L'antica religione persiana del manicheismo è una filosofia che ha formulato un suo originalissimo modo di coniugare il nichilismo orientale. I suoi seguaci auspicavano la fuga dall'esistenza e al contempo si commuovevano per il Creato. Un viaggio in questa cosmologia, con qualche rimando ad Emil Cioran, un “manicheo del Novecento”.
Il contesto in cui nasce il manicheismo, e il suo fondatore Mani (215-276 d. C.), è quello dell’impero sassanide (224-651 d.C.), in Persia, attuale Iran.
Il manicheismo, definito la religione in due nature e tre tempi, fa coincidere la nascita del cosmo con un'aggressione da parte della materia-tenebra allo Spirito-Luce, fagocitandolo. Prima della nascita del cosmo questi due principi erano separati, ma la cattura dello Spirito-Luce, imprigionato dalla materia-tenebre, ha dato origine al periodo della mescolanza, questa insana ibridazione di due nature opposte in cui ci troviamo. La liberazione della Luce dalle tenebre coinciderà con il dissolvimento dell'universo, per ritornare alla pacifica divisione primigenia tra le due forze. Dunque l'universo nel manicheismo non è il frutto buono di un creatore provvidente, ma il risultato di una commistione ontologica perversa.
Il manicheismo è anche una religione in qualche modo gnostica, per cui la salvezza si fonda su una sapienza, ed è un fenomeno spirituale volto a rispondere all’interrogativo mai sopito unde malum?
Lo zoroastrismo, fondato nel I millennio a.C., ha influito profondamente sul manicheismo, nato in seno alla religione di Zoroastro. I caratteri fondamentali di questo antico culto sono la venerazione di un dio supremo, Ahura Mazdā, demiurgo onnisciente, che veglia sull’ordine cosmico e si trova all’apice di una gerarchia di entità angeliche. È già in questa religione che troviamo la suddivisione della storia universale in tre tempi: il periodo originario pre-cosmico, nel quale Ahura Mazdā e la forza maligna di Ahriman si trovano naturalmente separati; il tempo cosmico, che inizia con l’attacco sferrato dal maligno e coincide con la lotta e l’epoca della contaminazione; e il futuro, in cui il regno di Ahura Mazdā sarà completamente restaurato e non verrà più aggredito da Ahriman. Lo stadio della mescolanza che caratterizza il manicheismo era quindi un tratto tipico della cosmologia e dell’ontologia zoroastriana.
Dunque nel manicheismo la cattura di una parte della Luce compiuta dal principio maligno, ha comportato lo stato di mescolanza che coincide con l’universo stesso e nell'individuo con la condizione ibrida di ogni creatura. Da questo presupposto cosmogonico e cosmologico deriva la necessità soteriologica di dividere Luce e materia e di riportare i due princìpi alla loro naturale condizione di separazione. La posta in gioco dal momento dell’aggressione delle Tenebre è duplice: liberare la parte divina, ostaggio della materia, ed estinguere così il ciclo delle reincarnazioni. Per rompere il corso dei travasi di Luce da un corpo all’altro, e quindi svincolare sia la divinità che le creature dallo stato di cattività nella materia è necessario liberare le particelle di Luce imprigionate nei corpi, dunque negli alimenti. La funzione digestiva in questo credo è principalmente quella di liberare le particelle divine ingerendo determinati cibi. La sessualità è abominio da evitare, perché reitera l'esistenza, cioè lo stato di cattività della Luce divina soffocata nella tenebra.
Emil Cioran, filosofo rumeno che può anche essere considerato una sorta di manicheo del Novecento, scrisse nel suo Il funesto demiurgo (nel titolo già allude alle mitologie gnostiche) che «gli orrori di cui l'Universo trabocca fanno parte della sua sostanza; senza di essi il mondo cesserebbe fisicamente di esistere», una concezione cosmogonica molto affine alla fede di Mani, che vede il maligno come causa ontologicamente necessaria (ma non buona) dello scaturire del mondo.
Ancora Cioran:
« tutto ciò che vive, l'animale o l'insetto più misero, trasale, non fa che trasalire; tutto ciò che vive, per il semplice fatto di vivere, merita commiserazione. »
Notiamo come vi sia nel manicheismo un rapporto tra il tempo e la riproduzione sessuale; nel tempo, cioè nell’esistenza prodotta dal peccato, dove domina il corpo sullo spirito, dove governa l’illusione sulla verità, il divenire sull’essere, la caducità sull’eternità, gli uomini e le donne necessitano di riprodursi. Invece fuori dal tempo, verrà ristabilito l’ordine metafisico e ontologico delle cose, il peccato sarà emendato, lo spirito dominerà sul corpo, la verità emergerà dall’illusione e il pieno essere sarà reintegrato e rivelato, non sarà più reiterato l’affanno del divenire, e quindi la sessualità e la procreazione.
Per il cristiano, a differenza del manicheo, la materia (per quanto incomparabilmente inferiore allo spirito) risulta dannata solo se viene in qualche sua forma adorata al posto del Dio creatore, il corpo è immondo se viene anteposto al suo creatore, che è lo spirito, perché in tal caso non verrebbe osservato e rispettato l’ordine sommo delle cose, quello del Dio increato, creatore misericordioso dei suoi figli. Per il manicheo la materia è invece deprecabile in se stessa, non è riscattabile, semplicemente perché i corpi non sarebbero dovuti esistere, in quanto la creazione non è stato un atto libero ma un’aberrante sopraffazione della materia a discapito della Luce spirituale. Questa inconciliabilità in merito alla creazione, atto libero quella cristiana, prevaricazione quella manichea, fondano la diversa concezione di presupposti teorici e pratici in termini di purezza.
Cioran scrisse sulla sessualità e l'istinto di conservazione:
« Quanto all'istinto di conservazione-nient'altro che pura e semplice testardaggine-, ciò che più conta è combatterlo, denunciarne le devastazioni. Tanto meglio ci riusciremo se verrà riabilitato il suicidio, se ne sosterremo l'eccellenza e lo renderemo gioioso e accessibile a tutti. »
La radicalità del pensiero manicheo porta a chiedersi se non sia ammessa l’ipotesi del suicidio per porre fine alla sofferenza divina e al tormento delle trasmigrazioni (per le creature). Il suicidio, a differenza che nel pensiero di Cioran, non è ammesso, perché sarebbe contrario al comandamento della non-violenza (che include anche se stessi) e soprattutto perché non sancirebbe la definitiva liberazione della Luce dalle Tenebre materiche: la Luce continuerebbe a venir travasata da un corpo all’altro, prolungando addirittura il suo calvario. Non si può dunque sfuggire al percorso di elevazione interiore fondato sulla conoscenza (gnosi), unica via per la liberazione dell'anima luminosa dal corpo oscuro. Il manicheo vive nella visione di una “crocifissione continua”, condizionata dalla cristologia messianica del Vangelo, una metafora narrativa drammatica molto commovente e affascinante, seppur forse nella sua morbosità: tutta la luce è costantemente crocifissa nella materia finché tutta la natura non verrà districata e “assolta” dalla dimensione corporea. Il manicheo è costretto dallo stato di mescolanza in cui è avviluppato, a percepirsi diviso in se stesso; profondamente immerso ed esaltato per la vita della luce in tutte le cose che lo circondano, e necessariamente dissociato perché la sua missione è svincolarsi dalla logica del mondo per approdare al mondo della pura Luce. Il manicheo piange per l'anima di Dio vinta in una fogliolina, ed è toccato dalla tenerezza di quella stessa fogliolina. Una sensibilità quasi animista che talvolta pare sfociare nel panteismo, e che al contempo convive con il suo rifiuto del mondo, col suo ribrezzo per l'esistenza, perché il male è la causa della sua esistenza. Per comprendere la devozione animista del fedele manicheo verso tutte le forme organiche e inorganiche, minerali e sassi, piante e animali in quanto condensazioni di luce momentaneamente incastrate nella materialità, possiamo leggere il lamento straziante di una palma raccontato nella biografia di Mani:
« E (la palma) si struggeva lamentandosi come fanno gli esseri umani e i bambini. “Ahi! Ahi!” E il sangue scorreva da quella parte che era stata tagliata dalla falce che aveva in mano. »
Come conciliare una simile visione dell'esistenza, che concepisce il mondo come il frutto marcio di un abuso maligno e il fatto stesso di esistere? Se ogni creatura non è altro che il risultato di una colpa ed è quindi vittima della propria condizione, ci si crogiola in un atteggiamento deresponsabilizzante? Oppure la responsabilità è solo un'illusione dato che il guasto ontologico del mondo è irrimediabile se non estinguendolo?
Nel non saper rispondere concludiamo con Cioran, il quale, anche con l'ironia corroborante che lo contraddistingueva, aveva trovato in se stesso una dimensione per convivere con il suo nichilismo: «non vale la pena uccidersi, dato che ci si uccide sempre troppo tardi».
28 febbraio 2020