Tutti conoscono l’Olocausto e le terribili malvagità a cui furono sottoposti i membri della comunità ebraica a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Pochi invece sanno che esso fu solo la punta di un iceberg.
di Diletta Mantovan
A partire dalla seconda metà del XX secolo, e in particolare durante gli anni della Seconda guerra mondiale, fu attuato, a danno della popolazione ebraica di tutta Europa, uno dei più terrificanti genocidi della storia.
Ricordato col nome di Olocausto (dal greco ὁλόκαυστος, “bruciato interamente”) o, più propriamente, col termine ebraico Shoah (“catastrofe”, “distruzione”), fu organizzato e portato a compimento dalla Germania nazista con l’ausilio dei propri alleati, e conta intorno a 6 milioni di vittime ebraiche: circa due terzi degli ebrei allora presenti in Europa.
Sono numerosissime le testimonianze da parte delle vittime e dei superstiti dell’Olocausto, necessarie a preservare la memoria degli orrori a cui gli ebrei furono sottoposti in quegli anni: molteplici libri di memorie e romanzi furono scritti dai sopravvissuti, tra cui spiccano quelli di Primo Levi (1919-1987), scrittore e partigiano italiano ed ebreo; furono inoltre pubblicati svariati diari, scritti durante il periodo delle persecuzioni, come il celebre Diario di Anna Frank nel 1947.
Alla memoria della Shoah è stato inoltre dedicata una giornata, il 27 gennaio, anniversario della liberazione, da parte dei soldati sovietici, degli ebrei imprigionati nel campo di concentramento di Auschwitz, quello che, tra tutti, ha mietuto più vittime.
Non tutti sanno, tuttavia, che tale genocidio è soltanto la punta di un iceberg.
Non è un caso, infatti, se i nazisti lo denominarono soluzione finale della questione ebraica: se da un lato questo nome venne usato per mimetizzare, per quanto possibile, l’intera operazione agli occhi della popolazione, dall’altro appare evidente il suo utilizzo come tentativo di giustificazione ideologica del genocidio, considerandolo come la necessaria conclusione di un problema che aveva afflitto i governi di tutta Europa da oltre un millennio.
Sebbene il termine “antisemitismo”, con cui vengono indicati la paura e il conseguente odio verso gli ebrei, sia stato coniato dal giornalista tedesco Wilhelm Marr soltanto nel 1879, episodi di ostilità nei loro confronti sono accaduti già durante l’era classica della Grecia e Roma antiche.
Lo studioso Jerome A Chanes identifica sei fasi nello sviluppo dell’antisemitismo: mentre, durante le prime tre, questa ostilità era causata da motivi etnici o religiosi, e quindi non aveva una rilevante importanza, la quarta fase, corrispondente all’Illuminismo e all’Europa post-illuministica era determinata da cause politiche, sociali ed economiche, ed ha posto le basi per l’antisemitismo razziale sorto verso la fine del XIX secolo, che ha ripercussioni anche al giorno d’oggi.
A questo proposito Hannah Arendt, filosofa tedesca naturalizzata statunitense, nella sua opera Le origini del totalitarismo, scrive:
« È chiaro che esso [l’antisemitismo] ha acquistato rilevanza politica solo quando ha potuto combinarsi con uno dei principali problemi dell’epoca, o quando gli interessi di gruppi ebraici sono venuti in aperto conflitto con uno dei principali problemi dell’epoca. »
La “società illuminata” a cui si mirava nel XVIII secolo, infatti, aveva come fulcro l’ideale di uguaglianza sociale; tuttavia l’idea che l’uguaglianza non spetti soltanto ad uomini uguali tra loro, ma a tutti gli individui, anche se diversi, in quanto con la stessa dignità, era difficilmente accettata dal mondo.
Ciò è visibile dal trattamento a cui furono sottoposti gli ebrei: gradualmente i diritti civili vennero estesi anche ad essi, ma continuarono ad essere trattati come estranei, diversi.
Immanuel Kant, ad esempio, come la scrittrice Yvonne Sherratt ci fa notare nel suo libro I filosofi di Hitler, riteneva che:
« Gli ebrei non avevano diritto a un'esistenza indipendente. Il giudaismo era obsoleto. Kant decretò infatti che la pura moralità cercava "l'eutanasia dell'ebraismo".
Perciò, a parte l'eccezione di una piccola minoranza di "ebrei illuminati", il resto non era moralmente, e quindi non politicamente, uguale ai tedeschi: essi dovevano essere esclusi. »
Non molti anni dopo, il pensiero di un altro filosofo tedesco, Joann Gottlieb Fichte, non differiva da quello kantiano. Egli affermava:
« Non vedo assolutamente alcun motivo per cui concedere agli ebrei i diritti civili, tranne forse tagliando loro tutte le loro teste e sostituendole con altre nuove, in cui non ci sia nessuna idea ebraica. »
Nell’aggressiva critica al popolo ebraico inserita da Arthur Schopenhauer in Parerga e Paralipomena, una raccolta di suoi scritti pubblicata nel 1851, si possono ritrovare diversi punti in comune con i filosofi a lui precedenti. Si legge, infatti:
« Giustizia vuole che essi [gli ebrei] godano gli stessi diritti civili degli altri; ma è assurdo conceder loro la partecipazione allo Stato; essi sono e rimangono un popolo straniero, orientale, perciò debbono essere sempre considerati alla stregua di stranieri residenti. »
È proprio questo il motivo principale per cui gli ebrei sono sempre stati vittime dell’ostilità da parte degli Stati in cui vivevano: il popolo ebraico è unito da vincoli più stretti di ogni altra popolazione, nonostante i suoi membri non siano accomunati dall’appartenenza allo stesso territorio. Questa unità, basata sulla volontà di ogni singolo ebreo di riconoscersi nella comunità, ha da sempre reso sospettosi gli Stati ospitanti, che sono stati portati a dubitare della lealtà dei cittadini ebrei, e talvolta ad accusarli di cospirare ai danni della nazione o dell’intera umanità.
Schopenhauer, infatti, ribadisce:
« La patria dell’ebreo sono gli altri ebrei: perciò egli combatte per essi come pro ara et focis, e non vi è comunità sulla terra così salda come la loro. Di qui si vede quanto è assurdo voler concedere la partecipazione al governo o all’amministrazione di uno stato. »
In questo senso, la nazione ebraica è il più lampante esempio della Patria che Giuseppe Mazzini descrive ne I doveri dell’uomo:
« La Patria non è un territorio; il territorio non ne è la base. La Patria è l'idea che sorge su quello; è il pensiero d'amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. »
Appare evidente, pertanto, come uno dei principali motivi per il quale gli ebrei hanno subito tali persecuzioni, ossia il forte legame che esiste tra i membri della comunità ebraica pur in assenza di un territorio comune, sia in realtà una qualità essenziale per ogni nazione che voglia essere una “patria” per i suoi abitanti, sebbene gran parte delle nazioni odierne ne siano prive.
Questo fatto si rivela essere, perciò, più che un motivo per perseguitare, una ragione per accogliere e stabilire un confronto con gli ebrei, poiché essi possono dare un contributo allo sviluppo della nazione, così come ogni altro membro di essa.
17 agosto 2020
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