Qualunque animo venga a contatto con la forza non può sfuggire alla cosificazione, poiché essa si scaglia tanto sullo schiavo quanto sul potente. Il “contraccolpo” subito dal potente dimostra non solo l’impossibilità di prevedere e dirigere gli effetti della forza, ma anche l’illusione di poterla controllare. Gli uomini sono dunque illusi di poter governare la forza e i suoi effetti e ne risultano doppiamente vittime.
Nell’immensità degli interessi letterari di un’autrice come Simone Weil, se si volesse selezionare un’opera che, in modo particolare, ha segnato la crescita intellettuale dell’autrice, questa scelta non può che ricadere sulla prima opera omerica: l'Iliade. Ad essa Weil dedica un lungo articolo, pubblicato nel 1940-'41 e intitolato L’Iliade o il poema della forza. In questo saggio Weil dà una lettura squisitamente particolare dell’opera omerica, rintracciando in essa il vero protagonista: la forza.
La forza è per Simone Weil ciò che elimina ogni equilibrio di qualsivoglia tipologia o forma (sociale, fisico, morale, umano…). Essa ha inoltre la capacità di “trasformare in cosa chiunque le sia sottomesso” . Se usata al massimo grado, essa trasmuta l’uomo in cosa in senso letterale, ovvero trasformandolo da essere vivente a cadavere. Il cadavere, ridotto a cosa, viene trattato come tale. Chiunque può subire questa sorte, anche un eroe come Ettore “sterminatore di uomini”:
« Lo legò al cocchio, lasciando strasciconi la testa,
e balzato sul cocchio, alte levando le nobili armi,
frustò per andare: vogliosi i cavalli volarono.
E intorno al corpo trainato s’alzò la polvere: i capelli
neri si scompigliarono; tutta giaceva in mezzo alla polvere
la testa, così bella prima: ma allora Zeus ai nemici
lo diede, che lo sconciassero nella sua patria. » (Omero, Iliade)
La forza omicida è però solo un tipo di forza, quella più rozza e generica. Ve n’è un’altra forma, più velata, ovvero la forza che minaccia di uccidere, quella che è sospesa sopra al capo degli uomini e, come la famosa spada di Damocle, potrebbe cadere da un momento all’altro, segnandone la morte. Da questa facoltà, deriva una forza ancor più originale, quella di trasformare in cosa un uomo ancora vivo, il quale continua a possedere un’anima, nonostante divenga una cosa. Nell’Iliade, per la Weil, sono presenti diversi momenti in cui un uomo ancora vivo viene tramutato in cosa.
Anche un grande re come Priamo, padrone della città di Troia, può divenire una cosa, precisamente nel momento in cui supplica Achille, dopo aver assassinato suo figlio, di restituire il cadavere di Ettore – ormai già tormentato dalle violenze achee. La visione di un vecchio re in questo stato è per la Weil simile alla visione di un cadavere.
« Entrò non visto il gran Priamo, e standogli accanto
strinse fra le sue mani i ginocchi d’Achille, baciò quella mano
tremenda, omicida, che molti figliuoli gli uccise. » (Omero, Iliade)
Coloro che supplicano, però, ritornano allo stato interamente umano nel momento in cui smettono di supplicare. Esistono invece uomini meno fortunati, costretti a questo stato di “doppia natura”. Questi uomini-cose, sottomessi dalla forza “che non ha ancora ucciso”, sono esseri così marginali che la loro presenza non influenza nemmeno le nostre azioni, poiché sappiamo che di essi ci possiamo sbarazzare in un qualsiasi momento, come se si trattasse di un semplice oggetto. La loro situazione viene definita da Simone Weil come come «una morte che dura tutta la vita; una vita che la morte congela ben prima di sopprimere» (L'Iliade o il poema della forza). Il loro stato è identificabile con la condizione dello schiavo.
Per la Weil, l’unico sentimento che questo schiavo dalla duplice natura (uomo-cosa) può provare è l’amore per il suo stesso padrone, qualsiasi altro tipo di amore gli è precluso. Egli così «perde tutta la sua vita interiore» (L'Iliade o il poema della forza). La forza, dunque, permette al potente di avere potere di vita e di morte sugli schiavi.
Come la maggior parte delle dinamiche, però, anche la forza mostra una duplice via di azione. Una via è ovviamente indirizzata a chi la subisce, e ciò comporta la cosificazione dello schiavo; l’altra via è invece subita da chi detiene la forza, e ciò è dovuta al fatto che, in realtà, essa non è detenuta da nessuno.
« È questa la natura della forza. Il suo potere di trasformare gli uomini in cose è duplice e si esplica su due fronti; essa pietrifica seppur in modo diverso sia l’animo di coloro che la subiscono sia quello di coloro che la esercitano. » (S. Weil, L'Iliade o il poema della forza)
Qualunque animo venga a contatto con la forza non può sfuggire alla cosificazione, poiché essa si scaglia tanto sullo schiavo quanto sul potente. Il “contraccolpo” subito dal potente dimostra non solo l’impossibilità di prevedere e dirigere gli effetti della forza, ma anche l’illusione di poterla controllare. Gli uomini sono dunque illusi di poter governare la forza e i suoi effetti e ne risultano doppiamente vittime. Ciò è per la Weil esemplificato, all’interno dell’Iliade, nel momento in cui ad Achille viene sottratta la donna amata, Briseide. La donna, sacerdotessa troiana figlia di Brise, gli è stata sottratta da Agamennone, per rivendicare la sua forza addirittura sopra al guerriero più vigoroso del proprio esercito: «[…] sì che tu sappia / quanto son più forte di te» (Omero, Iliade).
Un’altra caratteristica della forza è che al suo interno non v’è spazio per il pensiero. I forti, infatti, non pensano ad esempio che le loro azioni potranno ritorcersi contro loro stessi, e questo perché la forza inebria i loro animi, facendogli credere di essere gli unici detentori della forza stessa. L’uso della forza, però, viene castigato prontamente. È così che i vincitori di una battaglia vorranno ottenere dalla guerra sempre qualcosa di più, supportati da un passeggero sentimento di invincibilità causato dalla loro recente vittoria, ma il giorno seguente saranno puntualmente sconfitti e dunque puniti per la loro tracotanza. Alla fine del primo giorno, infatti, i greci possono ottenere Elena, ma ciò non gli basta più, poiché, come dice Diomede:
«I beni d’Alessandro, nessuno adesso li accetti,
né Elena; persino il più stolto comprende
che la rovina fatale ormai si compie per i Teucri. » (Omero, Iliade)
Successivamente, al secondo giorno, Ettore, sconfitti gli achei e accecato dalla volontà di eliminarli completamente, deciderà di non permettergli la fuga dalle coste, subendo così una grande sconfitta durante il terzo giorno. Questo tema del castigo dovuto all’uso della forza era ben presente sia agli autori greci e sia alla Weil, la quale, attraverso la dea Nemesi (Iliade o il poema della forza; Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale) della mitologia greca, sottolinea l’importanza di non lasciarsi corrompere dall’arroganza.
La guerra, inizialmente, viene considerata come un gioco. Il pericolo non viene provato, le vite degli avversari sono considerate insignificanti come vecchi giocattoli da malmenare e da gettare via. In queste circostanze la guerra diviene un dolce passatempo. Questo stato, però, non è destinato a durare a lungo. La durezza reale della guerra si scontra necessariamente contro le astrazioni dei guerrieri-giocatori, perché in essa si nasconde la morte. Il vago pensiero della morte viene sostituito dalla consapevolezza che essa è realmente possibile. Certo, ogni uomo è destinato a morire e può avere più o meno coscienza di questa fatalità, ma per chi è sottoposto alla guerra, il rapporto con la morte si fa molto più stretto, quasi intimo: «Per gli altri la morte è un limite imposto in anticipo al futuro; per loro è il futuro stesso, il futuro che è assegnato loro dal mestiere di soldati» (L'Iliade o il problema della forza). Un’anima in questo stato soffre quotidianamente, essa è perseguitata perennemente dall’idea di morte e ogni pensiero o aspirazione deve cedere il passo al tormento di questa idea. Allo stesso modo la guerra ha il potere di cancellare ogni idea di “scopo”, anche lo stesso scopo della guerra viene eliminato. Per questo motivo nessuno farà nulla per provocarne la fine: agli achei non basteranno più né la restituzione di Elena e né le ricchezze troiane, d’altro canto i troiani non si accontenteranno della fuga dei greci. L’anima non riesce a trovar via d’uscita a questo dramma, poiché i suoi pensieri si scontrano necessariamente con l’idea della morte.
Simone Weil nota come nelle pagine dell’Iliade siano comunque presenti alcuni momenti di liberazione dell’anima dei guerrieri, dove a prevalere è, seppur in modo effimero, il comando dell’amore. Questi brevi momenti riportano rapidamente ciò che la violenza distrugge. Ma la loro fugacità non fa altro che porre in risalto il leitmotiv dell’intera opera, ovvero l’imperio della forza e della violenza. Essa è evidenziata anche dal fatto che, dove l’opera tratta di questi rapidi momenti di amore, l’autore lascia spazio alla sua incantevole capacità poetica, mentre, nel parlare di guerra, tratta ciò con precisione e senza superflui ornamenti poetici:
« Idomeneo col bronzo spietato Erìmante nella bocca
ferì: dritta corse la lancia attraverso la bocca,
fin dentro, sotto il cervello, sfondò l’ossa bianche:
i denti schizzarono fuori, gli si riempirono entrambi
gli occhi di sangue; » (Omero, Iliade)
La brutalità della guerra non viene in alcun modo edulcorata poiché nessun uomo può in alcun modo controllare la situazione, a causa dell’azione cosificatrice della forza. Nell’Iliade infatti sono gli dei che, entro i limiti del destino, decidono le sorti delle battaglie. Si può quindi sostenere, con Simone Weil, che all’interno dell’opera di Omero sia presente un grande senso di equità, poiché vincitori e vinti sono accomunati dalla stessa amara sorte: «la subordinazione dell’animo umano alla forza, ovvero, in fin dei conti, alla materia» (L'Iliade o il poema della forza). Tutto è sottomesso all’imperio della forza e, se qualcosa se ne dovesse sottrarre, esso è amato dolorosamente, a causa dell’imminente pericolo che la forza esercita su tutti e tutto.
22 aprile 2020