Ad essere qui cruciale non è semplicemente l’abbandono di un qualche orizzonte veritativo, non è la mancanza di una lettura complessiva del reale, bensì, quasi al contrario, la pretesa assolutizzazione del mondo medesimo, il far coincidere il proprio essere finito con l’infinitezza stessa, finendo per perdere entrambi; non vi è smarrimento della verità, bensì il suo abuso, il ritenere di potersene appropriare, manipolandola ai propri scopi infiniti.
di Mirko Dolfi
Vi sono fasi, nella storia di un uomo, in cui la radice più profonda del suo stare al mondo viene ad emergere con maggiore chiarezza. Tale riaffiorare, magari improvviso, scaturisce da una presa di distanza, inconsapevole forse, quasi di sicuro non ricercata, da ciò che ormai si era imposto con la prepotenza di un’abitualità non scalfibile, con la quotidianità della norma. In filosofia, si sa, affidarsi all’ovvio non è conoscere, e per liberarsi dalle catene della chiacchiera (e tutti chiacchieriamo, anche chi filosofa, e talvolta ancora di più) può rivelarsi necessario abbandonarsi alla logica di un evento, non afferrabile dalle nostre categorie consuete, e in grado di portarci a discutere nuovamente intorno alla natura umana.
La dannazione dell’essere-uomo si radica nella miseria, in quel senso di smarrimento o di vuoto che può acuirsi nel lutto, in un dramma famigliare, o addirittura nel diffondersi di un’epidemia non calcolata. A tale malinconica sorte spesso non si ritiene opportuno pensare, quasi si crede di poterla rimuovere; secondo Pascal, «da qui deriva che gli uomini amano tutto il chiasso e il trambusto; che la prigione è un supplizio così orrendo; che il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile. E infine, è il più grande motivo di felicità nella condizione dei re il fatto che si cerca senza sosta di distrarli e di procurare loro ogni sorta di piacere. Il re è attorniato da gente che non pensa ad altro se non a distrarlo e a impedirgli di pensare a se stesso. Infatti, per re che sia, è infelice se vi pensa» (Pensieri, n. 168). Il distrarsi è qui il non saper prendere contatto, prima che con l’Assoluto, proprio con l’impuro che ci appartiene, è il non saper sprofondare nella finitezza, per provare poi a riemergere, ad aprirsi anche al nostro lato «angelico»; il finito è obliato, il dolore è evitato, mai pienamente compreso. E in tale situazione l’essere uomo si culla nell’illusione di una pienezza sorta dalla rimozione del vuoto, e non dal suo attraversamento. Da qui la pretesa narcisistica di un soggetto incline ad assolutizzare il proprio essere finito, nella presunzione di un monopolio sul mondo, per il solo fatto di poterlo analizzare, trasformare. Ad essere qui cruciale non è semplicemente l’abbandono di un qualche orizzonte veritativo, non è la mancanza di una lettura complessiva del reale, bensì, quasi al contrario, la pretesa assolutizzazione del mondo medesimo, il far coincidere il proprio essere finito con l’infinitezza stessa, finendo per perdere entrambi; non vi è smarrimento della verità, bensì il suo abuso, il ritenere di potersene appropriare, manipolandola ai propri scopi infiniti. Quando però il limite ci richiama a sé, mostrando l’inconsistenza del nostro smodato orgoglio, l’intera struttura mostra la sua fragilità, ed è allora che le ombre possono liberarsi, offrendo a noi la possibilità di liberarci poi da esse.
Nelle sue tormentate riflessioni, Marco Aurelio si pone come scopo quello di eliminare proprio ogni smodatezza derivante dalla mancanza di consapevolezza dell’uomo, scavando a fondo nella vacuità propria di chi non si riconosce effimero. «Il marciume della materia – scrive l’imperatore – che costituisce il sostrato di ogni cosa è acqua, polvere, ossicini, sporcizia; o ancora: i marmi sono callosità della terra, l’oro e l’argento sono sedimenti, le vesti sono peli, la porpora è sangue, e così tutto il resto. E qualcosa di simile è anche il soffio vitale, che passa dall’uno all’altro essere» (Pensieri, n. 36). Immagini crude, dove anche ciò che a noi mortali appare più splendente e prezioso è qui ricondotto ad un sostrato di morte, putrefazione; è la miseria di ogni apparente grandezza, la povertà di ogni gloria mondana. Vi è in tutto ciò, probabilmente, la mancanza di un rapporto armonico con la corporeità, lo svilimento anche eccessivo della vita empirica, ma sarebbe fin troppo semplicistico, e anche ingiusto, fermarsi a questo.
In uno dei suoi dialoghi più affascinanti, il Fedro, Platone utilizza un mito per esemplificare la caduta dell’uomo nella finitezza; nell’«iperuranio» le anime divine hanno la possibilità «di contemplare la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere che veramente è». Ben diverso il destino delle altre anime, anche di quella più adeguata nel «tenersi stretta alle orme di un dio», comunque «travagliata dai suoi corsieri», e in grado di contemplare solo «a fatica». Ed ecco aprirsi uno scenario travagliato, dove «le anime si calpestano a vicenda, tra risse ed estenuanti fatiche, e molte, per l’inettitudine delle aurighe molte rimangono sciancate, e molte ne hanno infrante le ali». Da qui la precarietà della finitezza, l’incapacità di raggiungere una verità avvolta dalle ombre del divenire. Nonostante ciò, la spinta dell’uomo verso la terra è compensata dalla tensione, propria della parte migliore dell’anima, a ricercare la «Pianura della verità», nella quale «la natura dell’ala può nutrirsi, permettendo così all’anima di elevarsi» (Fedro, 248 a).
L’uomo vede e non vede; non vi è verità in lui che non sia attraversata dal dubbio, non vi è certezza che non sia ridimensionata da un «non so». Eppure, non vi è in tutto ciò unicamente uno svilimento della nostra natura, bensì la possibilità di convertire uno sguardo spesso obliato nelle nebbie dell’ignoranza, il sentore di un’ulteriorità, alla quale si può partecipare, senza per questo illudersi di afferrarla interamente. Nella Repubblica, presentando il celebre mito della caverna, Platone descrive la condizione di chi, liberandosi dalle catene che lo costringono a contemplare ombre, riesce gradualmente ad uscire dall’oscurità, risalendo verso la fonte della luce e della verità stessa. Vi è in questo caso un rivolgimento radicale dello sguardo (una epistrophe), proprio di chi si affida alla filosofia, nel tentativo di colmare il vuoto della mancanza, della caduta; certo, nel primo voltarsi l’uomo liberato soffre, «sentendo male agli occhi», abbagliato dalla luce improvvisa; colui che è destinato ad essere filosofo, però, riconosce che quello è il dolore proprio di chi passa dalla «tenebra alla luce», la fatica immanente alla ricerca inquieta e inesauribile di chi si mette in cammino (Repubblica, VII).
Ed è verso questa direzione, nell’esigenza di riportare l’uomo ad una consapevolezza autentica, che si spinge anche Marco Aurelio, al quale ritorniamo; dopo aver sottolineato la miseria insita alla nostra natura, il filosofo prova ad indicare quello che è il fine più nobile dell’esistenza umana: «non devi più limitarti a respirare con l’aria che ti circonda, ma devi anche pensare con l’intelligenza che tutto abbraccia. Infatti la facoltà razionale è diffusa ovunque e penetra in chi vuole assimilarla non meno di quanto faccia l’aria in chi può respirarla» (Pensieri, n. 54). Siamo lontani da quello scenario di inconsistenza e putrefazione prima indicato; se l’uomo esiste come carne e sangue, vi è in lui la possibilità di pensare, e quindi di trascendersi, decentrandosi. Ed eccoci ad un nodo centrale: nel riconoscimento di un «germe celeste» in noi (Pensieri, n. 50), non vi è affatto un eccesso di antropocentrismo, bensì, al contrario, proprio la destrutturazione di qualsiasi pretesa puramente umana, la negazione dell’orgoglio smodato di chi si ritiene in possesso di una verità da imporre, non cogliendosi nella partecipazione a un’infinità che non si lascia risolvere.
È proprio in Pascal che troviamo una delle pagine più straordinarie, in grado di ricondurci all’ambivalenza del nostro essere. Scrive il filosofo: «l’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per stritolarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo stritolasse, l’uomo sarebbe anche allora più nobile di ciò che l’uccide, poiché egli sa di morire e la superiorità che l’universo ha su di lui. L’universo non ne sa nulla. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero» (Pensieri n. 231). La nostra fragilità più grande, la precarietà che ci costituisce cela in sé il seme della grandezza; è il sangue che ci costituisce, è il dolore che ci è proprio, ma che anche può essere pensato, interrogato. Se l’uomo esiste finitamente, ha nel riconoscere proprio la sua piccolezza il segno di una partecipazione al divino. L’anima umana, come scrisse Plotino è «anfibia», dal momento che «ha qualcosa della sua parte inferiore che si rivolge al corpo e qualcosa della sua parte più elevata che si rivolge all’intelligenza» (Enneadi IV, 8).
A costituirci è una tensione mai negabile, è il continuo cercare di chi mai non trova compiutamente, e che comunque può farlo. Da qui non necessariamente si deve giungere a una svalutazione del corpo, a favore di uno spirito astrattamente inteso; Montaigne, con la sua consueta ironia, polemizza con chi pretende di camminare sui «trampoli», dimenticandosi che anche in quel caso «bisogna camminare con le nostre gambe», augurandosi poi che «lo spirito risvegli e vivifichi la pesantezza del corpo, e il corpo freni la leggerezza dello spirito e la renda stabile» (Saggi, III). Lo squilibrio a noi essenziale si trasforma nella possibilità di un nuovo equilibrio, avente origine dalla presa di consapevolezza del nostro limite costitutivo, sapendo guardare però oltre, al di là di «quella siepe» amata dal Leopardi de L'infinito, proprio come una spinta in grado di trascinarlo ad un «naufragare dolce». Il limite può essere trasceso, nella misura in cui inizialmente si offre; la forza, che ci spinge oltre, ha la il suo contrasto (ma anche il suo motore propulsivo) in un vincolo dal quale ci si può liberare, in primo luogo riconoscendolo nel suo essere proprio «un vincolo». Non vi è eccedenza, che non sia radicamento; non vi è armonia, che non sia anche conflittualità (polemos). Il soggetto è costitutivamente inquieto; come scrisse Max Scheler, egli, «nel suo essere più intimo, si percepisce come ponte, come passaggio tra due ordini di essere e di essenza, nei quali egli è con pari profondità radicato e ai quali non può, neppure per un attimo, sottrarsi, senza cessare di essere uomo» (Pudore e sentimento del pudore). Non vi è allora possibilità di negare interamente il dramma che ci accompagna, non vi è spazio per una rimozione, che non lasci spazio ad un’elaborazione più profonda, al trascendimento della «limitatezza» medesima: non riconoscere il limite equivale a non poter spostare lo sguardo oltre.
Non che tale riconoscimento sia semplice e privo di una certa tragicità: la possibile dolcezza di un naufragio nell’infinità include in sé l’amarezza di una caduta, dalla quale è impossibile liberarsi del tutto, se non a costo di negarci come uomini. Baudelaire, ne Lo spleen di Parigi, descrive un vissuto significativo, dove «i pensieri volteggiavano con una leggerezza pari a quella dell'atmosfera; l’anima aveva vasta e pura come la cupola del cielo da cui ero avvolto […] quando l'incurante materia fece sentire di nuovo le sue esigenze, e mi preoccupai di ristorare la fatica e di soddisfare l'appetito provocati da una così lunga ascensione». Spiragli di vita superiore, istanti di eternità, limitati dal ritorno della temporalità: una fragilità nobile e drammatica, non da rimuovere, ma da vivere e attraversare fino in fondo.
Concludiamo con uno dei capolavori di Francesco Guccini, nella convinzione che si possa scorgere qualcosa di vero anche ai margini del concetto strettamente e rigidamente inteso: La canzone della bambina portoghese. Dopo aver preso le distanze da coloro che «vantano un orgoglio cieco di verità», una bambina, afferrata «da sogni o visioni», davanti all’oceano, «si mise a pensare». In quell’istante «sentì che era un punto al limite di un continente. Sentì che era un niente, l’Atlantico immenso di fronte. E in questo sentiva qualcosa di grande che non riusciva a capire, che non poteva intuire»; a questo punto, «si sentì svanire e si mise a dormire». Proprio quando la fragilità della bambina sembra essere avvolta dal mistero della verità nella sua interezza, ecco che il senso del limite riaffiora, nella presa di coscienza che «una sera o una stagione sono come lampi» e che «la vera ambiguità è la vita che viviamo, il qualcosa che chiamiamo esser uomini». Un’ambiguità magari tragica, ma anche sublime, prendendo coscienza della quale è possibile liberarsi da quell’eccesso di presunzione proprio di chi santifica il particolare, e che ora può essere ricondotto all’infinità dell’intero nel quale siamo immersi, e che abbiamo la possibilità di interrogare: in una conversione teoretica, ma anche etica, del nostro stare al mondo.
18 aprile 2020