Che significato possiede la responsabilità? Quali apporti può dare la filosofia alla comprensione di questo concetto? Una riflessione che vuole essere un inizio per ritornare ad interrogare la responsabilità come via maestra alla comprensione della realtà.
di Federico Tinnirello
Uno dei temi su cui oggi non ci si interroga più profondamente è quello della responsabilità dei nostri atti e, in particolar modo, sulla responsabilità che le parole possiedono.
Ma, è necessario domandarsi se le parole hanno una qualche forma di responsabilità? Evidentemente sì, se nella nostra epoca storica, si parla senza tenere conto del peso e della centralità delle proprie parole e, di conseguenza, delle proprie idee. Le nostre parole, ciò che noi pronunciamo, sono i segni veicolari dei nostri pensieri, della nostra concettualizzazione del mondo; e sono, anche, il nostro unico modo di interpretare noi stessi di fronte la realtà. Il parlare come il pronunciare fonicamente, in cui prendono corpo le nostre idee, prevede una presa di posizione chiara e definita di fronte ciò che accade nel mondo. Noi, difatti, prendiamo posizione su ciò che accade solo con le parole, ed è a queste parole che affidiamo ciò che noi stessi siamo, ovvero la nostra responsabilità per come il mondo si in-forma. Heidegger, nel suo Il concetto di tempo, esprime chiaramente la coappartenenza fra le parole e l’essere umano.
« il modo fondamentale dell’esserci (Dasein) del mondo, l’avere qui il mondo l’uno con l’altro è il parlare (Sprechen). […] l’essere-nel-mondo di un uomo si svolge prevalentemente nel parlare. […] nel modo in cui l’esserci parla, nel suo mondo, nel suo avere a che fare con esso, è implicita un’autointerpretazione dell’esserci. Essa ci dice come l’essere di volta in volta si comprende. »
Il testo di Heidegger è molto importante, e nonostante il suo intento fosse quello di esporre i caratteri fondanti della sua nuova filosofia, esso si rivela a noi in un significato del tutto nuovo e attuale. Non possiamo pensare di pronunciare qualcosa, di parlare di un evento, di un fatto politico o di esprimere giudizi, e non prenderci la responsabilità su ciò che le nostre parole dicono o esprimono. Noi quando parliamo lo facciamo – sempre – sul mondo, sugli altri, sulle azioni che vengono compiute e tutto questo sorge da dei criteri che possediamo e che derivano da quella «autointerpretazione dell’esserci» di cui parla Heidegger.
Ma la mancata presenza della responsabilità, soprattutto nella nostra quotidianità, ha origini più antiche e risiede in delle condizioni intellettuali/filosofiche che hanno determinato il nostro modo più proprio di pensare la questione della responsabilità. Che cosa significa essere responsabili? Significa non avere percezione della differenza fra ciò che si dice e ciò che si fa, quella che, notoriamente, viene chiamata la differenza fra teoria e prassi.
Considerando alcuni esempi: stare dietro una tastiera di un computer scrivendo insulti razzisti senza doverne rendere conto intellettualmente, farsi portatori di principi ferrei e determinati per poi disattenderli nelle proprie azioni quotidiane o eseguire degli ordini senza adoperare il proprio pensiero critico. Riguardo quest’ultimo punto sono fondamentali, come monito, le parole di Hannah Arendt:
« Ma un passo del genere gli era sempre parso “inammissibile”, e neppure ora gli sembrava “ammirevole”; avrebbe significato soltanto il passaggio a un altro lavoro ben remunerato. L’idea della disobbedienza aperta, nata dopo la guerra, era a suo avviso una favola: “In quelle circostanze, comportarsi in quel modo era impossibile. Nessuno lo fece”. Era una cosa “impensabile”. » (H. Arendt, La banalità del male)
Questi sono esempi dell’oblio verso cui ci conduce la presenza di una differenza fra teoria e prassi, differenza su cui si è radicato l’intero pensiero europeo, e che ha consentito ad importanti intellettuali come Marx e Sartre di accusare, il primo, le filosofie speculative come l’idealismo e, il secondo, lo scrittore Flaubert di non agire direttamente sulla realtà, ma di limitarsi ad interpretarla per poi rinchiudersi nei loro salotti ben riscaldati.
La questione della responsabilità dei propri atti e delle proprie parole ha bisogno di un radicale ripensamento della questione della teoria e della prassi, oltre che un tentativo di riforma dello stesso comportamento intellettuale da parte di tutti noi.
Forse, anzi sicuramente, ha ragione lo stesso Heidegger, quando afferma, nell’opera Che cosa significa pensare?, che si è «per secoli troppo agito e poco pensato», non solo per la mancanza di cautela che guida le nostre azioni e i nostri pensieri, ma anche per la preminenza e l’esclusività che il nostro pensare ha dato all’azione come ciò che dà forma precisa alla nostra società.
È necessario, quindi, ripensare il nesso fra teoria e prassi, nel modo in cui già nel pensiero, già nelle nostre parole scritte su dei commenti o pronunciate durante un discorso o una semplice chiacchierata, sta già un’azione, un dare una nuova forma a ciò che prima ne aveva una diversa.
Tuttavia, prima di esporre questo concetto, la sua nuova formulazione, è importante non incorrere nell’interpretazione avversa.
Una certa filosofia, che possiamo chiamare della consolazione – dall’importante testo La consolazione di Manlio Sgalambro – ritiene, al giorno d’oggi, l’impossibilità dell’azione e annida l’intero compito della filosofia e dell’uomo in generale alla consolazione che le parole possono offrire, all’edificazione come compito precipuo della filosofia.
Per Sgalambro, la filosofia edificante «è un mutamento prodotto dalle parole» e «contrario alla verità», solo la parola – che non è azione – può disinnescare il continuo ricorso da parte dei filosofi all’azione; per Sgalambro, l’azione è la negazione stessa del filosofare perché conduce alla verità, che mette la parola fine alla ricerca continua come essenza stessa della filosofia. Le parole sono l’«appello» dell’Altro che mi chiede aiuto, che mi chiede conforto, che cerca la cura nell’Altro; solo la consolazione è, per Sgalambro, l’autentico rimedio al nichilismo della ragione, cioè il trionfo entusiastico della verità.
« La filosofia non consola con la verità, bensì malgrado la verità. Malgrado la verità essa mi dà la forza di vivere, e soprattutto la forza di pensare. »
Ma, considerando il nostro ragionamento, l’edificazione è già azione perché consolare è mutare lo stato d’animo, o meglio, la condizione affettiva dell’uomo che è consolato. Inoltre, la consolazione, come teorizza Sgalambro, è di per sé irresponsabile mentre ciò che noi stiamo cercando di affermare è la riproposizione della centralità della responsabilità intellettuale, nel nostro “parlare” quotidiano, nella nostra vita.
Tornando alla questione del rapporto fra teoria e prassi, solo la loro identità può riproporre la centralità e l’importanza della responsabilità di ciò che pronunciamo di fronte il mondo, di fronte il vissuto che è l’unico luogo in cui possiamo rendere conto di ciò che noi siamo o facciamo.
Ci vengono in soccorso, per la nostra tesi, le parole di Heidegger.
« C’è una vera e propria antitesi tra interpretazione e trasformazione del mondo? Non è forse ogni interpretazione già una trasformazione del mondo – posto che questa interpretazione sia il risultato di un pensiero genuino? E d’altra parte, ogni trasformazione del mondo non presuppone forse, come strumento una preliminare visione teoretica? […] Ma qual è il posto della produzione? La prassi. E da che cosa è determinata la prassi? Da una certa teoria che conia il concetto di produzione in quanto produzione dell’uomo mediante sé stesso. » (M. Heidegger, Seminari)
Non si pone più dubbio alcuno, non sono necessarie delle affermazioni, già nell’interrogare adeguato di Heidegger c’è la risposta che stavamo cercando. La teoria è già prassi, ogni interpretazione del mondo è già un agire su di esso per trasformarlo, per aprirlo alla dimensione della possibilità, che è la dimensione, anche, più propria della nostra soggettività. Cambiando noi stessi, i nostri schemi, le nostre categorie trasformiamo la realtà e la nostra realtà, e solo accettando che una nostra opinione, un nostro articolo pubblicato su un giornale, un discorso in parlamento o un insulto profondo, non sono diversi, nella loro profondità, da un pugno, da un colpo di pistola o da uno spunto. Solo ripensando l’identità fra teoria e prassi e riscoprendo che le cose vanno pensate nel loro essere tali possiamo nuovamente rimettere al suo posto la responsabilità dei nostri atti e delle nostre parole, che da semplici flatus vocis a cui le abbiamo ridotte, possano tornare a diventare gli strumenti con cui costruire una realtà migliore. Una realtà uscita integra dall’arduo tribunale della ragione. Hanno ancora tanto da dirci le parole di Hannah Arendt su Eichmann:
« L’atteggiamento di Eichmann era diverso. Innanzitutto, a suo avviso l’accusa di omicidio era infondata: “Con la liquidazione degli ebrei io non ho mai avuto a che fare; io che non ho mai ucciso né un ebreo, né un non ebreo, insomma non ho mai ucciso un essere umano; né ho mai dato l’ordine di un ebreo o un non ebreo: proprio, non l’ho mai fatto”. E più tardi, precisando meglio questa affermazione, disse: “È andata così… non l’ho mai dovuto fare – lasciando intendere che avrebbe ucciso anche suo padre, se qualcuno glielo avesse ordinato. » (H. Arendt, La banalità del male)
Nonché le riflessioni di Calvino e Pasolini sul delitto del Circeo, affinché, di nuovo, possiamo assumerci la responsabilità di parlare ad altri uomini.
7 aprile 2020