Il mantra di una delle frasi più rappresentative, contenuta ne L'idiota di Doestoevskij, «la bellezza salverà il mondo», riecheggia in gran parte dei salotti intellettuali o pseudo tali all’interno dei quali si discute sul tema della deriva dei valori morali e sociali dei nostri tempi, ma, ascoltando gran parte delle riflessioni che ci vengono proposte e toccando con mano le feroci banalizzazioni di uno dei concetti più affascinanti e complessi del nostro patrimonio culturale, viene spontaneo chiedersi: siamo ancora in grado di cogliere l’intima essenza e la potenza della bellezza e di utilizzarla, proprio come diceva Dostoevskij, per salvare il mondo?
La frase centrale di uno dei romanzi più ambigui e misteriosi dello scrittore russo Dostoevskij torna ciclicamente in gran parte dei dibattiti che hanno come oggetto di discussione le crisi del contemporaneo e gli eccessi nocivi ai quali i nostri tempi ci hanno irrimediabilmente abituato: «la bellezza salverà il mondo». queste sono le parole di grande impatto pronunciate dal principe Miškin ne L’idiota, alle quali si affida un compito importante, difficile e forse decisamente fuori dalla nostra portata, soprattutto se si continua a concepire la bellezza come un puro dato dei sensi.
Sicuramente la frase di Dostoevskij, in realtà da sempre giudicata poco chiara e di difficile interpretazione da gran parte dei suoi critici, apre le porte alla riflessione su un tema di grande spessore, troppe volte sminuito, banalizzato e semplificato all’eccesso. Supponiamo sia vero che «la bellezza salverà il mondo» e che, alla luce di ciò, noi tutti dovremo essere in grado di riconoscerla e sfruttarla a vantaggio di una causa tanto nobile; in relazione a questo proposito ci chiediamo: sappiamo veramente cosa sia la bellezza? Siamo ancora in grado di coglierla nella sua complessità oppure riteniamo che il bello si fermi ad una semplice dimensione estetico-sensoriale?
La discussione sulla bellezza costituisce uno degli elementi centrali attorno al quale la storia del pensiero occidentale ha tentato di articolare ragionamenti di natura filosofica che spesso, proprio a causa della fluidità dell’argomento, hanno creato confusione e difficoltà nel riconoscere ed identificare cosa sia il bello.
Da Platone a Hegel, fino ad arrivare a Nietzsche, molti sono gli autori che hanno tentato di far luce sull’oscurità della riflessione su un tema ricco di ambiguità e insidie, nei confronti del quale il vizio della semplificazione, tipico della frenesia odierna, ha contribuito a produrre il totale annullamento della validità universale dell’affermazione di Dostoevskij: quando parliamo di bellezza, la nostra attenzione si sofferma troppo spesso sulle manifestazioni del bello, facendoci perdere di vista la totalità, chiaramente difficile da raggiungere e da identificare, del concetto di bellezza, l’unico in grado di offrire una possibilità di redenzione alla realtà incerta e frammentata che ci circonda.
Nell’Ippia maggiore, dialogo meno conosciuto, ma ricco di spunti di riflessione interessanti inseriti in un impianto letterario di grande gusto e finezza linguistica, Platone affida allo scambio tra Socrate e il suo interlocutore Ippia, uomo saccente e pieno di sé che si finge all’altezza del confronto con il saggio protagonista del dialogo, l’approfondimento della questione sul bello che traspare, sotto una patina di irresistibile ironia, dalle parole di Socrate.
Platone fa condurre al suo maestro, che anche qui ricopre il ruolo centrale affidatogli in ogni dialogo, un ragionamento che porta ad una conclusione importante: Socrate si chiede se ciò che viene identificato come bello possieda una caratteristica propria e intrinseca che lo rende tale, oppure possa essere giudicato bello, poiché partecipa dell’idea del bello, racchiudendo in sé la sua sostanza.
Egli stesso afferma:
« (…) Io dicevo che i piaceri che scaturiscono dalla vista e dall’udito sono belli non per questo motivo, in quanto cioè ciascuno di essi ha questa caratteristica, ma non entrambi insieme, oppure entrambi ma non ciascuno singolarmente, bensì per la caratteristica che posseggono entrambi insieme e ciascuno singolarmente, poiché hai ammesso che sono belli entrambi e ciascuno singolarmente. Per questo motivo pensavo che, se entrambi sono belli, devono essere belli per la sostanza che si accompagna a entrambi, non per quella che non è presente in uno dei due, e lo credo ancora (…) » (Platone, Ippia Maggiore)
Il problema posto da Platone si pone, attraversando i secoli, come fulcro della meditazione sulla bellezza: concepire il bello come manifestazione esteticamente gradevole legata all’aspetto esteriore di un oggetto, di una persona, di un’opera d’arte ci porta ad escludere la possibilità secondo la quale possiamo affidarci alla bellezza per salvare il mondo.
Il bello, come affermava Hegel, è un concetto e, in quanto tale, ha bisogno dello sforzo necessario per afferrarlo: questo sforzo presuppone un contatto con la dimensione sensibile, estetica, ma ha bisogno di un successivo distacco proprio dalla stessa sensibilità, necessario alla sua comprensione profonda e, solo in questo caso, utile nella costruzione di una prospettiva di salvezza per la nostra difficile realtà contemporanea.
26 febbraio 2020
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