L'omelia del Papa, nel giorno della benedizione urbi et orbi, rievoca attraverso il Vangelo l'imprescindibilità della fede al cospetto della "tempesta". Ma che fede è quella che prega di "placare"? La vera fede non è piuttosto quella che si rivolge serenamente al Destino? Ma allora cosa la distingue dal sapere?
La potente immagine del pontefice Francesco I, che in una piazza san Pietro completamente deserta e ingrigita dalla pioggia battente sostiene urbi et orbi e con forza la potenza del messaggio evangelico, ha già il peso di un evento storico. E, certamente, il diffondersi rapido della pandemia sta colorando di storico molti degli eventi che in questo frangente vanno concretizzandosi. Se consideriamo che il cattolicesimo è l’unica grande forza della tradizione della nostra civiltà che ancora ritiene che esista la verità assoluta – quella cattolica appunto – la storicità dell’immagine pietrina assume sfumature ancor più rilevanti.
Potente è anche il testo evangelico scelto per comunicare ai cattolici, ma anche a chiunque in questo particolare momento è in cerca di certezze, che è necessario – al di là della tragedia che l’umanità sta vivendo, al di là del dolore e del terrore che gli individui provano di fronte alla minaccia concreta della morte – “abbracciare la speranza”, che è necessaria “la forza della fede” che ci “libera dalla paura” e tutto questo non perché l’uomo Bergoglio ha questa personale prospettiva, ma perché questa è la verità assoluta in cui si riconoscono i cattolici. Il testo scelto, contenuto nel capitolo 4 versi 35-41 del Vangelo di Marco, esordisce con "ὀψίας γενομένης", che traduciamo con “venuta la sera”. La “sera” non è solo un evento semplicemente temporale, ma rappresenta la venuta del negativo, il disorientamento tragico della vita di ognuno quando non c’è più la luce della verità a sostenerci. Infatti l’evangelista Marco usa questa stessa espressione del “calar delle tenebre” sempre in un contesto negativo (cfr. Mc 1,32; 4,35; 6,47; 14,17; 15,42).
Nel prosieguo del racconto evangelico, mentre Gesù e i discepoli sono in viaggio per raggiungere in barca “l’altra riva”, scoppia “una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena”. La “sera” con le sue tenebre dell’inizio del passo evangelico si fa sempre più oscura e diventa “λαῖλαψ μεγάλη ἀνέμου”, una grande tempesta di vento, metafora delle avversità, del dolore e della morte a cui ogni esistenza va incontro inevitabilmente.
Noi siamo gli uomini sulla barca che sta per affondare, travolta dalla tempesta del divenire e della contingenza della vita, che fa affiorare continuamente pericoli, minacce, sofferenze e – da ultimo – la morte. E questo Francesco I lo mette bene in evidenza: “ci siamo ritrovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati”. I discepoli di Gesù hanno paura, poiché la morte sta per travolgerli e distruggerli. È Gesù stesso che lo dice dopo aver sedato la tempesta: “perché avete paura?”. Nel testo evangelico nessuno risponde direttamente a questa domanda, perché è una domanda la cui risposta è ovvia per tutti, per i discepoli come per noi: la morte è la grande distruzione, è ciò al cui passaggio non rimane più nulla, è il momento in cui “ciò che è” – il non-nulla – diventa nulla. Ed è proprio per questo che l’uomo, al tempo di Gesù come ora, è terrorizzato dalla morte e dal dolore come battistrada della morte, che distrugge tutto, lasciando solo il nulla. Una risposta indiretta a questa domanda la troviamo anche nel testo evangelico, prima che Gesù placasse la tempesta quando i discepoli “lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che noi moriamo?”. Il testo originale greco suona “ἀπολλύμεθα”, dal verbo “ἀπολλύμι”, che significa “rovinare”, “perire”, “distruggere” che a sua volta è costruito sul verbo “ολλύμι” con il significato di “abbattere”, “uccidere”, “morire”, “perire”, “essere ucciso”. Nella versione latina del passo evangelico troviamo perimus, anch’esso con il significato di “morire”, “andare in rovina”, “distruggersi”. Il senso delle parole dei discepoli è evidente. Temono la distruzione che la morte rappresenta.
I discepoli sono angosciati perché avvertono che stanno per morire, perdendo tutto. E l’angoscia dei discepoli sulla barca travolta dalla tempesta è la stessa angoscia che ogni uomo prova al cospetto della minaccia annientante della morte, che in questo frangente storico è incarnata dalla pandemia, ma che da sempre ha dominato la scena storica; non sono mai mancate guerre, pestilenze, carestie e dolore di ogni sorta nelle vicende umane in ogni latitudine e in ogni tempo.
Per il cattolicesimo è la fede che salva dalla morte e dalla sua potenza distruttiva. Nel testo evangelico citato dal pontefice, infatti, Gesù “rimproverò il vento e disse al mare: ‘Calmati!’ Il vento cessò, e subito ci fu una gran calma”, il testo latino suona solennemente “et facta est tranquillitas magna”. La tempesta, simbolo della morte, non prevale per chi ha fede in Gesù. Ed è di nuovo Francesco I ad indicare il significato di questo passo perché “come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai”.
Gesù risorge dalla morte e vive in eterno così come vive in eterno chi ha fede in lui, sconfiggendo la morte “perché con Dio la vita non muore mai” e nessuna angoscia, nessuna tempesta, nessuna pandemia potranno mai turbare chi ha fede. E Gesù stesso che lo ricorda quando, rivolgendosi ai discepoli angosciati per l’avvicinarsi della morte, dice loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Chi ha fede, infatti, non teme nulla.
Ma che fede è la fede di cui parla Gesù? Di certo non è la fede di chi si rivolge a dio – prega – per chiedergli di far accadere ciò che vuole che accada. Questo genere di credente, infatti, sospetta che ciò che accade, qualunque siano gli eventi che accadono, non sia il frutto della volontà di dio e chiede a dio di modificare tale volontà per far sì che accada ciò che la volontà del credente vuole che accada. Questo credente non crede, non ha fede in dio, poiché “in cuor suo” dubita dell’operato di dio e lo prega affinché dio modifichi la propria volontà. Un credente siffatto è un non-credente, poiché dubita della volontà di dio. Da ultimo ritiene che dio stia sbagliando e lo prega di cessare di essere in errore, facendo sì che accada non ciò che dio vuole che accada, ma ciò che egli prega che accada.
Anche se non è l’aspetto decisivo di ciò che stiamo cercando di portare alla luce, vale la pena richiamare l’attenzione su un passaggio delle parole del pontefice, in cui sostiene che “la forza di Dio” sta nel “volgere al bene ciò che ci capita, anche le cose brutte”. E “le cose brutte” sono proprio quelle che i credenti vorrebbero che non accadessero: il dolore, la sofferenza e, oggi, la pandemia, che tante vite sta mietendo e che fa sentire gli uomini come i discepoli sulla barca durante la tempesta. Per un credente, tuttavia, le cose – anche quelle brutte – non possono essere qualcosa “che ci capita”. Il “capitare” è verbo pericolosissimo per un credente, poiché indica il “giungere per caso” delle cose e degli eventi e, se esiste dio, nulla accade per caso, nulla giunge sul “capo” di un uomo per il frutto del caso, ma tutto è e deve essere frutto della volontà di dio. Le parole di Francesco I, invece, sembrano – per usare un eufemismo – andare nella direzione opposta, quasi che ci fosse da un lato il “caso” cui imputare l’accadere delle “cose brutte” e dall’altro “Dio” che, lottando contro il “caso”, riesce a “volgere al bene tutto quello che ci capita”. Questo dio non può essere dio, poiché la sua volontà e la sua potenza sarebbero limitate dal “caso”. E chiunque creda in un dio siffatto non è un credente.
Tornando ora alla questione centrale sull’essenza della fede di cui parla Gesù è importante riascoltare le sue parole: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Chi non ha fede, ha paura e, tra l’altro, proprio per questo prega da non-credente come sopra mostrato. E, sempre nel Vangelo di Marco, le parole di Gesù chiariscono ulteriormente il senso e l’essenza della fede: “Abbiate fede in Dio! In verità io vi dico che chi dirà a questo monte: ‘Togliti di là e gettati nel mare’, se non dubita in cuor suo, ma crede che quel che dice avverrà, gli sarà fatto” (Mc 11, 22-23). La fede di cui parla Gesù è la fede che sposta le montagne o, come nel caso precedente, placa la tempesta “et facta est tranquillitas magna”.
La fede di cui parla Gesù, tuttavia, è qualcosa di estremamente problematico. Il credere che “non dubita in cuor suo” è – almeno a prima vista – impossibile, un assurdo, un cerchio quadrato. Credere significa essere convinti di qualcosa, nonostante i dubbi. Non è necessario credere in ciò che è oggetto di sapere, dove “sapere” indica la dimensione che è in grado di eliminare qualunque dubbio, l’indubitabile. L’essenza stessa della fede perderebbe di senso se fosse un “sapere indubitabile”, poiché non sarebbe necessario credere in ciò rispetto a cui è impossibile il costituirsi dei dubbi. È lo stesso Paolo, infatti, che definisce la fede come argumentum non apparentium (Eb 11, 1). La fede è ciò che dà consistenza di verità (argumentum, ἔλεγχος) a ciò che di per sé non ha verità in quanto non è manifesto (non apparentium, οὐ βλεπομένων). Semplicemente io posso avere solo fede che domani esisterò, poiché il mio esistere nel futuro non è manifesto, non appare e quindi non è vero di per sé, ma solo perché io lo credo vero, nonostante possa dubitarne. Al contrario, che io esista qui ed ora è qualcosa di manifesto – e, quindi, indubitabile – che non necessità di essere creduto. Anche se meriterebbe un approfondimento, dovrebbe risultare semplice comprendere che un’ampia serie di “verità” cattoliche non possono essere oggetto di “sapere indubitabile”, ma di fede: l’esistenza di dio, la resurrezione, l’esistenza dell’anima, la creazione del mondo sono alcuni degli esempi di affermazioni che la fede crede vere, ma di cui si può dubitare, come si può dubitare del fatto che “domani esisterò”.
Se così stanno le cose è impossibile che chi ha fede “non dubita in cuor suo” come chiede Gesù, poiché avere fede è lo stesso che dubitare di ciò in cui si ha fede.
Ma Gesù intendeva ciò che i testi evangelici e la tradizione cristiana prima e il cattolicesimo poi sostengono? Non lo “sapremo” mai al di là di ogni dubbio, ma, forse, chi “non dubita in cuor suo” è colui che non ha paura di ciò che accadrà, poiché sa che ciò che accadrà è ciò che deve necessariamente accadere, “cose brutte” comprese e che – come Gesù che durante la tempesta “se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva” tranquillo – non prega che le cose vadano secondo la sua volontà, ma chiede che “sia fatta la Tua volontà” e non lascia che l’angoscia per la pandemia lo travolga come l’angoscia per la tempesta travolse i discepoli, a cui Gesù rivolse queste misteriose parole, che ci indicano qualcosa del mistero delle cose che non appaiono (non apparentium), ma non lasciano che il mistero si dissolva completamente.
11 aprile 2020
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