Sulla necessità di uscire da un'ottica esclusivamente individualistica se si vuole veramente, prima che sia troppo tardi, affrontare la crisi ambientale in atto.
Di fronte all’enorme sommovimento sociale e mediatico nato in seno alla questione ambientale lo scorso anno, una delle riflessioni che più si sono ripetute è la necessità di agire presto e di agire tutti di un’azione rapida e collettiva per salvare il pianeta. Presto, perché il tempo a disposizione per invertire la rotta del cambiamento climatico si sta esaurendo, anzi ci troviamo già in una situazione caratterizzata da catastrofi o cataclismi climatici e quel che si può fare è solo evitare un eccessivo peggioramento; tutti, perché tutti abbiamo partecipato alla distruzione della natura e tutti dobbiamo dunque metterci in gioco.
A ottobre 2019 la popolazione mondiale raggiungeva circa i 7 miliardi e 700 milioni di persone. Certamente, quello che ognuno di noi fa nella propria vita ha un impatto sull’ambiente che, per quanto minimo, se moltiplicato per miliardi di persone, diventa un impatto notevole. Sarebbe da ipocriti parlare di salvare il pianeta e poi, nel proprio piccolo, rifiutarsi di far la differenziata, sprecare energia elettrica per niente, buttare il mozzicone per terra, ecc. Anche i piccoli gesti non sono indifferenti. Verrebbe tuttavia da farsi una domanda: sarà pur vero, per parafrasare McLuhan, che sulla Terra siamo tutti membri dell’equipaggio, nessuno escluso; abbiamo però tutti lo stesso ruolo? O c’è qualcuno che, in relazione alla crisi climatica, ha più colpe di altri?
La produzione mondiale di gas serra, secondo l’Interngovernmental panel on climate change, risultava qualche anno fa imputabile per il 21% al settore industriale, salendo al 32% se si calcolava anche l’inquinamento legato alla produzione di energia elettica utilizzata dall’industria. Se 100 multinazionali causano il 70% di gas serra a livello industriale, certamente non si può negare che qualcuno abbia maggiori colpe. Idem per l’ambito agricolo, colpevole del 26% circa di emissioni di gas serra e in mano, per il 63%, a tre multinazionali, dopo l’acquisizione di Monsanto da parte della Bayer, la fusione tra DuPont e Dow Chemical e l’acquisizione di Syngenta da parte di ChemChina. Chi è più colpevole è sicuramente chi, proprietario di una ricchezza economica esorbitante, è il primo che se ne frega della questione ambientale e proseguire in una logica di profitto a discapito di qualsiasi altro valore.
Ma questi colossi, e in generale tutte quelle realtà che detengono la maggioranza della ricchezza del mondo, non hanno solo la responsabilità diretta di quel che fanno le loro aziende. Il loro peso è tale per cui, molto spesso, la stessa possibilità d’azione del singolo viene schiacciata. Per dirla in altri modi: ogni individuo vive all’interno di una certa società. Se quella società è strutturata secondo logiche malate di profitto e distruzione ambientale, ciascuna persona sarà legata a quel sistema e le sue scelte saranno limitate, sia indirettamente che direttamente. Alcuni esempi possono chiarire quanto detto.
In Italia esiste la raccolta differenziata, seppur non ovunque. O meglio, di sicuro esistono i bidoni in cui buttare i rifiuti a seconda della loro categoria, eppure il resto del processo non è poi così assicurato. Nel 2018 (dati Greenpeace) l’Italia ha esportato 197 mila tonnellate di rifiuti che non sapeva come smaltire, verso mete (quali Indonesia o Turchia, o in precedenza il sud est asiatico) dove non c’è la sicurezza di una gestione decente dei rifiuti.
Sempre nel nostro paese, The Coca-Cola Company si vanta, nel suo report sostenibilità 2019, di aver fra i suoi obiettivi d’azione la lotta al cambiamento climatico, oltre a offrire un lavoro dignitoso e una produzione responsabile. Quella stessa azienda che ha il record per i rifiuti di plastica che si trovano sparsi per il mondo (report 2019 del movimento Break free from plastic). Dopotutto, si parla di una multinazionale che ha essa stessa ammesso di produrre circa 3 milioni di tonnellate di imballaggi di plastica all’anno. È quella stessa azienda che neppure sul lato della dignità dell’uomo e del lavoratore si trova poi così responsabile. Possiamo ricordare l’uso di forze paramilitari negli stabilimenti colombiani per reprimere o assassinare sindacalisti che lottavano per i lavoratori sfruttati. Oppure, possiamo ricordare gli effetti che uno dei più grandi stabilimenti della multinazionale causa in Messico. Vengono imbottigliate 300.000 unità nello stabilimento Coca-Cola Femsa a San Cristóbal de Las Casas, usando 1.200.000 litri di acqua al giorno. Il risultato è che di risorse idriche agli abitanti ne rimangono ben poche. La popolazione è così costretta a bere due litri di coca cola quotidianamente, con i casi di diabete aumentati del 30% dal 2013 al 2016 (e il dirigente dello stabilimento che ha persino negato la correlazione fra diabete e uso della bevanda, ipotizzando una propensione genetica dei messicani al diabete).
A volte poi esistono prodotti che, invenduti da un po’ di tempo, potrebbero essere venduti scontati, favorendo quelle classi popolari che non si possono permettere alcuni prodotti a prezzo pieno. Amazon preferisce fare diversamente: il sindacato francese Cgt ha stimato che nel 2018 la multinazionale di e-commerce abbia buttato al macero 3.200.000 di prodotti nuovi e invenduti in Francia, per una politica aziendale che spinge i venditori a sbarazzarsi dei propri prodotti dopo un certo periodo in cui rimangono invenduti in magazzino (altrimenti Amazon alza a livello insostenibile i prezzi del servizio di immagazzinamento), permettendo così di liberare spazio per nuovi prodotti.
Un esempio ancora più eclatante dei precedenti, che fa capire ancor più quanto un certo sistema influenzi e limiti l’azione dei singoli, è un avvenimento legato alle strade americane del secolo scorso. Negli anni ’20, in America solo il 10% dei cittadini possedeva un’auto, mentre la maggioranza utilizzava un trasporto pubblico tramviario che era alquanto efficiente, sia per molti centri cittadini che per le periferie. La General Motors capì che, finché sussisteva un trasporto pubblico efficiente, la popolazione difficilmente avrebbe puntato al mezzo di trasporto privato. Fondò così, assieme ad altre società (come la Standard Oil of California), la NCL, acronimo per National City Lines, con cui acquisì vari parti del sistema tramviario pubblico in Iowa, Texas, California, ecc. Iniziò man mano a tagliare e ridurre i servizi, innalzando al contempo le tariffe per il trasporto. Di fronte alle ovvie lamentele pubbliche, venne offerta una soluzione “migliore”: il trasporto su ruota tramite i bus, prodotti nientemeno che dalla General Motors. Un metodo che favorì il progressivo passaggio da strade adatte al trasporto tramviario a quello su ruota, spronando la continua propaganda sull’utilità del bus a quella sull’utilità dell’auto privata. Un sondaggio nel dopoguerra a Los Angeles mostrò che, nonostante le pressioni della General Motors, l’88% delle persone intervistate preferiva il rafforzamento del sistema di trasporto pubblico. A quanto pare, però, l’opinione della gente contava poco. I risultati in America attuali la hanno data vinta ai magnati del settore automobilistico.
Questi esempi non vogliono certo affermare che l’azione del singolo sia inutile. Ciò che fanno capire, invece, è che è inutile un’ottica d’azione individualistica, che concepisca la lotta all’ambiente come qualcosa che riguardi solo la sfera privata. Stare attenti ai propri consumi è una buona cosa, ma sarebbe ancor più importante far parte di un’azione collettiva che possa veramente lottare contro un sistema, come quello capitalista, che finché sussiste continuerà a inquinare e rovinare il nostro pianeta. Proprio per questo, la lotta ambientale è necessariamente una lotta di classe, uno scontro fra la richiesta del benessere collettivo e dell’ambiente e l’interesse di pochi per il profitto sfrenato. E, in quanto lotta di classe, è una lotta politica, che riguarda l’uomo in quanto collettività.
Soprattutto, bisogna capire come una alternativa sia davvero possibile, ma solo nell’ottica di un cambiamento del sistema economico, politico e sociale in cui si vive. Per capire ciò, si pensi al modo in cui Cuba ha affrontato il problema climatico negli anni. Dal 2004 al 2010, secondo lo sviluppo energetico programmato dai piani di sviluppo statali, Cuba ha aumentato la capacità elettrica da 3200 MW a 4900 MW, basandosi per più del 90% su combustibili fossili. Al contempo, tuttavia, l’emissione di gas serra è diminuita del 60%. Come è stato possibile? Sono stati migliorati gli impianti di produzione energetica, rendendoli più efficaci e puntando maggiormente sull’uso di gas (il cui impatto ambientale, seppur presente, si rivela minore rispetto ad altri combustibili fossili); il sistema di trasporto e trasmissione dell’energia è stato migliorato (risistemando il 76% della rete elettrica), diminuendo così gli sprechi; è stata lanciata una campagna di sostituzione, appoggiata coi fondi statali, di elettrodomestici obsoleti con altri a maggior efficienza energetica (inclusi 2,550,997 frigoriferi, 9,500,000 lampadine a incandescenza, 270,000 condizionaori, 1,050,000 ventilatori, 230,500 televisori, ecc.); è stato razionalizzato e reso più efficiente l’uso di energia specialmente in quei 1713 stabilimenti produttivi che consumano assieme il 45.6% dell’energia elettrica nazionale. Insomma, senza neppure aumentare l’utilizzo di energie rinnovabili (e su cui Cuba si sta impegnando in questi ultimi anni), un paese sotto embargo economico da più di 50 anni è riuscito a ottenere un risultato strabiliante nella riduzione di gas serra. Un risultato impensabile in un sistema capitalista, dove i fondi non sono mai diretti dove veramente servirebbero.
Se il problema è un sistema economico che limita le nostre scelte, la soluzione non può che derivare da superare quel sistema. Per farlo, bisogna capire che la questione ambientale è questione politica. Da soli, facciamo poco. Assieme, coesi secondo saldi principi di lotta, possiamo cambiare il mondo, o, meglio, salvarlo.
22 aprile 2020
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