La pandemia ha imposto la serrata planetaria delle scuole. Le aule si sono svuotate da un giorno all’altro in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Laddove prima l’attività didattica era accompagnata dalle infinite sfumature di voci e dalle emozioni di discenti e docenti, ora regna il quasi assoluto silenzio, interrotto solamente da quel minimo di attività amministrativa necessaria per tener in vita l’istituzione scolastica.
Niente più campanelle che ritmano il corso della mattinata, niente più ricreazione, niente più vita parascolastica che ha accompagnato generazioni e generazioni di studenti, che a scuola si sono conosciuti, amati, odiati, ma con cui sicuramente sono anche maturati.
La scuola è tenuta in vita, seppur con molte difficoltà, dalla didattica a distanza (DAD). Da subito la comunità scolastica ha cercato di supplire l’assenza, non di questo o di quel singolo insegnante, ma della scuola stessa, mediante il ricorso forzato a ogni strumento tecnico che riducesse la distanza che si era creata e permettesse di tener in vita la didattica.
Nelle aule, ormai, non ci sono più esseri umani e, forse proprio per questo, la scuola sembra priva di umanità. Le grandi forze della tradizione si sono subito innalzate a difesa della fisicità della didattica, in assenza della quale saremmo di fronte solo a dei palliativi. Non può esserci scuola senza la compresenza viva e vivificante di docenti e discenti, ma solo un vacuo e poco educativo flusso di informazioni che non avrebbero nulla a che fare con la formazione, tuonano i critici.
Al netto delle polemiche animate sine dubio dall’incapacità di alcuni di utilizzare gli strumenti che la tecnica mette loro a disposizione, al netto della totale assenza di un quadro normativo di riferimento che obblighi gli attori della scuola ad utilizzare tali strumenti, al netto della questione sociale che lascerebbe gli ultimi che non possono disporre di tali strumenti ancora più indietro nella corsa al successo sociale, siamo di fronte ad una vexata quaestio che anima il dibattito culturale sin dai tempi della nascita della scrittura, il primo grande strumento tecnico che l’uomo ha avuto a disposizione per la trasmissione del sapere e che fece fare balzi in avanti inimmaginabili all’umanità preistorica.
La storia prende avvio, infatti, con l’avvento della tecnologia della scrittura.
L’esempio più eclatante è rappresentato da Socrate che, come è noto, non ha lasciato nulla di scritto, poiché estremamente polemico nei confronti di questa tecnica, preferendole di gran lunga l’oralità. Il suo più grande discepolo, Platone, non solo ci ha lasciato opere scritte in forma di dialogo per evitare di allontanarsi dalla veracità dell’oralità, ma ha addirittura affidato gli aspetti decisivi della sua filosofia alle cosiddette “dottrine non scritte”. La questione è molto articolata, ma in sintesi il problema di fondo che Socrate rilevava nella scrittura sta tutto nella sua inaffidabilità didattica, poiché ciò che viene scritto – il grafema – non è verace testimone di ciò che viene detto – il fonema –, che a sua volta non è verace testimone di ciò che viene pensato, il noema. Anche il filosofo per antonomasia era critico nei confronti della distanza che la tecnologia della scrittura pone in essere. Per ben comprendere lo scetticismo socratico, ma non solo socratico, nei confronti della tecnologia della scrittura, è sufficiente far mente locale a quando ognuno di noi pensa qualcosa di qualcuno, per esempio che “nostro figlio è amabile”, avvertendo chiaramente il limite del linguaggio ad essere verace testimone del nostro pensiero, tanto più se il linguaggio è comunicato attraverso la tecnologia della scrittura.
La maieutica socratica come tecnica didattica minimalista ne è l’inevitabile conseguenza. Il magister è quasi assente, la sua didattica è confinata al solo porre domande, che aprono lo spazio necessario al mostrarsi della verità che è già nel discente e non è un’informazione che dalla mente del docente può essere archiviata mediante la scrittura per poi fluire nella mente del discente, ultimo archivio della catena di montaggio dell’archiviazione delle informazioni.
Nella maieutica socratica risuona il significato più profondo della parola “didattica” che deriva dal greco διδακτικός, “istruttivo”, che a sua volta deriva da διδακτός con il significato di ciò “che può essere insegnato”, da cui anche διδάσκω con il significato di “insegnare” o δίδαξις con il significato di “lezione”. In tutte queste parole greche, ma anche nelle corrispettive latine come doceo, “insegno” e disco, “imparo", risuona l’antica radice indoeuropea “da”, dak con il senso di “mostrare”, del “mostrarsi di ciò che è nella luce” che ritroviamo anche nel sanscrito dic e nell’avestico dakhsc, ma soprattutto nel greco δείκνυμι con il significato principale di “mostrare”, ma che può anche significare “far conoscere”, “spiegare”, “dimostrare”, “accogliere” e “insegnare”. Non siamo lontani dalla verità se attribuiamo a Socrate la volontà di rimanere fedele a quel senso originario dell’insegnamento inteso come “il mostrarsi della verità”, in cui il docente si ritira dalla scena educativa per lasciare tutto lo spazio educante alla verità stessa che “viene alla luce” e che egli si limita ad indicare per cenni solo mediante delle domande, che stimolano il discente a sollevare lo sguardo per “accogliere” la verità.
La storia, tuttavia, ha imboccato una direzione diversa, se non opposta, alla maieutica socratica. Il prevalere della tecnologia della scrittura ha condotto l’umanità molto lontano dal significato originario dell’insegnamento, che riecheggia ancora, inascoltato, nel linguaggio.
La tecnologia della scrittura, come è noto, sorge tra il 3500 e il 3000 a.c. per mano, letteralmente, della civiltà sumera. Le prime testimonianze scritte della storia, tuttavia, non ci parlano di misteri arcaici o di vicende storiche del lontano passato, ma si tratta o di banali documenti contabili di registrazione dei pagamenti delle tasse, del conteggio dei debiti, delle certificazioni della proprietà o, ancor più deludente, di “elenchi di parole, copiate e copiate più volte da apprendisti scribi come esercizio di scrittura”. La scrittura nasce, dunque, come tecnica per l’archiviazione e la catalogazione di tutti quegli elementi della vita socio-economica di una comunità volti ad organizzarla secondo criteri burocratici ed efficienti, sopperendo ai limiti del cervello umano. Le prime tavolette di argilla sumeriche, con i primi bit di informazioni scritte, sono i progenitori delle attuali tecnologie di archiviazione dei dati, che ognuno di noi utilizza quotidianamente mediante telefonini, computer etc. Dalle tavolette sumeriche alle biblioteche e dalle biblioteche ai potenti database, dunque, in cui possono confluire ed essere archiviate quantità di informazioni inimmaginabili fino a qualche decennio fa.
La tecnologia della scrittura, dunque, rappresenta un enorme balzo in avanti in direzione del dominio e del controllo della realtà da parte dell’uomo. Le prime tavolette sumeriche sono state lo strumento attraverso cui l’uomo ha incrementato a dismisura la sua potenza. Grazie ad esse il potere di controllo e di organizzazione ha raggiunto vette prima impensabili e i grandi imperi del mediterraneo sono lì a testimoniarlo. Provate solo ad immaginare di organizzare l’abnorme struttura statale egizia o romana con i suoi apparati economici, burocratici e militari, costituiti da centinaia di migliaia di esseri umani, senza l’ausilio della tecnologia della scrittura, ma con il semplice supporto del cervello. Semplicemente impossibile.
Tuttavia, se è vero che la scrittura nasce come mezzo d’ausilio dell’agire umano, solamente socio-economico prima e nella sua totalità poi, non dobbiamo dimenticare che da mezzo non poteva non divenire lo scopo stesso dell’agire umano. La natura di un mezzo, infatti, sta tutta nella sua sostituibilità, poiché un mezzo è un mezzo, e rimane tale, solo se posso sostituirlo con altri mezzi per raggiungere lo scopo prefissato. Ma qualora un mezzo assurge al rango della insostituibilità, esso perde la sua natura di mezzo per diventare lo scopo stesso dell’agire. Uno degli esempi più noti è rappresentato dal denaro che viene introdotto come mezzo per facilitare gli scambi commerciali, ma che, proprio perché col tempo diventa insostituibile, diventa lo scopo dell’agire stesso: inizialmente si scambia denaro per ottenere merci, ma poi il mezzo si ribalta con lo scopo e si scambiano merci per ottenere denaro. Anche la scrittura divenne ben presto insostituibile e il sapere e il potere da allora dipendono dal possesso dei segreti di questa tecnologia. La figura dello scriba ne è la testimonianza prima e più viva, ma che ritroviamo ovunque lungo la storia che potrebbe essere riletta attraverso la lente d’ingrandimento del possesso della scrittura come porta d’accesso al potere e, in proporzione, ai gradi più alti delle società. La distinzione tra chierici e laici nel medioevo è un altro esempio macroscopico, ma anche tutto lo sforzo di alfabetizzazione delle masse negli ultimi due secoli va inserito in questa cornice, senza dimenticare tutti gli altri passaggi intermedi come la nascita della stampa o dei mezzi di comunicazione di massa. Dalla sua iniziale funzione di semplice mezzo tecnico per facilitare l’agire umano la scrittura assurge lentamente, ma inevitabilmente, a scopo dell’agire umano. Ancora oggi un essere umano privo delle tecniche di lettoscrittura rimarrebbe ai margini della società con scarse probabilità di sopravvivenza.
L’attuale dibattito sull’utilizzo delle tecnologie didattiche a distanza deve essere inserito in questo quadro generale, altrimenti non saremmo in grado di comprenderne il senso profondo e la sua evoluzione in direzione inevitabilmente tecnocratica.
Come ai tempi di Socrate, in cui era la scrittura sul banco degli imputati, anche oggi l’utilizzo delle tecnologie informatiche viene accusato di non essere in grado di trasmettere “veramente” i saperi. Ora, pur lasciando da parte la decisiva questione della convinzione diffusa nella cultura contemporanea dell’inesistenza della verità, è evidente che la pandemia sta solo accelerando il processo inevitabile della trasformazione dell’istruzione in senso tecnocratico, il cui terreno è stato già ben preparato da decenni di dibattiti sulla svalutazione dei contenuti dell’apprendimento a favore del metodo. E “metodo” deriva da μέθοδος costruito su ὁδός che significa “via”, cioè il “mezzo” attraverso cui si apprende. Così come l’obiezione socratica contro la tecnologia della scrittura è stata spazzata via dalla storia, poiché i popoli, oggi come allora, sono alla ricerca della potenza e non della verità, allo stesso modo oggi le obiezioni che si sollevano contro l’uso delle tecnologie informatiche sono destinate a non essere ascoltate, poiché la potenza che il sistema tecnoinformatico dell’istruzione consente di attuare è infinitamente superiore alle tecniche tradizionali.
E ciò cui assistiamo non è nulla rispetto ai cambiamenti che andranno in scena nel momento in cui la bioingegneria, le neuroscienze e la ricerca sull’intelligenza artificiale saranno in grado di potenziare la dimensione corporea umana mediante le interfacce cervello/computer, rendendo l’umano obsoleto a favore della dimensione trans-umana, post-umana o super-umana che dir si voglia.
Potremo spezzare le catene che ci legano alla destinazione tecnocratica solo ascoltando quell’eco lontana proveniente dalle profondità più abissali del linguaggio che ci sussurra che “insegnare” è il “mostrarsi della verità” e non l’archiviazione e la riproduzione efficiente delle istruzioni contenutistiche e di metodo, ambito nel quale già l’intelligenza artificiale primitiva dei computer supera l’umano. Ma questo implica la rinuncia alla potenza e il ritorno alla domanda fondamentale, alla domanda del fondamento: quid est veritas?
20 aprile 2020
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