Il Prof. Roberto Mordacci spiega la sua sfida al postmoderno, affrontata nel libro La condizione neomoderna.
Roberto Mordacci insegna filosofia morale all’Università Vita-Salute San Raffaele, dove è preside della facoltà di filosofia. La presente intervista riguarda il testo La condizione neomoderna (Einaudi), un breve libro in cui, ad una critica storica e teoretica del postmoderno, segue l’apertura verso una nuova prospettiva: il neomoderno.
Superare il postmoderno: una necessità razionale o storica?
Il postmoderno è da superare primariamente per motivi storici. La diagnosi postmoderna, che è servita a descrivere una certa situazione storica, non è più sufficiente. Non possiamo più permetterci il disincanto postmoderno. Col ventunesimo secolo la globalizzazione ci è ormai entrata in casa e diventa impossibile evitare le sfide che comporta. Dal punto di vista teoretico, il postmoderno va superato perché è uno scetticismo che si autoconfuta, in quanto, nel criticare la ragione moderna in nome dell’insolubilità delle contraddizioni, si rifà in realtà ad un concetto di contraddizione che è tipicamente moderno.
Cosa possiamo “prendere” del postmodernismo?
Possiamo prendere la critica della “seconda modernità”, individuabile in idealismo e positivismo, e dunque alla costruzione di sistemi che pretendono di esaurire la realtà al proprio interno. Il postmodernismo è un movimento antisistematico che rivendica l’individualità, la non-esauribilità della ricerca e dunque la necessità di scardinare lo spirito di sistema, il voler ricondurre il tutto l’intero ad una sola dimensione; da questo punto di vista è preziosissimo. Il moderno, però, non nasce con una pretesa di assolutezza. Cartesio non vuole costruire un sistema assoluto, unico, definitivo, ma cerca di trovare un criterio per muoversi a tentoni nella vastità del sapere. Contemporaneamente a Cartesio ci sono altri autori che utilizzano altri criteri, come Montaigne, Leibniz o Spinoza. La modernità ha prodotto una pluralità di criteri per il vaglio critico del sapere. Pensare di ricondurre la modernità a uno spirito di sistema che nascerebbe con Cartesio e si completerebbe con Hegel mi pare una semplificazione troppo grossolana.
Il neomoderno sarà dunque non-sistematico?
Il neomoderno è difficile da descrivere, perché da un lato è una situazione che io sento, intuisco, e dall’altro è, invece, un auspicio. Auspico che lo spirito di ricerca critica e di fede nella possibilità di costruzioni parziali del sapere riprenda la sua strada e abbandoni, invece, la sfiducia nella verità, nella storia, nel futuro. Tuttavia, non volendo più ripercorrere gli errori dell’assolutismo della seconda modernità, dobbiamo optare per un carattere che è effettivamente piuttosto frammentario. Il neomoderno è un insieme di frammenti accomunati solo dall’esercizio rigoroso di una critica costruttiva, che cerchi di rilevare le tensioni ma cerchi anche di costruire ambiti del sapere che funzionino. Il neomoderno parte dalla consapevolezza che radunare il sapere intorno ad un principio unico di verità non è così facile e neppure raccomandabile, per cui è preferibile che gli ambiti di ricerca si parlino, riconoscendo che esiste una pluralità di conoscenze che si intrecciano, anziché costituire un'unica grande narrazione.
Andiamo “dietro” il pensiero postmoderno. Lei scrive che tra gli anni ’80 e ’90 c’è stata la volontà di diagnosticare la fine della filosofia, della storia, dell’Occidente. Cosa pensa abbia determinato questa volontà?
Io credo ci siano due “linee” da seguire. Una è la linea “nostalgica”, che ha avuto inizio tra fine ‘800 e inizio ‘900 e segue Nietzsche sul versante nostalgico-conservatore. Dietro questa linea c’era l’insoddisfazione nei confronti della proposta moderna di fondare il sapere su se stesso, senza riferimenti a principi metafisici o teologici. Si tratta di respingere la modernità in quanto progetto guidato dalla hybris, a favore di una lettura nostalgica, che guarda al sapere medievale o addirittura a un sapere prerazionale, rifiutando la razionalità e la scienza e gettandosi in un rinnovato dogmatismo prefilosofico. Dal punto di vista sociologico, questa è la linea che rischia di emergere anche adesso, con tribalismi e nostalgie di varia natura. A questo primo approccio ha dato una mano un'altra “linea”, proveniente da sinistra, che inizia grossomodo con Adorno e Horkheimer, i quali, con le migliori intenzioni, hanno sposato la tesi antimoderna del “tramonto dell’Occidente”, disfacendosi anche di tutto l’armamentario teorico moderno relativo alla ragione pratica, alla ragione politica. L’agognata unità di natura e soggetto, che si sarebbe infranta già con l’Odissea, è in realtà anch’esso un principio arcaico, prerazionale e premoderna, per cui anche questa interpretazione sfocia in un atteggiamento nostalgico. La stessa denuncia delle storture generate a livello economico e sociale diventa una denuncia senza speranza: si finisce con l’affermare che nella modernità non ci siano risorse per riuscire in un processo rivoluzionario o comunque emancipativo. Non è un caso che gli elettori che prima votavano a sinistra ora votino i partiti di estrema destra: questo tipo di cultura ha spento la speranza di un reale progresso.
Il tema del capitalismo e, in generale, dell’economia, emerge spesso nel suo libro. Scrive: “Esclusa la fiducia in un qualunque progetto sociale e in ogni istanza di giustizia, l’assolutizzazione del profitto a breve termine, iniziata nel momento di massimo fulgore del postmoderno, cioè gli anni Ottanta del Novecento, è stata legittimata tanto nella coscienza comune quanto negli ambienti finanziari”. Oltre al personaggio dell’integralista ideologizzato, trattato a fondo nel testo, come dovrà rapportarsi il neomoderno con l’individualismo edonista puro, tutto teso al profitto del singolo?
Individualismo e l’edonismo non sono necessariamente connessi. La modernità pensa a partire dall’individuo: l’accesso alla verità, ammesso che sia possibile, inizia dal soggetto e non da dogmi esterni. Da un punto di vista conoscitivo l’individuo è di certo l’asse cartesiano di riferimento della modernità, e dal punto di vista politico l’individuo viene considerato in sé e per sé, astraendolo dall’appartenenza ad una qualsiasi comunità. Si tratta di un individualismo metodologico, sotteso a tutta la tradizione liberale, anche nelle sue evoluzioni più recenti. In John Rawls, gli individui che pattuiscono i principi di giustizia nella posizione originaria sono atomi, non appartengono ad alcuna comunità. A questa posizione si oppone quella dei comunitaristi, i quali sostengono che le relazioni politiche presuppongano l’appartenenza alle varie comunità, altrimenti lo Stato liberale rischierebbe di “perdere”, di “non riconoscere” i propri cittadini. L’approccio comunitaristico, tuttavia, ha difficoltà a relazionarsi con la complessità degli Stati contemporanei, che non sono agglomerati di comunità. Tutto sommato, l’individualismo liberale presenta, secondo me, più vantaggi, in quanto non comporta necessariamente l’impossibilità di riconoscere i diritti delle comunità. La questione dell’individuo non ha a che fare sistematicamente con l’edonismo. L’individuo privo di relazioni, unito all’idea che il piacere sia l’unico bene, genera l’egoismo. La rappresentazione dell’uomo come essere puramente egoista, tuttavia, è semplicemente falsa, come ci testimoniano anche le scienze cognitive: le persone stanno sempre in una relazione complessa col mondo e con gli altri, in maniera tale per cui, ad esempio, il giudizio e il benessere degli altri non sono mai indifferenti al soggetto. In ogni caso nessuno nega il piacere, nemmeno la tradizione, anche se gli autori della tradizione (Aristotele, Tommaso, Kant…) ci ricordano che il piacere non esaurisce la vita morale proprio perché l’individuo è contraddistinto da una pluralità dei desideri, di cui il piacere tout court non è l’unico. C’è una dimensione di interesse verso l’azione rispetto alla quale ci interessa essere persone libere ed eguali, e ciò non è riconducibile al piacere.
Lei si è occupato spesso del tema dell’utopia, argomento del suo ultimo libro (“Ritorno a Utopia”, Laterza). L’utopia, anche per il lascito che ha avuto il marxismo, è spesso ricondotta all’economia. In questo senso, pensa che l’utopia sia sufficiente? O è forse necessario un approccio più scientifico, come quello che ai tempi ha provato a proporre lo stesso Marx proprio nel tentativo di superare gli utopismi?
L’utopia non è un insieme di risposte. È un metodo con cui provare a pensare le questioni politiche. È il metodo dell’immaginazione, il provare a proiettarsi in una società giusta e felice prima di conoscerne i principi fondanti. È una risorsa fondamentale che abbiamo un po’ dimenticato e che ha moltissimo da dare, anche dal punto di vista politico. Oggi è più difficile pensare di poter stabilire scientificamente i principi della società e dedurre così gli sviluppi della stessa, che poi è il programma marxiano. La filosofia della storia marxiana è crollata, come dice Axel Honneth nel libro L’idea di socialismo: un sogno necessario, a causa dell’accettazione acritica della filosofia della storia di Hegel, per la quale gli sviluppi della storia sarebbero sviluppi necessari, dettati dalla logica. La società capitalistica è riuscita a generare nelle persone dei progetti di vita assolutamente conciliabili con la persistenza del capitalismo. Ora, tuttavia, abbiamo sviluppato un insieme di esigenze che non sono più inscrivibili in un semplice sistema di mercato radicalizzato: l’esigenza ambientale, che esime dal profitto; l’esigenza di giustizia su scala globale, della quale ci fanno accorgere i movimenti migratori, i quali dureranno finché non si prenderà sul serio la questione della globalizzazione; la rivoluzione digitale, che ha in sé logiche non solo di profitto ma anche di conoscenza e di controllo dell’informazione; il versante tecnologico in senso stretto, cioè l’industria 4.0. In particolare, sull’ultimo tema assisteremo a una battaglia decisiva, in quanto la logica capitalistica dell’imprenditore “spudorato” porterebbe alla totale escissione di tutti i dipendenti. Se, come ora, chi ha i mezzi di produzione usa la forza lavoro per produrre, siccome a breve non ci sarà bisogno di personale se non di pochi controllori molto qualificati, senza un ripensamento radicale l’intera vita sociale sarà insostenibile, con milioni di lavoratori che non accedono mai al mercato del lavoro a causa dell’automazione. Se le macchine restano proprietà di chi ha i mezzi di produzione, il sistema esplode. Per uscire da ciò bisognerà ripensare in radice la questione dei mezzi di produzione. Il pensiero per cui i mezzi di produzione non debbano essere di proprietà di qualcuno ma un bene comune è già un pensiero utopico. Il metodo utopico è proiettarsi un mondo in cui l’automatizzazione ha realizzato un’emancipazione da ogni tipo di lavoro che non sia deliberatamente scelto. Avremo dunque del nuovo tempo libero, un tempo che non si può pensare esclusivamente in termini di “tempo libero del consumo”, ma come il tempo della specifica attività umana, non di produrre ma di vivere. Lo sviluppo tecnologico ci sta dicendo è una condizione del genere è teoricamente possibile, ma è davvero possibile solo se la società cambia. Il pensiero utopico ci proietta in un mondo in cui un processo del genere è già accaduto e a noi tocca immaginare su che principi funzionerebbe, anziché provare a dedurli da una scienza sociale o da principi morali o metafisici.
Lei ha parlato, sia qui che nel suo testo, della rivoluzione digitale e della post-verità. Si dichiarerebbe a favore di un controllo delle informazioni?
Non a favore di un controllo centrale autocratico ma del controllo che c’è nelle discipline scientifiche e anche umanistiche, operato da una comunità competente di riferimento. È dunque un controllo “distribuito” nelle comunità di riferimento, non centralizzato. Queste comunità non sono composte da “esperti”, che è una parola tecnocratica: ci sono invece studiosi. Lo studioso è colui che non sa nulla della novità, come nell’attuale caso del nuovo Covid-19, e tuttavia ha la formazione necessaria ad affrontare l’argomento. Nessuna casta di esperti ma comunità di studiosi che, confrontandosi tra di loro, ci forniscono risultati credibili.
Parliamo di neomoderno. Lei scrive “Senza questo senso della storia, cioè l’idea di una direzione verso cui vogliamo e dobbiamo andare in quanto esseri umani, ogni azione morale, sociale e politica non può che apparirci vana”. Che ruolo giocherà la volontà nel mondo neomoderno?
La volontà è stata in generale denigrata: è stato detto che non è libera, è stata ridotta a passione, è stata denunciata di essere tracotanza. Per essere neomoderni dobbiamo reimparare a volere. La chiave di volta a cui richiamavano sia Kant che Nietzsche – il quale denunciava, non auspicava il nichilismo – è il problema della volontà. Dobbiamo chiederci cosa significa volere, il che significa porci nella posizione di coloro che possono volere e che devono volere razionalmente, ragionevolmente. Non possiamo pensare che non sia possibile volere razionalmente: la volontà razionale esiste. L’alternativa è il tribalismo, l’irrazionalismo della volontà cieca, come, tra l’altro, è già successo nel Novecento.
Giusto recuperare la razionalità e il dialogo razionale, ma il fine del dialogo dovrà essere la verità o l’accordo?
L’accordo nella ricerca della verità. Nessuno possiede la verità in via definitiva e tuttavia essa è accessibile a tutti, sempre con la consapevolezza che si può essere smentiti. L’idea di considerare una verità tale fino a prova contraria è un’idea tipicamente moderna. Non si tratta di un possesso personale ma di un dialogo. Il consenso non stabilisce la verità dei contenuti, ma è il segnale per ritenerli credibili. L’aspetto essenziale del moderno è l’antidogmatismo: nessuna verità è un possesso definitivo e assoluto. La verità è quel tipo di contenuto che sopravvive al confronto serrato delle ragioni; la modernità è consapevole che la verità è mobile ed è raggiungibile nella sua mobilità.
Un altro tema importante nel suo testo è quello dell’Europa, oggetto in questo momento di accesi dibattiti. In particolare, al di là dei popoli, abbiamo assistito a una divisione tra le classi politiche dei vari paesi su come affrontare l’attuale emergenza, una divisione che vede contrapporsi, tra l’altro, la Germania e l’Olanda a Italia, Spagna e Francia. Questi schieramenti fanno ricordare il pensiero di Alexandre Kojève, filosofo e alto funzionario dello Stato francese, il quale non credeva nel progetto europeo a causa di un’eccessiva disomogeneità tra la cultura cattolica di quello che chiamava “l’impero latino”, ossia Spagna-Francia-Italia, e di cui auspicava la realizzazione, e i paesi protestanti, come appunto la Germania. Visti gli attuali contrasti e il pensiero di Kojève, possiamo credere nell’effettiva omogeneità dell’Europa?
Credo che nessuno, nemmeno i più animosi federalisti, abbiano mai pensato che l’Europa sia omogenea. L’Europa non è omogenea, il che è la sua ricchezza. L’esperimento, di cui non conosciamo gli esiti, di costruire un’entità che non rinunci all’efficienza di uno Stato pur non dimenticando le differenze, si fonda su queste ultime. L’Europa non è un impero, come dicono Kojève o Ulrich Beck. La parola “impero” ha senso quando si assiste a molte nazioni tenute insieme da una forza superiore di tipo anche militare; l’Unione Europea non è un impero né vuole esserlo, bensì vuole essere un’armonizzazione di culture diverse che di fronte a problemi comuni provano a reagire. Il problema è che tutto ciò non sta accadendo. Gli Stati nazionali, i governi, più ancora che le popolazioni, si sottraggono all’azione comune. Il comportamento di questi giorni dell’Olanda è, da questo punto di vista, incomprensibile. Quella che stiamo vivendo è la sfida definitiva per l’Europa: se si fallisce su questo si tornerà ad uno stato pre-bellico. Vedo, però, segnali anche nell’altra direzione: la BCE ha immesso una gran quantità di denaro nell’economia e la Commissione Europea ha permesso la sospensione di vincoli di bilancio. È l’Eurogruppo che sta fallendo, è lì che prevalgono le logiche nazionali. Se fallisce questo grande progetto, a fallire è innanzitutto la capacità degli stati nazionali di trovare un accordo. O si supera davvero la logica degli stati nazionali o il progetto europeo crollerà.
17 aprile 2020
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