Per una decostruzione critica della crisologia.
"Crisi", (dal greco κρίσις, krisis, ossia "scelta") e sostantivizzazione del verbo krino (distinguere) indicava, all'origine della sua etimologia, nella medicina ippocratica, la trasformazione decisiva che si produce in un organismo nel punto culminante di una patologia.
In epoca recente, l'uso del termine è stato esteso a significare una trasformazione decisiva che si produce in qualsiasi aspetto della vita sociale e condivisa.
In virtù di questa ricostruzione etimologica del termine abbiamo quindi la possibilità di fissare i primi concetti sui quali incardinare un ragionamento di natura crisologica: la crisi è essenzialmente una scelta o meglio, una scelta non di natura volontaria bensì richiesta, necessaria, in un preciso punto di svolta, in un momento decisivo per l'organicità di un sistema.
Tuttavia, se la crisi è svolta ad un punto e questo punto, in virtù del suo essere punto e quindi non estensione, è situato in un preciso momento, in un orizzonte esistenziale e storico, per essere tale deve essere preceduta da qualcosa, e ad altro da sé questa crisi deve condurre.
Inquadrare una crisi è appunto dare un momento alla svolta che la determina, fissarla come punto che va a definire la discontinuità di un processo, crisi come fine di un'epoca ma, allo stesso tempo, come premessa necessaria e non contingente di una successiva.
St-Simon affermava, in tal senso, che il progresso della storia è dominato da una legge generale che determina la successione di epoche organiche e di epoche critiche.
L'epoca organica è quella che riposa su un sistema di credenze ben stabilito, in un quadro di valori condivisi, che si sviluppa in conformità ad essi e progredisce nei limiti di quell'organismo sociale venutosi a creare e da esso stabiliti.
Tuttavia, in un certo momento storico, questo stesso progresso (si pensi all'accelerazione capitalista) fa mutare l'idea centrale su cui l'epoca è imperniata e determina così l'avvicendarsi di un'epoca critica.
Finché i valori condivisi in ambito di vita comune (lavoro, famiglia, diritti) reggono, le crisi storiche che si succedono sono crisi di natura congiunturale, contingenti a particolari condizioni venutesi a creare; in questo scenario la crisi è sì momento storicizzato ma non determina una scelta essenziale, una svolta che segna una rottura irreversibile con il passato che l'ha determinata.
Nel momento in cui il quadro di valori condivisi entra in crisi e le strutture sociali non reggono più la svolta critica non è più inquadrabile come possibilità bensì diviene necessità in quanto presenta carattere strutturale.
Pertanto, nello spazio e nel tempo di un cambiamento, che ha assunto i tratti della necessità, viene a determinarsi la richiesta di un gesto forte, del manifestarsi di una volontà, il muoversi in direzione di una scelta fondamentale per trovare altri quadri di valori o per recuperarne (quindi ri-trovarne) altri appartenuti ad epoche precedenti.
Cambiare o essere distrutti; questa è stata la scelta storica di ogni civiltà per migliaia di anni, il risultato di ogni crisi strutturale che ha investito le molteplici società umane.
Adattarsi a nuovi canoni, superare il momento critico, trasformando la crisi appunto in possibilità, in proiezione in direzione di un futuro pensabile e possibile.
Un periodo di crisi strutturale richiede un cambiamento profondo, un atto di superamento spesso privo di iniziali linee guida, un salto nel vuoto che non risparmia nessuno.
Non risparmia le democrazie, non risparmia il capitalismo, non risparmia il socialismo, non risparmia le strutture secolarizzate delle religioni.
L'ideale di un'epoca organica, il richiamo ad una perduta stabilità e la ricerca di una riproposizione di determinati canoni, al fine di superare la crisi (anche se, in questo caso, non sarebbe superamento né svolta decisiva ma un rifugiarsi in decisioni relegate a vecchie strutture di pensiero) si rivela essere un mito consolatorio in cui amano evadere generazioni che hanno smarrito il senso della sicurezza.
Ne è un esempio il fiorire del pensiero antimodernista, prima e più rilevante conseguenza dell'accelerazionismo che caratterizza il pensiero contemporaneo occidentale.
Pertanto, se il concetto di crisi si accompagna all'annuncio dell'avvento di una non ancora realizzata epoca organica, la nozione stessa rivela chiaramente il suo carattere di mito pragmatico, ideologico e politico, sconfinando nell'utopia vera e propria.
Così, in una postmodernità segnata dal relativismo assoluto, la crisi è divenuta parola omnicomprensiva e, per certi versi, svuotata della direzionalità che la contraddistingue (crisi come elemento che conduce da A a B), utile a giustificare (e soprattutto a celare) ogni questione di non facile interpretazione.
Dalla crisi come punto di svolta per uscire da una situazione che potremmo definire anacronistica (cioè sedimentata in canoni e valori disgiunti da quelli attualmente percepiti dalla società, quindi posti fuori dall'epoca) si è passati al mito della crisi, alla sua collocazione a feticcio identificativo della nostra contemporaneità.
Diviene quindi necessaria una nuova teoria della crisi, teorema che deve avere come punto di partenza la presa di coscienza della crisi che attraversa la crisi, del punto critico raggiunto dal termine stesso e del rischio, ora più che mai attuale, di un suo irreversibile svuotamento concettuale.
Per fare questo dobbiamo prima, però, risalire a monte: quando il concetto di crisi è entrato in crisi?
Nel momento in cui "crisi" è divenuta una parola passe-partout priva di valenza simbolica (per dirla alla Wittgenstein), strumento utilizzato per giustificare, celare e mistificare ogni questione che risulta difficile da decifrare, processo che inferisce la valenza stessa del termine.
Un processo mediante il quale si sta rendendo impossibile dirimere cosa oggettivamente è entrato in una condizione di crisi (un sistema economico, un consorzio umano, un insieme di valori condivisi) oppure se la crisi autentica è, in realtà, solo quella che ha colpito ciò che noi stessi accorpiamo sotto il termine "crisi".
Chi afferma che la crisi sia solo di natura economica non solo non ha colto il significato di crisi ma strumentalizza in modo errato (spesso di natura tendenziosamente politica e in malafede) l'approccio di una società ad un'epoca critica.
L'unica crisi ravvisabile coinvolge il concetto di crisi stesso, svuotato di ogni valenza universale per essere precipitato nel particolare o, peggio, nel banale.
La crisi della crisi.
Una crisologia stricto sensu, ovvero nella sua valenza universale e omnicomprensiva, che tenti di trovare soluzioni e un'uscita dal suo stato che, si rammenti bene, è sempre provvisorio, pena l'invalidità del termine, deve per sua stessa natura basarsi sul postulato per il quale è necessario che ogni crisi finisca e lasci spazio ad una nuova, per quanto relativa, normalità.
Una crisi che non passa, che assume caratteri endemici come quella che l'Occidente sta attraversando non è una crisi bensì la "crisi di una crisi", cioè l'incapacità non solo di arrivare a quel punto di svolta che è alla base del significato originario della parola ma anche di ricercarlo.
La crisi della crisi come accettazione della mancanza di una nuova gamma di valori condivisi, da qualsiasi latitudine umana la si guardi, rappresenta un vicolo cieco esistenziale, l'annullamento di ogni organizzazione, di ogni relazione reciproca che costituisce il nucleo dell'esistenza.
Cosa succede se ci si riduce a vivere in una "stabile provvisorietà"?
Quale orizzonte se il mutare muta in continuazione, sempre uguale e sempre diverso nel suo essere identico, perenne nel suo essere provvisorio, mai compiutamente definibile?
Per affrontare (senza però superare, si badi bene) la "crisi della crisi" è necessaria una presa di coscienza che implichi l'accettare che non è ipotizzabile al momento alcun cambiamento epocale in grado di condurre ad un nuovo assetto normativo e, allo stesso tempo, non lasciare che la vita si inaridisca nell'incertezza, aspettando una "fine" della crisi.
Un'attesa che rende penosa e inaccettabile l'esistenza, sospensione che si rivela una cura peggiore del male che vorrebbe sanare.
Chi invoca davanti ad un problema di questa complessità la già accennata soluzione economica, restringe ad una sola dimensione gli innumerevoli aspetti di un fenomeno in realtà stratificato, impedendo pertanto la reale comprensione del problema in sé e, per di più, lascia ritenere (e illudere, in particolar modo in ambito politico) che la crisi sia una questione temporanea e che possa venire a meno una volta dato un nuovo equilibrio ai sistemi economici vigenti.
Il superamento della crisi passa invece attraverso una decostruzione concettuale della crisi che abbiamo inflitto alla crisi, depurando il termine da qualsivoglia secolarizzazione, ideologizzazione, strumentalizzazione e visione aprioristica o a posteri, esercizio che può e deve avere origine da una pratica interiore, ri-partendo da un sé rivolto verso sé e non individuando sempre fuori dalla propria sfera l'origine e, allo stesso tempo, la soluzione per superare un'epoca critica.
D'altronde, la stabile provvisorietà in cui viviamo che cos'è se non smarrimento esistenziale?
1º aprile 2020