Una relazione di cura medico-paziente: una relazione tra filosofi!

 

A partire da domande universali evocate dalle parole di Giobbe e Leopardi si cercherà di far emergere come dalla relazione di cura tra medico e paziente l'essere filosofo appartenga ad entrambi e come questa natura possa aiutare. 

 

Rembrandt, "Lezione di anatomia"
Rembrandt, "Lezione di anatomia"

 

Giobbe, uno tra gli uomini più sofferenti che si siano incontrati nella nostra storia, perde tutto casa, famiglia, bestiame, amici, e ogni tipo di malattia sembra si sia impossessata del suo corpo. Dalla prospettiva teologica, è colui che ha messo in crisi la teologia retributiva, per la quale l'uomo giusto veniva premiato da Dio con anni e figli. Giobbe non capendo cosa avesse fatto di grave e ritenendo di essere stato giusto si rivolge a dio pregandolo di dargli spiegazioni sulle sofferenze che gli venivano inferte. Ed è così che dubita della sapienza antica. «[...] maledisse il suo giorno […] e disse: “Perisca il giorno nel quale sono nato, e la notte che ha detto: è stato concepito un uomo!”» come si legge nella Bibbia. È qui che iniziano le sue domande, è qui che ha inizio la sua rivoluzione contro dio; mettendo in dubbio la sua esistenza e la sua conoscenza si fa largo nel duro cammino dell'essere uomini e della verità. Si chiede cosa può aver commesso di così grave da essere condannato in quel modo. Con le sue parole ha dato voce a tutti quei malati che si incontrano girando per i corridoi di un ospedale e non solo, di tutti quegli uomini che si chiedono cosa hanno fatto nella vita per meritarsi una condizione atroce. E tutte le loro tragedie sono concentrate in due parole che Giobbe ha evocato e che ogni volta vengono pronunciate: «Ma perché?»

 

L. Bonnat, "Giobbe" (1880)
L. Bonnat, "Giobbe" (1880)

 

In modo aulico Leopardi in Canto notturno di un pastore errante dell'Asia è riuscito ad ampliare, a rendere manifesto quel “Ma perché?” :

 

« […]

 Ma perché dare al sole,

 Perché reggere in vita

 Chi poi di quella consolar convenga?

 Se la vita è sventura,

 Perché da noi si dura?

 Intatta luna, tale

 È lo stato mortale.

 Ma tu mortal non sei,

 E forse del mio dir poco ti cale.

[...]

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

 E perir dalla terra, e venir meno

 Ad ogni usata, amante compagnia.

 E tu certo comprendi

 Il perché delle cose, e vedi il frutto

 Del mattin, della sera,

 Del tacito, infinito andar del tempo.

 Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

 Rida la primavera,

 A chi giovi l'ardore, e che procacci

 Il verno co' suoi ghiacci.

 Mille cose sai tu, mille discopri, 

Che son celate al semplice pastore.

[...]

 E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

 Che fa l'aria infinita, e quel profondo

 Infinito seren? che vuol dir questa

 Solitudine immensa? ed io che sono? 

[…] » 

 

L'uomo nasce nel dolore e continua la sua esistenza non sapendo perché è venuto al mondo, non sapendo perché esiste e perché dovrà morire e non capendo il perché della sua sofferenza. Un po' come dire: “Se non ho chiesto io di nascere, perché qualcuno mi ha voluto se poi non fa altro che consolarmi? Perché sono nato se nascere equivale a soffrire? Perché non so nulla ma continuo a pormi domande come: cos'è tutto questo e cosa sono io?” 

Continua poi Leopardi dicendo come vede diversa la sua condizione di uomo rispetto agli altri animali: 

 

G. Leopardi
G. Leopardi

« [...] 

O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, e uno spron quasi mi punge,

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fin qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

                                                                                 [...] »

 

Non trova mai pace, avvolto dalla noia, fino ad arrivare al punto di affermare che «Forse [...]/ è funesto a chi nasce il dì natale». Queste grandi parole non ci devono ingannare, Leopardi non è uno dei più grandi pessimisti ma uno tra i più grandi poeti d'amore. In questa poesia, come anche ci suggerisce il titolo, egli canta la sofferenza dell'uomo, il grido di un pastore, il grido di un poeta, l'urlo dell'uomo sfinito dalla sua agonia. E se poi leggiamo tra i versi de La Ginestra «la social catena» vediamo come egli inviti gli uomini a stare uniti gli uni gli altri a causa della stessa condizione, e nella medesima sofferenza a trovare la pace di un'unione fraterna. Il Canto notturno è un grido d'aiuto, velato forse da una speranza, la speranza di essere ascoltato.

 

Ma non è filosofo colui che si chiede il perché della sua condizione? Che si chiede il perché della sua sofferenza? E uno dei momenti in cui ci si pone questa domanda o che si sente così profondamente una richiesta d'aiuto non è forse nella relazione medico-paziente? Il medico e il paziente non si pongono forse le stesse domande? La sofferenza non è al centro di tale relazione? Giobbe e Leopardi hanno dato voce in modi diversi alle persone sofferenti, alla richiesta d'aiuto che i malati chiedono e allo stesso tempo a come, sia il malato sia quindi ogni uomo (e il medico di conseguenza) si scoprano inevitabilmente filosofi.  

 

L'uomo per natura è filosofo e un medico non ha che da scoprirsi tale perché quando si trova di fronte a un altro uomo e lo deve curare, e tentare di guarire non può non chiedersi: “cosa vuol dire guarire?”; “cosa significa curare e/o salvare?”; “cos'è la vita e la morte?”; “cosa vuol dire quando diciamo che un qualcosa ha un valore?”; “cos'è l'amore, il piacere e il dolore?”; “cos'è il rispetto o che cosa è un uomo?”. Non sono forse queste le domande che un medico dovrebbe porsi? O dovrebbe forse chiedersi come guadagnare il più possibile “senza troppe rogne”? 

 

Il medico può essere visto in qualche modo come il meccanico del nostro corpo. Lo scopo infatti è aggiustare i vari “pezzi” dal momento che in un certo senso siamo una “macchina umana”. Il problema, però, è che il nostro corpo è il custode del pensiero ed entrambi hanno bisogno l'uno dell'altro. Platone nel Fedone ci ricorda quanto segue: 

 

« E l'anima del vero filosofo, non ritenendo di dover contrastare a questa liberazione, si astiene dai piaceri, dai desideri e dalle paure il più possibile, considerando che chi si lascia prendere oltre misura dai piaceri o dai timori o dai dolori o dalle passioni non riceve da essi un male di quelli che si potrebbe credere, come se si ammalasse, o consumasse parte delle sue sostanze per soddisfare le sue passioni, ma subisce il male più grande che si possa immaginare: subisce questo male, e non se se rende conto. […] è che l'anima dell'uomo, provando un forte piacere o un forte dolore a causa di qualche cosa, è spinta per questo a credere che ciò che le fa provare queste sue affezioni sia la cosa più evidente e più vera, mentre non è così. Ora, questo accade specialmente con le cose visibili. […] Ogni piacere e ogni dolore, come se avesse un chiodo, inchioda e fissa l'anima nel corpo, la fa diventare quasi corporea e le fa credere che sia vero ciò che il corpo dice essere vero. E da questo avere le stesse opinioni del corpo e da questo suo godere degli stessi godimenti del corpo, io penso, è costretta anche ad acquistare gli stessi modi e le stesse tendenze del corpo [...] »

 

Il corpo non deve in alcun modo sopraffare l'anima ma deve essere un mezzo per arrivare ad essa, uno dei mezzi per aiutare a migliorare, a sviluppare il pensiero. Ed ecco perché un medico curando il corpo non può dimenticarsi del pensiero, del fatto che un uomo è entrambi. Hegel in Lezioni sulla filosofia della storia ci insegna che:

 

« […] il pensiero non possiamo mai metterlo da parte, solo per suo tramite ci distinguiamo dall'animale; nella sensazione, in qualsiasi sapere, nella conoscenza, negli impulsi e nella volontà, in quanto sono umani, c'è sempre un pensiero. »

 

Ma proprio per tal ragione non solo il medico deve scoprirsi filosofo ma anche il paziente stesso che inevitabilmente, con sfumature diverse, si pone le domande del medico. 

 

In bioetica il tema della relazione medico-paziente è molto sentito; molte cose sono cambiate nell'ambito della medicina a partire da questo tema. Si è cercato di uscire, da una parte, dalla relazione paternalistica del medico autoritario e del paziente eteronomo e, dall'altra, dalla relazione di un paziente autoritario e di un medico esclusivamente esecutore. La relazione di cura auspicabile è quella in cui vige un equilibrio tra le parti (per parti si intendono anche l'equipe sanitaria, i parenti, familiari, amici). 

 

J. Steen, "Visita del medico"
J. Steen, "Visita del medico"

 

La relazione di cura non può che essere un continuo dialogo tra medico e paziente, tra filosofi, amanti, ricercatori della verità. Cos'altro potrebbe essere l'uomo se non questo? Indagare, ricercare insieme la verità a partire da una prospettiva di sofferenza, questo è ciò che dovrebbe stare alla base della relazione di cura. Quest'ultima, però, non dovrebbe iniziare quando un individuo si ammala ma dovrebbe essere il prosieguo di un cammino di ricerca continuo, cambia appunto la prospettiva ma il cammino di verità è quello. Tutto ciò per evitare di coglierci impreparati, come spesso accade, quando noi o un nostro familiare/amico siamo sofferenti e questioni come la donazione di un organo, l'eutanasia, la sospensione di un trattamento sanitario, le cure palliative, non ci siano estranee se dovessero capitare. Non ci possono essere decisioni affrettate, non possiamo lasciare decidere il medico per noi, o affidare la nostra vita in mano ai soli parenti o imporre le nostre decisioni senza ascoltare chi ci sta attorno. 

 

Francesca Marin, in L'agenda della bioetica, tra i vari argomenti trattati, sottolinea il fatto di quanta confusione ci sia tra i termini. Uno degli errori, ad esempio che si commettono è quello di considerare la sospensione dei trattamenti una pratica equivalente all'eutanasia; invece nella sospensione di un trattamento, la patologia, che porterà alla morte dell'individuo, è già in atto, mentre nell'eutanasia si inietta una sostanza letale per ottenere la morte immediata dell'individuo. La sospensione dei trattamenti in Italia è legale e approvata dalla legge, l'eutanasia, invece, nel nostro paese è una pratica ancora illegale.

Tale confusione terminologica è legata alla scarsa informazione/prevenzione a livello statale e a una relazione non equilibrata medico-paziente

 

Ecco, quindi, in base alle considerazioni fatte come la filosofia possa aiutare a equilibrare la relazione di cura dal momento che aiuta alla maturazione del pensiero. E basta vederla come qualcosa che sta nell'iperuranio, come qualcosa che si interessa di “aria fritta”! 

Come scrive Benedetto Croce in Filosofia della pratica. Etica ed economia:

 

« Ogni uomo ha la sua filosofia, rudimentale o sviluppata, più o meno lacunosa, e nessuno è uomo di nessuna filosofia. Il più povero giudizio sull'attività pratica è guidato dal lume di un concetto filosofico; e, se non da un lume, da un lumicino, e se non fermo e sicuro, almeno ondeggiante e tremulo. Talvolta il giudizio si arresta perplesso, non perché manchino documenti e notizie di fatto, ma appunto per le oscurità e difficoltà che sono nella filosofia di un tempo o di un individuo, e che è indispensabile sgombrare per procedere al giudizio richiesto. »

 

La sofferenza, la salute, la guarigione o il dolore così come la morte riguardano tutti dal politico al medico al malato. Per capire, però, come meglio agire, inevitabilmente dobbiamo fare i conti con il pensiero. A questo è la filosofia che ci guida. La sofferenza non possiamo eliminarla ma possiamo cercare di comprenderla. E anche se ci sono dolori atroci, solo nell'unità con gli uomini, come Leopardi ci ha insegnato, possiamo ritrovare una serenità perduta. 

 

12 febbraio 2020

 








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