Cogliamo l'occasione della giornata di festa per riprendere un tema scottante come il femminismo. Se il 25 aprile non è una ricorrenza, ma un punto di svolta che metteva in campo specifici ideali, è bene riattivarne la potenza effettiva.
« Una ragazza di ventun anni, un’operaia si offrì di entrare nella fabbrica per dare ai tedeschi un ultimatum: non facciano saltare né incendino lo stabile – questo significherebbe rovina per tutte le case intorno, ma se ne vadano senza camion né cuoio; avranno salva la vita. » [1]
Così comincia la difesa di una fabbrica di scarpe militari nel quartiere di Materdei: col gesto lucido e coraggioso di una giovane donna. All’azione contro i tedeschi aveva partecipato con tutta se stessa, sparando e distribuendo munizioni, fino all’esito vittorioso. Ma non era abbastanza: dopo l’intensa guerriglia, si lanciò in una corsa a perdifiato lungo i vicoli di Napoli per ricongiungersi ai partigiani sul ponte della Sanità. Maddalena Cerasuolo, medaglia al valore, si unì così ai combattimenti rimasti nella storia con il nome di “quattro giornate di Napoli”, nel settembre del 1943. È soltanto uno fra gli innumerevoli episodi che testimoniano lo spirito combattivo di quelle donne che sino a quel momento, e specialmente in tempo di Regime, erano considerate quasi elementi accessori alla vita dell’uomo. L’uomo era colui che, sguardo all’universale, cambiava il mondo; al suo fianco, la donna lo ritemprava con le cure domestiche. Anche quando la sua azione era rivolta alla comunità, la donna non era che ausiliaria, come a estendere il compito domestico su larga scala, a coprire l’intero perimetro della “nazione”. La spontanea – prima – e organizzata – poi – resistenza al fascismo era resistenza anche alla comune concezione della natura femminile.
Nel 1943 nacquero i Gruppi di Difesa della Donna, su iniziativa congiunta dei partiti comunista, socialista e d’Azione. Con essi le donne erano ufficialmente inquadrate e riconosciute nelle milizie antifasciste. Completamente femminili, i loro distaccamenti erano presieduti solo da donne, e avevano compiti analoghi e complementari a quelli delle organizzazioni sorelle di matrice maschile. Si occupavano di organizzare gli scioperi femminili, in città e nelle fabbriche; impedivano gli arresti e le deportazioni; attaccavano e occupavano le sedi dei tedeschi, ne sequestravano i depositi alimentari e ne distribuivano il bottino, a incalzare il duro razionamento che gli occupanti avevano imposto alla popolazione.
In ogni tempo e ogni luogo, in tempo di Resistenza, le donne si sono fatte avanti spontaneamente, contro l’oppressione militare e culturale. Si pensi di passaggio al caso di Haydée Santamarìa, ribelle cubana catturata e torturata dagli scagnozzi di Bátista. Quando l’aguzzino, per farla parlare, le disse che al fratello era stato cavato un occhio, rispose: «Se voi gli avete strappato un occhio e lui non ha parlato, io starò zitta più di lui» [2]. Un po’ più indietro nel tempo, ricordiamo le bustaie di Limoges che, nel 1895, «scioperarono per 108 giorni» e le sorelle, «operaie delle cartiere di Guerche, per 130 giorni in lotta, in un’epoca in cui non esisteva copertura sociale» [3].
Suona forse un po’ ridicolo dover rimarcare la portata di questi eventi, che sono la prassi. A partire dagli anni ’10 del secolo scorso, il femminismo si imponeva all’interno dei partiti marxisti. Clara Zetkin, Rosa Luxemburg, Alexandra Kollontaj, si fecero grandi ispiratrici e promotrici delle istanze femminili, in un contesto proletario non sempre disposto ad accoglierle. E qui sta il punto. Il punto è che nonostante tutto, nonostante ci sia grande positività nel commemorare le vicende di guerra o guerriglia che hanno per protagoniste le donne, la reticenza maschile è ancora forte, persino in ambenti che si definiscono comunisti. L’eroismo appaga, ma la dimensione quotidiana che ne segue talvolta è asfissiante. Passata la sbornia collettiva si riprende, daccapo, la vecchia idea. Ne è peraltro interessante testimonianza il breve articolo dell'Internazionale, pubblicato lo scorso 25 aprile.
Non chiudiamo i giochi, non trinceriamoci dietro l’eroismo delle grandi occasioni per sigillare la questione sino alla prossima ricorrenza. Moltiplichiamo le voci e voi, compagni, mettetevi all’ascolto: solo così la barriera sarà infranta.
Di nuovo
Il mondo
È ricoperto di fiori
E ha l’aspetto
Della primavera.
Di nuovo
Si pone
Una questione irrisolta:
Le donne
E l’amore.
Amiamo le parate,
E le belle canzoni.
Parliamo bene,
Andando al comizio.
Ma spesso,
Dietro a ciò,
Ricoperto di muffa,
C’è l’antico tran-tran quotidiano.
Canta alla riunione:
«Avanti, compagni...».
Ma a casa,
Dimentico dell’assolo,
Urla contro la moglie,
Che i cavoli non sono
Al primo brodo
E i cetrioli
Sono salati male.
Vive con un’altra
Larga come un chiosco,
Ma che ha la biancheria
D’una diva di café-chantant.
Però rimprovera alla moglie
Le calze sottili:
«Mi comprometti
davanti al collettivo».
[...]
Bisogna
Legare
La vita dell’uomo e della donna
Con la parola
Che ci unisce:
«Compagni».
(Majakovskij, Amore)
NOTE
[1] Cfr. Ilaria Rossini (a cura di), Un fiore che non muore. La voce delle donne nella Resistenza italiana, Red Star Press, Roma 2014.
[2] F. Castro, Il libretto rosso di Cuba, Red Star Press, Roma 2013, p. 66.
[3] C. Arruzza, L. Cirillo, Storia delle storie del femminismo, Edizioni Alegre, Roma 2019. p. 68.
25 aprile 2020