straordinariamente variegate e differenziate della filosofia, ogniqualvolta la ragione umana mette in questione il reale, interrogandosi sul suo significato e provando a discutere criticamente quello che sembra ovvio o si crede per abitudine, si mette in moto un’esperienza che è realmente un’avventura, in cui per ciascuno possono aprirsi spazi di senso e possibilità inedite. Insomma, studiare filosofia può essere ancora utile – mi pare – perché ci fa capire che la ragione delle cose chiede sempre la nostra ragione per dar prova di sé.
Forse è questa prospettiva interrogativa che può essere individuata come un filo rosso comune attraverso le due principali pratiche o stili di filosofia oggi più diffusi, quello ‘continentale’ (con un forte riferimento alla storia del pensiero) e quello ‘analitico’. Solo che normalmente queste due direzioni costituiscono un’alternativa secca all’interno dei Corsi di laurea universitari, e si può spesso trovare delle ottime sedi continentali o analitiche, in cui l’altra direzione non è tenuta in gran conto.
Una felice eccezione a questa situazione è offerta dalla sede di Lugano. Una particolarità della formazione filosofica luganese – nata dalla felice intuizione e dalla lungimirante attività del Prof. Giovanni Ventimiglia –, difficilmente riscontrabile in altre sedi universitarie, è quella di offrire nella Laurea triennale corsi significativi a livello continentale e analitico. Spesso queste due direzioni di ricerca sono offerte all’interno di una stessa disciplina o di discipline affini, in modo che lo studente triennalista possa sin dall’inizio confrontarsi – su alcuni problemi e determinati autori – con i due approcci e le relative ricadute nell’àmbito della discussione internazionale.
Passando poi al Corso di Laurea magistrale, svolto interamente in lingua inglese, si tratta di un percorso orientato in maniera decisa alla ricerca, che permette di approfondire e personalizzare il proprio curriculum in metafisica, filosofia della scienza e logica, filosofia antica e medievale, filosofia della mente.
A Lugano insegnano personaggi significativi e spesso al centro del dibattito storiografico e teorico internazionale, fra cui Achille Varzi, Pasquale Porro, Kevin Mulligan, Anna Marmodoro, Adriano Fabris, Mario De Caro, Paolo Crivelli, Tim Crane, Francesco Berto. Anche chi scrive porta il suo contributo per quanto riguarda la filosofia moderna e contemporanea.
Per coloro che fossero interessati, c’è ancora qualche giorno per iscriversi sia alla triennale che alla magistrale. È possibile ottenere maggiori informazioni su questa realtà ai seguenti indirizzi: www.isfi.ch (triennale) e www.map.usi.ch (magistrale).
26 agosto 2020
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