Piccola introduzione a una diversa prospettiva leopardiana.
Abbracciando la narrazione che vuole Leopardi pessimista storico e cosmico, siamo dimentichi della fondazione di quel pessimismo sulla percezione delle contraddizioni sociali e filosofiche che contraddistinguono il suo (e il nostro) tempo. Ignoriamo in misura ancor più grande che la sua attività, con un ottimismo uguale e contrario, è stata spesa nel tentativo di riacciuffare quel legame con «la virtù e la natura», che, con la civiltà, sono «sparit[e] dal mondo» (Zib, 608).
Anche in ambito squisitamente politico la sua riflessione ha il medesimo scopo. E, contrariamente a un primo sguardo superficiale, il richiamo alla naturalità abbandonata si rivela non tanto una nostalgia per i tempi passati e i suoi dispotismi, ma nella fiducia riposta in quel tanto di naturalità (di immediatezza) che si poteva scorgere nelle società più antiche, non ancora corrotte dalla malsana “ragione” che smantella tutti i valori più alti dell’uomo, in nome dell’egoismo. Ora, a suo dire, la virtù di quelle prime civiltà – forse un po’ mitizzate – risiederebbe nell’adesione spontanea a un ordine certo monarchico, ma di una monarchia senza eguali nella storia successiva, in cui non vi era dispotismo bensì una sorta di gestione condivisa della vita. La “corruzione” razionale sarebbe sopraggiunta soltanto in un secondo momento, con l’interrogazione filosofica e le nuove pratiche, che avrebbero scompaginato gli equilibri e spinto la società a fuoriuscire dall’ingenuità di cui era preda, conducendola su posizioni di dominio e di potere. Valori – quelli perduti – che beninteso non si ritrovano neppure per Leopardi nelle signorie, nelle monarchie, né in un passato da ristabilire in quanto tale. Fuoriusciti dallo stato naturale della coscienza, non rimane che tentare la via razionale agli antichi valori. Il che implica un ripensamento e una critica razionali dell’organizzazione della vita sociale, e altresì – lontanissimi da ogni nichilismo – la possibilità di esprimere una preferenza politica.
Leopardi comincia con l’escludere le monarchie e i dispotismi: la civiltà, spiega, ha «mitigato la tirannide de’ bassi tempi» (Zib, 163). Infatti, è proprio delle «mezze civiltà» del passato «l’esclusione dello straniero e del suddito dai diritti», nelle quali si andava individuando un’élite superiore e nobile con la prerogativa di governare e legiferare sulla parte detta «ignobile e inferiore». Un vizio, ricorda il recanatese, da cui le società moderne «non sono ancora ben purgate» (Zib, 4424). Fra l’altro, egli saluta con gioia il progressivo avvento della “società di massa”, nelle quali finalmente lo spettro di coloro che si occupano dei saperi e della materia politica si è allargato: giacché, finalmente, «le opinioni non dipendono più dalla tradizione» (Zib, 308). Se né il passato né il presente possono essere esempio di governo dei giusti, non resta che una soluzione:
« La nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci riavvicini alla natura. E questo dovrebbe essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo. » (Zib, 115)
Se il suo secolo non vi si è neppure avvicinato, il nostro arranca. D’altronde, prosegue Leopardi, dal punto di vista eminentemente politico viviamo in una «società stretta»; dominata cioè da una larga burocrazia al cui vertice si trova, scissa dalla «nazione», una piccola élite. Da una società siffatta sgorgano logicamente due sentimenti, uno “sano” e legittimo e un altro che è conseguenza nefasta delle condizioni sociali: l’odio, sorto dalla repulsione a una politica che ripugna «le qualità naturalissime e assolutamente proprie dell’uomo» (Zib, 2438); e l’egoismo, «che un tempo fu eroismo» (Zib, 878), ossia un amore di sé che ha perso di vista la concreta dimensione della singolarità. L’uomo egoista non comprende che parte di sé è anche la comunità che lo abbraccia e che egli a sua volta contribuisce a far sussistere. C’è di fatto un egoismo giusto – l’«egoismo sociale» – per cui è manifesto che la ricerca del bene di tutti non comporti affatto «perdere di vista se stess[i]» (Zib, 895). Proprio il contrario: se l’“altruismo” conduce a migliorare quanto circonda l’individuo, implica al contempo il miglioramento della vita di quello stesso soggetto, che in quel contesto vive e a cui si salda sempre più virtuosamente. In questo senso, prendersi cura degli altri equivale a prendersi cura pienamente di sé.
Tuttavia, perché quella “società perfetta” si realizzi, sono necessarie delle condizioni preliminari. La prima, è contenuta nella definizione dello «stato libero e democratico»:
« Nella libertà non bisogna che l’uno abbia sopra l’altro nessun avvantaggio se non di merito o di stima [...]. Colle ricchezze, il lusso, le aderenze, la coltura degli ingegni, la troppa disuguaglianza delle dignità, ed onori esteriori, del potere, ec. ed anche la sola eccessiva sproporzione del merito e della pura gloria, perirono, e sempre periranno tutte le democrazie. » (Zib, 568-9)
Se si vuole che a governare la società siano la giustizia e il merito, bisogna che tutto ciò che ne impedisce la realizzazione venga meno: la ricchezza, i ceti, l’impossibilità di pari studi, disuguaglianza nell’accesso ai beni, l’ereditarietà delle cariche, la proprietà e tutti quei privilegi che fanno sì che l’opportunità non sia parimenti distribuita fra ciascuno degli individui. Il più sciagurato dei cittadini potrebbe rivelarsi un ottimo statista, ingegnere, scrittore se solo potesse applicarvisi, ma, a causa delle sue condizioni, nessuno ne sarà mai a conoscenza. Mentre, per converso, ancora oggi la nascita fortunata spalanca qualsiasi porta. E dacché non c’è uguaglianza, non c’è neppure libertà. La meritocrazia, così facendo, è solo millantata. Da questa disuguaglianza strutturale, che limita l’accesso a ciò che è comune, deriva anche la disuguaglianza nella gestione politica:
« La forma del governo è tale che la nazione non v’ha alcuna parte, gli affari sono in man di pochissimi e separatisi dal resto de’ nazionali, tutto si passa senza pur venire a notizia della nazione, sicché la politica è affatto ignota ed aliena alla nazione medesima, i suoi affari sono per essa come gli altrui, ed oltre di ciò la libertà di ciascheduno massime privato, cioè de’ più e del vero corpo della nazione, è così circoscritta che ciascheduno è ben poco in grado di determinar la sua sorte, e di governarsi, ma quanto più si può è governato veramente da altrui, e ciò non dalla nazione, non dal comune, ma da uno o da pochissimi particolari, e il pubblico, per così dir, da’ privati. » (Zib, 3859-60)
Quest’ultimo avviso fa il palio con l’altro, che espone un problema ulteriore: «l’uguaglianza è incompatibile con uno stato il cui principio è l’unità», perché, in quel caso, si verifica uno «squilibrio di potere» (Zib, 567). Le istanze della modernità politica nascono scalfendo l’impianto gerarchico-divino che contrassegna i privilegi: contro di essi si dipana l’orizzonte dell’uguaglianza tra tutti gli uomini. Ma come dev’essere intesa simile uguaglianza? La modernità la qualifica così: affinché le volontà – sia pur tutte uguali – non rimangano conflittuali, devono confluire in un’unità decisionale: i singoli consegnano parte del proprio diritto agli organi politici, che d’ora in poi ne fanno le veci. La sovranità dello Stato diviene legittima perché si configura come una delega da parte dei cittadini. Tuttavia, quest’assunzione porta a una conseguenza inaudita: la fondazione «par le bas» della rappresentanza diviene gestione «par le haut» dello Stato. Reciso il cordone tra gli organismi e le personalità concrete, la “partecipazione” – leitmotiv democratico – diviene poco più che una formalità.
Il nostro sforzo dovrebbe muovere verso un ripensamento globale dell’organizzazione sociale e civile, ché, a quanto pare, non esiste esercizio più sterile del lanciare anatemi contro “la gente” o la politica (perpetuamente) corrotta. Il male è strutturale e il compito ben più imponente.
12 agosto 2020
DELLA STESSA AUTRICE
Per una fondazione ontologica dell'internazionalismo
Disobbedire
Perché il carcere non funziona. Da uno scritto di Petr Kropotkin
Capitalismo e ambiente. Una convivenza impossibile
La politica come antagonismo
L'estate 1944 in Carnia. La Repubblica degli uomini
liberi
La Resistenza e la questione femminile
Riscoprire il Primo maggio