L'intima relazione tra razzismo e capitalismo

 

Il razzismo assume un’ampiezza globale in quanto strumento di oppressione e sfruttamento, strumento di ingiusta disuguaglianza che va oltre i confini e le discriminazioni interne alle varie nazioni, ma di cui le nazioni si servono per i propri interessi.

 

di Alberto Pilotto

 

Murales di Banksy
Murales di Banksy

 

Si suole pensare che il capitalismo di matrice liberale sia il miglior sistema per scongiurare i fantasmi dell’oppressione e della disuguaglianza. In particolare, si pensa che il mondo moderno, l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, instaurando definitivamente i valori liberali e capitalisti, abbiano eliminato quel mondo di disuguaglianze e di oppressione rappresentato dal regime feudale. Pensavamo che i riconoscimenti dei diritti fondamentali dell'uomo, dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, avrebbero finalmente messo fine ai soprusi dell’autorità costituita, sancendo la libertà individuale della persona e la sua sacralità. Non è mai stato così.

 

Ciò che vale la pena ricordare è che «La storia dell'incredulità è ancor più ricca di episodi grotteschi che la storia religiosa» (Nicolás Gómez Dávila, Sucesivos escolios a un texto implícito). La storia capitalista e liberale non è estranea alle violenze, anzi, negli ultimi cinquecento anni queste violenze contro il “diverso”, l’“indigeno” e il “primitivo” sono diventate sistematiche, largamente praticate e tra le più orribili che la storia umana abbia mai visto.

 

Proprio a cominciare dall’età moderna, con l’apertura delle grandi rotte commerciali (1487 verso l’Asia e 1492 verso l’America), il mondo occidentale ha cominciato a relazionarsi e confrontarsi con differenti realtà culturali, molto diverse dagli infedeli ma comunque avanzati e quindi rispettabili arabi. L’apertura di queste rotte ha portato all’espansione delle moderne nazioni su territori stranieri, e la superiore potenza tecnica europea ha permesso il dominio sulle popolazioni indigene. Tale dominio fu giustificato anche in senso ideologico: nacque un’idea di superiorità dell’Europeo, una superiorità religiosa, tecnica, culturale, biologica. Questi diversi elementi di diversità vennero racchiusi nella macrocategoria di "razza". Creato e sostenuto, a suo tempo, da una larga frangia della scienza occidentale, il paradigma della “razza” è una grande novità che sta alla base delle discriminazioni colonialiste ed imperialiste del mondo degli ultimi cinque secoli:

 

« Il concetto di “razza” era pressoché sconosciuto prima del colonialismo capitalista e fu la “necessità storica” del colonialismo capitalista a far nascere, nutrire e sviluppare la teoria della “razza”, la psicologia del pregiudizio razziale legato al colore della pelle e la pratica del razzismo ad ogni livello. » (H. Jaffe, Davanti al colonialismo. Engels, Marx e il marxismo)

 

Ciò che emerge dunque è che il razzismo è una dinamica interna ed essenziale al capitalismo stesso, utile a mantenere la sottomissione e la dipendenza di certe fasce della popolazione o di certi popoli. Sin dall’inizio del colonialismo si può assistere alla distruzione sistematica di intere popolazioni in nome della “razza” (si pensi ai popoli indios in America, o alle vicende del Congo belga) in una maniera non meno cruenta e non molto diversa dalla distruzione pianificata degli ebrei ad opera del regime nazista, mossa anch’essa da motivazione di stampo razziale. D’altronde, il movente della Germania hitleriana era proprio quello della costruzione di un impero tedesco sullo stampo degli altri imperi europei – in primis l’Impero britannico e francese –, e l’eco della Shoah sarebbe dovuto, a personale avviso, alla vicinanza geografica e al periodo storico, che ai nostri occhi europei appare più significativo, ma non certo dovrebbe essere imputato alla sua eccezionalità dal punto di vista storico – in quest’ottica sarebbe importante lo studio e la memoria di molti altri genocidi ed etnocidi di cui molti altri Paesi occidentali si sono macchiati.

 

« Ad accomunare le due situazioni è in ogni caso la violenza dell'ideologia razzista. Theodore Roosevelt può tranquillamente essere accostato a Hitler. Al di là delle singole personalità conviene non perdere di vista il quadro generale: “Gli sforzi per preservare la purezza della razza nel Sud degli Stati Uniti anticipavano alcuni aspetti della persecuzione scatenata dal regime nazista contro gli ebrei negli anni trenta del Novecento”. Se poi si tiene presente la regola per cui nel Sud degli Stati Uniti bastava una sola goccia di sangue impuro per essere esclusi dalla comunità bianca, una conclusione si impone: “La definizione nazista di un ebreo non fu mai così rigida come la norma definita the one drop rule, prevalente nella classificazione dei neri nelle leggi sulla purezza della razza nel Sud degli Stati Uniti”. » (D. Losurdo, Controstoria del liberalismo)

 

 

La concettualità razzista è presente, nel bene e nel male, in praticamente tutte le dinamiche politiche, culturali e finanche scientifiche degli ultimi secoli: dal suddetto colonialismo alla formazione degli Stati nazionali all'etnonazionalismo. Il concetto di razza come superiorità di alcuni individui e popoli è stato alla base delle teorizzazioni del darwinismo sociale, nell'ottica di applicare i principi della selezione naturale darwiniana alle comunità umane. E nei confronti di tale concettualità è debitrice anche l'eugenetica e di conseguenza anche le politiche cui è stata applicata, che hanno dato origine agli orrori del XX secolo. Infine, oggigiorno, la dinamica del razzismo è ancora presente, a cominciare dalle famose “esportazioni di democrazia” neocolonialiste e neoimperialiste, per cui, in nome dei “diritti umani” i Paesi occidentali hanno violato proprio i diritti umani di innumerevoli popoli, imponendo loro il proprio modello di civilizzazione ritenuto superiore, con un occhio sempre ben aperto verso gli interessi economici dominanti. Tutt’ora le multinazionali vivono del disinteresse generale nei confronti delle popolazioni che sfruttano per ottenere le risorse: se quello che fanno in Paesi del Terzo mondo lo facessero qui, susciterebbero l'indignazione generale.

 

« Ciò che intendiamo per razzismo ha poco a che fare con la xenofobia che esisteva in vari sistemi storici precedenti. La xenofobia era, letteralmente, la paura dello “straniero”. Il razzismo interno al capitalismo storico non ha niente a che fare con gli “stranieri”. Il razzismo è stato il modo con cui vari segmenti di forza-lavoro interni alla stessa struttura economica sono stati costretti a porsi in relazione gli uni agli altri. Il razzismo è stato la giustificazione ideologica per la gerarchizzazione della forza-lavoro e per una distribuzione fortemente diseguale delle ricompense. Ciò che intendiamo per razzismo è quell’insieme di giustificazioni ideologiche, combinato con quell’insieme di pratiche continuative, che ha avuto la conseguenza di mantenere una relazione forte e costante nel tempo tra etnia e forza-lavoro. […] Il razzismo è sempre venuto post hoc. Quello che sono stati economicamente e politicamente oppressi sono stati dichiarati culturalmente inferiori. » (I. Wallerstein, Il capitalismo storico. Economia, politica e cultura di un sistema mondo)

 

Il razzismo dunque non è un fenomeno limitato degli ultimi duecento anni. I genocidi sistematici del XX secolo sono solo frutto delle aumentate capacità della tecnica di cui i paradigmi razzisti hanno potuto servirsi, ma la mentalità che sta dietro ad essi non è nuova. Il razzismo ha radici più antiche, più profonde, nelle stesse origini del pensiero liberale: non è un caso che alcuni degli Stati più potenti del globo abbiano fondato la propria potenza e prosperità sul razzismo e sulla schiavitù – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, ma anche noi italiani sia in Africa che con quel peculiare razzismo interno nei confronti del Sud.

Si tratta di capire che il razzismo assume un’ampiezza globale in quanto strumento di oppressione e sfruttamento, strumento di ingiusta disuguaglianza che va oltre i confini e le discriminazioni interne alle varie nazioni, ma di cui le nazioni si servono per i propri interessi.

Le rivendicazioni che abbiamo visto in questi mesi negli Stati Uniti sono dunque espressione non solo di una disuguaglianza di trattamento da parte delle forze dell’ordine, ma di un intero sistema che è interessato a mantenere parte della popolazione in una condizione di sudditanza e sfruttamento.

 

5 agosto 2020

 








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica