Non sempre ciò che è scritto nelle leggi corrisponde a ciò che si ritene giusto compiere. Quando ciò accade, il dilemma fra perseguire la legalità o infrangere la legge in nome delle proprie credenze può farsi particolarmente drammatico. Ne sono un esempio i salvataggi di migranti nel mar Mediterraneo.
Nel luglio del 2019, la barca a vela Alex, guidata da un equipaggio facente parte di Mediterranea saving humans, salva cinquantanove migranti nelle acque sotto il controllo della guardia costiera libica. Come narrato nel libro Salvarsi assieme di Alessandra Sciurba, testimone diretta degli eventi nonché presidente di Mediterranea, ad una certa arriva una chiamata di emergenza che avvisa di un gommone con circa una cinquantina di persone, fra cui donne e bambini, in emergenza. Alex è la barca più vicina, a differenza di altre navi di salvataggio presenti in mare quali la Open Arms e la Alan Kurdi. L’equipaggio contatta il Centro di coordinamento marittimo italiano che in risposta afferma: «l’evento non è in una zona di nostra competenza, ma di competenza libica, e la Libia sta già inviando un’imbarcazione». Nonostante questa risposta, Alex si muove verso i migranti che chiedevano aiuto e inizia, non appena arrivata, ad aiutare e salvare il prima possibile i migranti, consapevole che l’imminente arrivo della guardia costiera libica li avrebbe messi in stato di agitazione e reso il salvataggio molto più difficile e rischioso, se non impossibile.
Il salvataggio riesce e i migranti rimangono nella Alex, nonostante l’iniziale contestazione della motovedetta libica, la quale ha poi deciso di tornare indietro e lasciare i migrandi nell’imbarcazione di Mediterranea. La scelta di non lasciare i migranti in mano ai libici viene subito spiegata nelle prime pagine del libro:
« La zona SaR libica: 80 miglia di mare dalle coste della Libia, sulle quali un paese in guerra, che non ha aderito a nessuna Convenzione internazionale sui diritti umani, ha formalmente il coordinamento degli eventi di ricerca e soccorso. Un corto circuito tra le previsioni del diritto e la realtà, perché le zone SaR erano state immaginate per far sì che a ogni tratto di mare corrispondesse uno Stato che avesse le responsabilità del salvataggio dei naufraghi e dello sbarco delle persone soccorse nel porto sicuro più vicino. Ma le zone SaR si assegnano ai Paesi per auto-attribuzione; solo un altro Stato al Tribunale internazionale del diritto del mare per contestarle. E nessun governo ha contestato la SaR libica. Così ci ritroviamo nel paradosso che un Paese conteso e smembrato tra diversi eserciti e milizie, con una guerra civile in corso, ha il potere di farsi riconsegnare i naufraghi che abbiamo a bordo, i profughi di quella stessa guerra. Il potere, ma non il diritto, perché se un giudice entrasse nel merito, potrebbe facilmente dimostrate che i libici non hanno alcun porto sicuro, ovvero un porto che non solo offre riparo dalle intemperie, ma in cui le persone non subiscano trattamenti inumani e degradanti. »
Concetto riassunto drammaticamente da una mamma migrante che stringe la propria bambina e afferma: «Non ridateci a loro, piuttosto buttateci in acqua a morire», a esprimere la drammaticità di chi preferisce abbandonarsi al mare piuttosto di rivivere le torture passate nei centri di detenzione in Libia (specie chi, nel Mediterraneo, è già stato preso e riportato in Libia più di una volta). Ciò che esce fuori così, nel corso del libro e nel susseguirsi delle vicende – dal salvataggio iniziale fino allo sbarco a Lampedusa contro il blocco di ingresso in acque italiane –, è la volontà dell’equipaggio di non accettare le decisioni politiche più recenti di blocco all’immigrazione – fra cui centrale è stato il noto “decreto sicurezza”, nonché gli accorsi per lo sviluppo della cosiddetta guardia costiera libica –, le quali sono in contrasto – come più spesso ribadito nell’opera – con il diritto internazionale, a cui l’Italia partecipa. Diritto internazionale che sancisce la necessità di salvare naufragi in mare e portarli nel porto sicuro più vicino. Di fronte alla mancanza di porti sicuri in Libia e il prevalere del diritto internazionale su quello nazionale, l’equipaggio di Mediterranea, come molti altri gruppi di salvataggio che di recente hanno effettuato salvataggi, è stato scagionato da accuse penali di favoreggiamento di immigrazione clandestina, avendo i membri della Alex letteralmente rispettato ciò che dovevano fare data l’emergenza che avevano davanti.
Se Alessandra Sciurba, nel narrare la vicenda, molto spesso evidenzia lo stridere tra leggi o decreti recenti e le leggi internazionali o la stessa costituzione italiana, frutto di lotte durate anni e espressione di principi non scalfibili dall’umore politico dell’ultima ora, ciò non sta a significare semplicemente “noi li abbiamo salvati perché la legge, in fin dei conti, ci diceva che ciò era giusto”. La riflessione che si dipana nel libro lascia sottintendere, a volte implicitamente, che quel salvataggio non solo non andava contro le leggi, ma innanzitutto andava fatto perché ritenuto giusto. La stessa realtà di Mediterranea si fonda sull’idea che non si può lasciare a morire i migranti in mare, in quanto si tratta di esseri umani in difficoltà, che scappano da guerre e situazioni disumane, e lasciarli da soli sarebbe semplicemente inaccettabile, un disvalore che peserebbe sulle vite di chi si è rifiutato di aiutare il prossimo.
La vicenda apre così un interrogativo forte, quello del possibile scontro fra la legge – ciò che viene riconosciuto come legale in uno Stato – e il giusto – ciò che è ritenuto di valore, da portare a compimento per attuare il bene. Un problema che si evidenzia anche dalla narrazione del primo incontro, al limitare delle acque italiane, fra l’equipaggio di Alex e la prima motovedetta incrociata della Guardia di finanza, dove un primo ufficiale si ritrova a piangere nella consapevolezza di non portare un aiuto ad una nave in difficoltà e con troppe persone a bordo, in carenza di carburante, acqua e cibo, bensì di consegnare un provvedimento che vieta l’entrata in acque italiane; oppure anche in una scena successiva, dove un corpo dello Stato, di cui viene mantenuto l’anonimato, si avvicina con una motovedetta all’improvviso alla nave Alex, con uomini in divisa che, di propria volontà, portano sacchi di cibo a persone in difficoltà, in mancanza dell’ordine dello Stato e dei propri superiori di far ciò. Uomini costretti a decidere fra gli ordini a cui dovrebbero sottostare e ciò che a parer loro è giusto fare.
Se si volesse portare all’estremo la contraddizione, ci si potrebbe chiedere: se neppure il diritto internazionale avesse sancito legalmente che bisogna salvare gente in mare e portarla nel più vicino porto sicuro, la barca a vela Alex avrebbe dovuto comunque portare a compimento il salvataggio? Andare contro quella legalità che dovrebbe, di principio, rappresentare il sedimentarsi negli anni di ciò che viene ritenuto corretto e da eseguirsi nei differenti ambiti della vita? Si tratta di una contraddizione pesante, dovuta specie al fatto che fra la legge e il giusto non dovrebbe esserci scontro, in quanto la legge, idealmente, dovrebbe proprio rappresentare formalmente il concretizzarsi formale di cosa è bene fare secondo la collettività. Ciò che dovrebbe limitare il singolo dal fare scelleratezze, dal compiere azioni improvvisate di fronte alla supposta saggezza secolare che le leggi dovrebbero rappresentare. Eppure, in certi contesti, certi gesti sembrano così moralmente validi e non rinviabili che, pur avendo tutte le leggi contro, è impossibile voltarsi dall’altra parte se si ha di fronte una scelta non rinviabile, quale quella di salvare persone. Bisognerebbe allora chiedersi se le leggi esistenti in certi periodi non siano invece lontane dalla loro vera essenza – quella d’essere risultato di un dialogo collettivo, da cui fuoriesce la formalizzazione nel tempo di una sapienza il più possibile fondata – e si riducano all’essere espresisoni degli interessi di una minoranza, poi accettate acriticamente da una popolazione tenuta lontana dalla politica e informata solo tramite un’informazione distorta e demagogica, incapace di mostrare veramente la drammaticità e il valore di certe scelte.
26 agosto 2020
SULLO STESSO TEMA
Nicolò Govoni, Non solo di politica, ma anzitutto si tratta di umanità
Simone Basso, Contro la polarizzazione di opinioni sul dramma di Macerata
Alberto Manicone, E tu, Occidente, ce l'hai un'anima?
DELLO STESSO AUTORE
Ha senso il separatismo femminista? Il caso di Cerchio Spezzato
O si salva l'umanità, o si salva il capitale: non c'è una terza alternativa
La rivoluzione dialettica di Antonio Gramsci
Fare la rivoluzione... ma come?
Fare filosofia o non fare niente
La schiavitù dell'ignoranza capitalistica
È tutto soggettivo, ma niente è soggettivo
Libera da tutto o diretta al concetto? Lo sviluppo della musica nell'"Estetica" di Hegel
Dominare la necessità. La critica gramsciana al determinismo