Nell’ottica di una comprensione della vita che tenga insieme dialetticamente il naturale e il politico, Illetterati fa notare come la tutela di quella che Agamben intende come nuda esistenza biologica sia in realtà la tutela anche della vita “degli altri”, vale a dire di quel terreno comune, composto parzialmente ma inevitabilmente dalla vita biologica, a partire dal quale è possibile costruire quella vita degna che Agamben auspica.
L’interpretazione data da Giorgio Agamben alla gestione politica e mediatica della presente situazione ha suscitato una certa attenzione. Agamben sostiene che la risposta collettiva all’emergenza legata al Coronavirus denuncia una volta per tutte la vittoria del valore unico della “nuda vita”, vale a dire della mera sopravvivenza biologica, al di sopra di altri punti di riferimento umani: personali, sociali, religiosi, economici, politici, ecc. Sono arrivate repliche più o meno precise alle sue posizioni; quella di Luca Illetterati è giustamente ritenuta la più interessante da Antonio Lombardi, il quale, nel suo articolo Dialettica del virus. Di Agamben, Nancy, Illetterati evidenzia come essa, a differenza di quella di Paolo Flores D’Arcais, accetti di rispondere filosoficamente ad Agamben piuttosto che imbarcarsi in una piuttosto scomposta invettiva. Lombardi sostiene che la risposta di Illetterati, pur sottolineando correttamente un dualismo irrisolto alla base delle tesi di Agamben, non risponde del tutto alle domande di quest’ultimo. Mi propongo nelle prossime pagine di sviluppare questo punto citato da Lombardi; penso infatti che la critica di Illetterati ad Agamben offra uno spunto per una comprensione ulteriore del pericolo rappresentato dalla nuda vita per la società contemporanea.
Ma procediamo con ordine e, anzitutto, con alcune sottolineature dalle tesi di Agamben. Naturalmente il concetto di nuda vita ha in Agamben un valore teoretico che nasce soprattutto dalla sua opera Homo Sacer. Si tratta, in questo contesto, di capire come venga utilizzato in relazione alla pandemia in atto. I primi contributi di Agamben – L’invenzione di un’epidemia e Contagio – non fanno riferimento al tema della nuda vita. Esso appare invece in Chiarimenti, testo in cui Agamben sostiene che la reazione collettiva, che include tanto le misure adottate dal governo quanto il modo in cui noi cittadini abbiano accettato di mettere in pratica tali misure, manifesta la prontezza con cui siamo ormai pronti a sottomettere “praticamente tutto” alla conservazione biologica dell’esistenza. Come dicevo, questo tema era sottinteso ma non esplicitato nei primi due contributi, nei quali l’accento cadeva da una parte sul controllo imposto dall’autorità e quasi gaiamente accettato dalla popolazione, dall’altra sull’allontanamento reciproco in nome di una rinnovata caccia all’untore. Presupposto certo, come detto, è per Agamben il fatto che la giustificazione di tutto ciò sia la facilità con cui la preservazione della vita biologica viene anteposta alle altre esigenze umane. La menzione esplicita nel terzo articolo apre tuttavia, a mio parere, una direzione differente di sviluppo per il concetto di nuda vita, parallelo e non antitetico a quello biopolitico e quello interpersonale sviluppati inizialmente da Agamben. Questa terza conseguenza è sottolineata nel quarto articolo, Riflessioni sulla peste: la sottomissione di ogni valore alla vita biologica implica infatti l’assenza di ogni collante sociale al di fuori di essa; in quanto membri di una stessa comunità umana, non siamo più legati e accomunati da alcunché, al di là della preservazione della nuda vita. Non vi è più alcun progetto comune, se non il mantenimento della specie, sopra il quale poi starà all’individuo costruire gli orpelli che con maggiore o minore profondità danno consistenza al vivere quotidiano. Ma nulla di tutto ciò che si aggiunge alla nuda vita è spendibile pubblicamente. Questo aspetto pubblico, a mio parere, si affianca e completa quanto affermato da Agamben sull’annullamento della figura del “prossimo”, visto ineludibilmente come minaccia. La sola denuncia della demonizzazione dell’altro, non più prossimo ma untore, resta anzi incompleta, perché troppo incentrata su una prospettiva, se non individualista, comunque centrata sui rapporti uno a uno o uno a pochi, sui rapporti di amicizia e di prossimità. Difatti, il pericolo di una degenerazione dei rapporti interpersonali è forse il pericolo più denunciato in questa fase, ad esempio, dalla Chiesa cattolica – di cui Agamben lamenta il silenzio: silenzio che su alcuni punti è assordante, ma non per quanto riguarda l’appello a evitare una totale chiusura su se stessi. Nella stessa direzione vanno tutte le manifestazioni di solidarietà nella sventura, dalle chiamate di gruppo su Skype ai concerti sui balconi: una reazione sana e umana, che però si ferma al mantenimento di un minimo livello di civiltà e di relazione umana. Verosimilmente, è difficile chiedere di più proprio perché anche normalmente la nostra quotidianità nell’anno 2020 non ci offre altri collanti del vivere comune oltre a una generica convivenza sulla quale, come dicevamo prima, è compito del singolo costruire le proprie reti di significato, tramite il lavoro – per chi ha la fortuna di avere un lavoro, e un lavoro appagante: torneremo più avanti su questo punto – e tramite le relazioni famigliari e amicali, lo sport, ecc. Ma come si potrebbe configurare una risposta veramente collettiva e non semplicemente interpersonale?
Credo che la risposta si possa intravedere nella replica di Illetterati ad Agamben. Il nerbo di tale replica – Dal contagio alla vita. E ritorno. Ancora in margine alle
parole di Agamben – consiste nella tesi che nell’umano non si darebbe mai, propriamente, quella naturalità pura che sembra presupposta dal concetto di nuda vita. L’umano e
la vita sarebbero invece caratterizzati da una dialettica di natura e libertà, per cui il compito loro posto sarebbe sempre di pensare e concretizzare “l’innaturalità della natura e la naturalità
dello spirito”. Che cosa significa questo nel contesto dell’emergenza attuale? Nell’ottica di una comprensione della vita che tenga insieme dialetticamente il naturale e il politico, Illetterati
fa notare come la tutela di quella che Agamben intende come nuda esistenza biologica sia in realtà la tutela anche della vita “degli altri”, vale a dire di quel terreno comune, composto
parzialmente ma inevitabilmente dalla vita biologica, a partire dal quale è possibile costruire quella vita degna che Agamben auspica. Emerge qui, a mio parere, una possibile concezione
della vita come orizzonte di significatività umana a partire dalla quale è possibile difendere la vita biologica, come funzionale allo sviluppo di una vita degna, perché fondata su un progetto
comunitario. Emerge anche la verità del commento di Lombardi, che fa notare come la replica di Illetterati non elimini i problemi posti da Agamben. Verissimo, ma ritengo anche che sia proprio una
posizione come quella di Illetterati a metterci nelle condizioni di rispondere sensatamente alla sfida di Agamben. Il compito è quello di far sì che il nostro concetto di vita umana possa
includere, e per così dire elevare, tradurre, a livello propriamente umano, la protezione della nuda vita. Si potrebbe dire, usando la terminologia di Hannah Arendt, che senza la dimensione
dell’agire nella pluralità – il richiamo alla vita degli altri – le altre dimensioni sia della vita attiva, sia della vita contemplativa vengono declassati a elementi accessori della vita
animale.
Cercando di chiudere il cerchio: ciò che rende virtualmente impossibile nel contesto attuale un’operazione del genere è il fatto che noi, anziché far rientrare la preservazione della vita biologica in una comprensione più alta della vita e della comunità umana, abbiamo fondato queste ultime sulla prima; come si diceva, il nostro vivere comune è fondato sul mantenimento della sopravvivenza, a cui l’individuo aggiungerà poi ciò che ritiene opportuno. Un esempio della tragica insufficienza del modo attuale di concepire la vita e la comunità umana si trova nel nostro rapporto con il lavoro. Esso non è in alcun modo la strada principale data all’individuo per contribuire alla costruzione del mondo comune, ma è semplicemente, di nuovo, lo strumento del mantenimento da una parte della sopravvivenza dell’individuo, di modo che questi possa poi arrangiarsi nel costruirsi la propria nicchia di significato nelle relazioni e attività personali prima citate, e dall’altra del grande meccanismo economico da cui tutti dipendiamo. Facendo nuovamente riferimento ad Arendt, potremmo parlare di una poiesis senza che resta ingabbiata nella sfera privata. Significativa per il modo di comprendere il lavoro proprio della nostra epoca è la contrapposizione percepita nel dibattito pubblico in merito alle misure restrittive imposte di questi tempi, fra i difensori a ogni costo della salute – leggi nuda vita – e i sostenitori delle esigenze economiche, come se fra le due non ci fosse un concetto di vita umana comune, all’interno del quale vita biologica e sviluppo economico possono trovare senso. I due poli escono parimenti svalutati: la salute come mantenimento della mera sopravvivenza, l’economia come problema contabile.
È probabilmente utopico pensare che, passata questa crisi, il paradigma potrà cambiare automaticamente; quello che è lecito sperare è che alcune contraddizioni si riveleranno non più sostenibili, e che da una parte alcune istituzioni economico-sociali vengano rivedute o smantellate, anzitutto a livello europeo, e dall’altra che, anche inconsciamente, iniziamo tutti a sentire che qualcosa di fondamentale è stato sottratto al nostro essere, insieme, uomini che costruiscono una vita degna e una comunità umana. Se ciò avverrà, possiamo anche sperare che si daranno le condizioni per smantellare il paradigma della nuda vita come fondamento della società, tornando a pensare e a progettare un futuro pienamente umano.
12 aprile 2020