La Arendt è convinta che a differenza della natura, la storia sia piena di eventi e che questa frequenza abbia la sua unica ragione nel fatto che gli eventi storici sono di continuo creati e interrotti dall’iniziativa dell’uomo, che è un initium in quanto agisce.
di Lucia Gangale
Nei tempi attuali, nei quali un virus sta mettendo alla prova la tenuta degli Stati a livello planetario, tra la vasta letteratura della crisi che imperversa in questi giorni nelle librerie mi piace segnalare un libro scritto agli inizi degli anni Sessanta dalla più nota politologa del Novecento, Hannah Arendt, dal titolo Tra passato e futuro, notevole ancora oggi per la sua attualità. Il libro, infatti, traccia un excursus che riguarda la crisi in vari settori dell’agire umano: l’autorità, la libertà, l’istruzione. Crisi determinata da una paralisi o da una lacuna nell’agire umano, che interrompe il solco tracciato dalla tradizione. E cosa c’è di più attuale di un mondo che, alle prese con un problema epidemiologico di cui non si intravede la fine, ha scoperto d’improvviso la sua fragilità e anche l’impotenza rispetto ad una situazione così imprevista e di tale portata?
L’unica cosa certa è che sul terreno lasciato da tanta devastazione e tanta morte sarà indispensabile un ripensamento collettivo dei rapporti umani, dell’economia di mercato, del ruolo della politica, del rapporto con la religione, del senso della responsabilità personale, delle cose importanti della vita.
In un momento storico nel quale ogni libertà di agire è realmente vanificata e l’apertura al mondo, e quindi al presente, è fortemente in crisi, Hannah Arendt è una piacevole riscoperta, perché con animo sereno e sguardo penetrante ci conduce ad indagare uno dei problemi più affascinanti del ragionare filosofico: la libertà, la sua origine, il suo evolversi, il senso dell’agire umano e la forza dei miracoli di cui esso è portatore.
Per Hannah Arendt il problema della libertà è condizionato da un lato dalla cultura cristiana, dall’altro da una cultura filosofica antipolitica. A quest’ultima ella si volge per prima, nella chiara consapevolezza che essa abbia articolato il problema con classica e insuperata nitidezza.
È nell’agire che si colloca l’esperienza della libertà. Ora, nella lingua greca e in quella latina ci sono rispettivamente due verbi per indicare l’"agire". In greco le due parole sono archein, cominciare, guidare, regolare, e pràttein, porre in atto.
Il corrispondente in latino è: agere, avviare, mettere in moto, e gerere, che significa grosso modo, proseguire nei fatti e negli eventi storici.
In entrambe le lingue l’agire si compone di due parti. La prima è il cominciamento, cioè il dare avvio a qualcosa di nuovo. Ad esempio chi governava qualcosa poteva cominciare qualcosa di nuovo, come i padri di famiglia che governavano su parenti e schiavi. E lo poteva fare in quanto già affrancatosi dalle necessità della vita e dunque disponibile per imprese militari oppure per l’esercizio dei diritti di membro della pòlis.
Nell’antica Roma il popolo era libero in virtù del lascito dei fondatori dell’Urbe. Gli avi avevano fondato la città e dato il via a qualcosa di nuovo. I discendenti avevano il dovere di dirigere le faccende della città ed elevarla, dando lustro e rendendo onore agli antenati. Il legame con gli antenati era così forte che, a differenza di Tucidide e di Erodoto, gli storici romani cominciano ogni narrazione con l’espressione ab urbe condita, perché in quell’atto è contenuto l’autentico elemento di libertà romana che rende politica la loro storia.
Proprio per la sua valenza politica, il concetto di libertà non ebbe alcun ruolo nella filosofia greca ed è curioso d’altro canto vedere che i romani, benché abbiano avuto una grande storia ed una grande esperienza istituzionale non abbiano avuto la stessa attitudine filosofica dei greci per concepire una teoria della libertà adeguata alla loro esperienza. È stato Agostino il primo ad introdurre nella storia della filosofia il concetto di libero arbitrio, che apparteneva alla predicazione di Paolo. Ma in Agostino vi è anche un’idea di libertà piuttosto diversa, esposta nella sua unica opera politica, il De Civitate Dei. La libertà non è una dote umana interiore bensì la cifra dell’esistenza dell’uomo sulla terra. Il suo venire al mondo è equiparato all’apparire della libertà nell’universo. L’uomo è libero perché è un inizio. Ogni uomo che nasce riafferma quell’originario inizio, in quanto con ogni nascita si introduce qualcosa di nuovo nel mondo preesistente. Umanità e libertà coincidono. Dio crea l’uomo per introdurre nel mondo la facoltà di dare inizio. Questa facoltà è, appunto, la libertà.
All’interno di una visione cristiana del tutto avversa alla politica, è paradossale che proprio un autore cristiano abbia per primo sviscerato le implicazioni filosofiche del concetto di libertà così come posto dal mondo classico. Ma bisogna a questo punto ricordarsi che Agostino, autore romano oltre che cristiano, ha qui evidenziato l’esperienza politica basilare dell’antica Roma, e cioè il manifestarsi della libertà come cominciamento, come principio, nell’atto di fondazione dell’Urbe.
Ma anche nelle parole di Cristo, esposte nel Nuovo Testamento, si rivela una straordinaria intelligenza della libertà, come facoltà mossa non dalla volontà, bensì dalla fede. Il prodotto della fede sono i “miracoli”, come li hanno chiamati i vangeli. Un vocabolo così polisemantico presenta qualche difficoltà di comprensione, ma, tralasciando il significato di evento soprannaturale, si ha un miracolo ogniqualvolta si interrompe una qualche catena meccanica di eventi, un processo automatico, e si verifica qualcosa di inatteso e di imprevisto, che chiamiamo appunto miracolo.
Ora, la vita dell’uomo è inserita in una serie di processi automatici. Ma tutto questo automatismo, sia nella natura che nella storia, conduce alla rovina dell’uomo, in quanto le fasi stagnanti producono civiltà pietrificate, incapaci di evolversi, destinate invece ad un irreversibile declino.
La Arendt nota altresì che proprio nelle fasi di pietrificazione e di fatalità generalmente resta intatta la facoltà di essere liberi, intesa come capacità di avviare dei processi e di ispirare tutte le attività umane. Il guaio è che, fintanto che questa fonte di libertà rimane nascosta, la libertà non è cosa tangibile, non opera positivamente nel mondo, non produce nulla, non è dunque politica.
In altre parole, agire e cominciare sono la medesima cosa. Ogni nuovo inizio di cui l’uomo è capace, spezzando l’automatismo delle cose, diventa miracolo, cioè qualcosa di imprevedibile.
In ogni realtà è presente un elemento miracoloso, cioè l’imprevedibile. E l’esperienza di vedere un miracolo in ogni evento non è arbitraria né artificiosa, è, bensì, naturalissima.
La Arendt è convinta che a differenza della natura, la storia sia piena di eventi e che questa frequenza abbia la sua unica ragione nel fatto che gli eventi storici sono di continuo creati e interrotti dall’iniziativa dell’uomo, che è un initium in quanto agisce. Di conseguenza non ha nulla di superstizioso l’essere pronti ad accogliere ed aspettarsi dei miracoli in campo politico. E quanto più si va verso la catastrofe, tanto più l’atto compiuto in libertà appare miracoloso. Difatti, la salvezza non è automatica, è automatico il processo che conduce verso la catastrofe.
Saranno sempre gli uomini a realizzare miracoli. Primo, perché hanno il dono della libertà. Secondo, perché hanno la capacità di agire per fondare una loro realtà.
16 aprile 2020