Un possibile incontro tra Martin Heidegger e Jacques Lacan, per quanto difficile e rischioso, può diventare un’importante esperienza di pensiero tra filosofia e psicoanalisi, che ci permette di ampliare gli orizzonti del nostro essere al mondo.
Nel mettere in risalto delle tensioni fra l’opera di Heidegger e Lacan, evitando sia un’assimilazione reciproca del loro pensiero, sia un distacco assoluto, vogliamo considerare questi due autori come entità elastiche e in continua apertura. La parola di Lacan, infatti, è parola viva, parola in movimento, parola che si pensa e si ripensa, motivo per cui non arriverà mai a delle verità chiare e distinte, bensì darà vita a dei movimenti di pensiero.
Un punto chiave che si può ravvisare nelle opere di questi due autori e che, a mio avviso, detiene un ruolo particolarmente importante nel pensiero di entrambi, è il ripensamento nei confronti del cogito cartesiano, del solipsismo, della soggettività intesa come un’unità chiusa e monadica. Il problema del soggetto, sebbene sia un errore considerarlo al centro della filosofia heideggeriana, detiene un ruolo capitale anche nel pensiero dello psicoanalista francese, momento cardine del suo insegnamento.
Martin Heidegger, in particolar modo in Essere e tempo, sente la necessità di distruggere l’idea del soggetto come una sostanza chiusa e monadica, una “roccia sotto la sabbia”: un fondamento ultimo dell’identità soggettiva. Nell’analitica esistenziale di Essere e tempo, il filosofo svilupperà l’interrogazione sull’Esserci, sull’«ente che noi stessi siamo» (Martin Heidegger, Essere e tempo), operazione radicale e fondante per la comprensione dell’essere. L’Esserci è «l’ente interrogato per primo nel problema del senso dell’essere» (Ivi) ed è questo il motivo per cui quest’indagine risulta essere di primaria importanza nel pensiero del filosofo tedesco.
Possiamo, pertanto, rintracciare l’originalità del soggetto heideggeriano nel suo essere sempre “in rapporto”, “in relazione”; esso si trova esposto all’Altro: la sua è una ek-sistenza, un’apertura verso l’esterno. Per questo motivo Heidegger intravede nella psicologia, nella biologia (Ivi, §10) e nell’etnologia (Ivi, §11) una difficoltà nel determinare il senso dell’essere dell’uomo, in quanto «presuppongono una determinata concezione dell’esserci» (Adriano Fabris, Essere e tempo di Heidegger). Il pericolo è quindi di ridurre l’uomo a “semplice-presenza”, a “cosa fra le cose”, facilmente delineabile e circoscrivibile, non rilevando quindi la complessità presente alla sua base. L’Esserci heideggeriano è invece caratterizzato dall’essere-nel-mondo e, nella sua identità relazionale, vi sono dei continui rimandi tra il Dasein e il mondo stesso: non è possibile attribuirgli qualità prestabilite, ma esso è caratterizzato dall’«essere ogni volta mio». Abita il mondo, non è nel mondo allo stesso modo in cui lo è un oggetto, ma è caratterizzato dall’uscita; non possiamo trovare il suo centro in se stesso. Non siamo nel mondo come una sedia in una stanza, cose da considerare perfettamente compiute in sé, ma siamo gettati in un mondo che non riusciamo a dominare.
L’Esserci heideggeriano non è riconducibile ad una realtà già data, ma è calato in una realtà mondana; si relaziona ad essa teoreticamente e praticamente, incontra gli strumenti, gli oggetti e gli altri esseri umani. È sempre “fuori”, gettato nel mondo, è sempre in relazione con qualcosa, si prende cura delle cose che incontra. Il muro istituito tra la res cogitans e la res extensa dal cartesianesimo viene demolito: non riusciamo più a rintracciare una relazione chiusa e statica, ma vi sono dei continui rinvii, delle tensioni fra il mondo e l’Esserci.
Sulla scia di questa critica radicale si muove anche Lacan; egli sostiene che «l’io è un oggetto fatto come una cipolla, lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che lo hanno costituito» (Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, (1953-1954)). Anche in questo caso il cambiamento di prospettiva è radicale: l’Io è ridotto ad oggetto, appare privo di unità e di centro, risulta essere una finzione. La visione razionalistico-cartesiana della soggettività come «regolata dalla funzione dell’Io» appare molto distante (Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione), è invece l’alterità delle sue configurazioni a costituire la sua paradossale identità. La soggettività va oltre, è aperta all’esterno, all’altro da sé, non è circoscrivibile in un “Io”, svuotato di ogni consistenza.
Decisivo è Lo stadio dello specchio, in cui l’autore cerca di conferire un ordine al processo di costituzione della soggettività umana. Per comprendere questa fase del pensiero dello psicoanalista «basta intendere lo stadio dello specchio come una identificazione […], cioè come la trasformazione prodotta nel soggetto quando assume un’immagine» (Jacques Lacan, Scritti). Il bambino, tra i sei e i diciotto mesi circa, guardandosi nell’immagine riflessa, passa da un’immagine frammentata di sé e del suo corpo (corps morcelé) ad una forma: nello specchio egli riesce a riconoscersi come “io”. Prima di questo momento il soggetto non riusciva a distinguere l’interno dall’esterno: «il soggetto non è nessuno. È decomposto, frammentato. E si blocca, ed è aspirato dall’immagine, ingannatrice e realizzata a un tempo dell’altro, o anche dalla stessa immagine speculare» (Jacques Lacan, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, (1954-1955)). Anche in questo luogo possiamo notare la drammaticità di quest’evento: il bambino riesce ad ottenere una prima identificazione, ma essa già costituisce un’alienazione, egli si riconosce in un altro da sé, in questo caso rappresentato dall’immagine riflessa dallo specchio. L’immagine che forma la mia identità è la medesima che mi aliena da me stesso, non c’è nessun “in sé” da contrapporre ad un altro, ma tutto è finzione, non vi è alcuna “unità originaria”. Io sono io grazie ad un’immagine che è la stessa ad alienarmi, ad allontanarmi da me e siamo costretti a convivere con questa tragicità che ci contraddistingue.
Con modalità per molti versi differenti, Heidegger e Lacan hanno compiuto, sulla scia di altri autori, una rivoluzione in merito allo statuto della soggettività, il cui centro non è più collocabile in un’interiorità, ma in un’esteriorità che sfugge ad ogni controllo. Da una visione della soggettività chiusa, certa di se stessa, si arriva ad un soggetto che si affida all’ignoto, all’Altro, all’esterno. Non è più possibile rintracciare alcun fondamento ultimo, una sicurezza su cui affidarsi, ma occorre compiere un lavoro per maturare maggiore consapevolezza. Questo è il motivo ricorrente che ho individuato tra i due autori: nell’Esserci heideggeriano come un’identità chiusa, “relazionale”, come “essere-al-mondo” vi è infatti la possibilità di ripensare al concetto di identità, come possiamo notare nello Stadio dello specchio, nel pensiero lacaniano in generale e nella trasformazione che esso provocherà nel pensare il soggetto.
Il nostro essere “in relazione”, in costante apertura verso un’esteriorità non padroneggiabile, ci può far ripensare la soggettività al di là di una pura ingenuità, al di là dell’idea del soggetto come “cosa tra le cose”, in perfetta unità con se stesso, al di là delle determinazioni scientifiche, della psicologia, etnologia e via dicendo. Quest’unità fittizia, in costante relazione, questo riconoscimento di sé attuabile esclusivamente attraverso l’altro, può sicuramente aprire nuovi percorsi di pensiero, necessari sul nostro essere al mondo e sul nostro essere soggetti.
21 aprile 2020
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