Wittgenstein e la musica

 

Per Wittgenstein la musica è forza del pensiero, come in Bach, di cui il filosofo esalta l’«immensa capacità di soffrire»; è una «manifestazione vitale dell’uomo», generante effetti diversi tra chi la comprende e chi non la comprende; è un linguaggio in periodo di emergenza, che rende difficile – se non impossibile – il confronto con le categorie del passato; è legata ai valori, e Wittgenstein riconobbe che il suo pensiero sul legame tra valori e opera artistica era ben più disilluso di quanto non lo fosse per gli uomini fino a cento anni prima: «nel mio spirito vi sono sfaceli che non erano in primo piano per loro». È un’arte, e Wittgenstein ci ricorda che «in arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dire niente». 

 

di Enrico Nadai

 

 

Il Tractatus, l’unica opera pubblicata in vita da Wittgenstein, è un testo breve il cui drenaggio argomentativo ha suscitato le lamentele di chi, a ragione, lo ha definito criptico.  Lo stesso autore ne era consapevole, ma non intendeva invertire i parametri stilistici o contenutistici dell’opera per favorirne la chiarezza. Alla discussione del lavoro di dottorato per l’Università di Cambridge, dopo un lungo esame con Russel e Moore, Wittgenstein diede un buffetto sulle spalle a entrambi avvertendoli di non farne un dramma se non avessero mai dovuto capire il suo libro. Diversamente dall’amico e compagno di divergenze Russell, Wittgenstein non ebbe mai una concezione matronale della filosofia, ma un approccio tendenzialmente deflazionista, potremmo dire quasi sminuente, accentuatosi nell’altra sua grande opera, le Ricerche filosofiche. Qui la filosofia viene presentata nella sua incapacità di proporre tesi: il massimo che le viene concesso è descrivere il linguaggio, senza che ne intacchi l’uso effettivo.

 

Come accennato in precedenza, la bussola che guida l’ontologia del Tractatus è la logica. Per il filosofo austriaco il nostro linguaggio è composto da proposizioni che raffigurano il mondo. Le proposizioni sono i nostri pensieri una volta che essi sono stati resi percepibili. I pensieri sono le immagini logiche dei fatti. Ciò che chiamiamo mondo è la totalità dei fatti. E in tal modo la realtà è dotata, nel suo insieme, di una forma logica. Affinché la teoria raffigurativa del linguaggio possa stare in piedi, dobbiamo escludere che le proposizioni dotate di significato siano semplicemente «un miscuglio di parole». Non diremmo mai, per esempio, “Susan mio il è nome”: suonerebbe il bizzarro discorso di una insensata. Diremmo piuttosto “il mio nome è Susan”. Questo perché gli elementi che strutturano la frase sono organizzati in maniera ordinata, così come – per Wittgenstein – i fatti della realtà constano di elementi ordinati nella trama delle loro relazioni. Lo stesso accade per il tema musicale: «Il tema musicale non è un miscuglio di suoni», è scritto nel Tractatus. Malgrado la musica, diversamente dal linguaggio, non abbia un carattere raffigurativo, essa esprime un aspetto strutturato, fatto di combinazioni tra sonorità. Ma il linguaggio musicale resta autoreferenziale nella sua intraducibilità in qualcosa d’altro. La corrispondenza tra proposizione e tema musicale ha portato ad una congiuntura tra il Tractatus e il Bello musicale di Hanslick. L’aspetto sintattico della musica enfatizzato da Hanslick, rappresentante del formalismo, fa in modo che anche nella sua analisi vi sia continuità tra il senso razionalmente compiuto di un gruppo di note e il senso razionalmente compiuto di un gruppo di parole. Il formalismo del teorico boemo, tuttavia, mirava ad uno sgretolamento dell’impatto emotivo suscitato dalla musica, a favore dei suoi esiti composizionali. Non si può dire che la pretesa di Wittgenstein potesse conformarsi a questo parametro, malgrado Bèla Szabados abbia rafforzato l’idea della sua aderenza alle teorie formaliste, asportando dalle proprie considerazioni il fatto che il filosofo austriaco non avesse mai voluto avanzare rivendicazioni scientifiche, come era invece nelle intenzioni di Hanslick, bensì più semplicemente rapportare al linguaggio proposizionale il linguaggio musicale e riconoscendo al secondo una logica assimilabile a quella del primo. È dunque lontana dal vero la diretta prossimità tra Wittgenstein e il formalismo musicale. 

 

V. Kandinskij, "Composizione VII" (1913)
V. Kandinskij, "Composizione VII" (1913)

 

Una diversa scala di valutazione verrà in luce con il pensiero seguente al Tractatus. Nelle Ricerche filosofiche, la teoria raffigurativa del linguaggio (picture theory), caratterizzata dal rapporto isomorfico oggetto-designazione, verrà meno. Le modifiche avvenute nel campo linguistico avranno ripercussioni sulle ripetute annotazioni musicali sparse cospicuamente nei Pensieri diversi. Il linguaggio è una forma di vita (lebensform); la denotazione non è il suo compito esclusivo, ma uno dei suoi diversi utilizzi tra i vari «giochi linguistici», come li nomina Wittgenstein. Ed è lo stesso filosofo a voler fornire delle definizioni che sfuggono però all’etimo stesso del de-finire come tracciabilità ultima di un limes. «Labirinto di strade… Vecchia città… Strumento…»: senza intenti riduzionisti, sono questi i riferimenti giustapposti al linguaggio per cercare di afferrarne almeno marginalmente la capienza concettuale. Si passa così dall’ipostatizzazione linguistica del Tractatus, dove il linguaggio è incagliato nel suo rendere conto alla realtà, alle Ricerche dove il linguaggio è fluido e mutevole, attenendosi ai processi evolutivi di ogni forma vitale. Il passaggio dall’«impiego metafisico» all’«impiego quotidiano» del linguaggio è il percorso a ritroso rispetto a quello indicato dal Circolo di Vienna che tanto aveva indorato Wittgenstein: l’utilizzo del linguaggio messo in atto dall’uomo della strada, il civile, dev’essere d’interesse per il filosofo, e non quello formalmente ripulito attraverso un risciacquo logico. Comprendere un linguaggio, allora, è l’essere padroni di una tecnica. «Anche del comprendere una frase musicale possiamo dire che è il comprendere un linguaggio», è scritto nelle Osservazioni sulla filosofia della psicologia. La comprensione è immanente al linguaggio: non ci sono paradigmi esterni a giustificarla. Il linguaggio, che appartenga alla sfera verbale o al campo musicale, è legato con le circostanze della nostra vita e con la cultura del gioco linguistico. Quando ci troviamo di fronte ad un tema musicale che “ci dice qualcosa”, non abbiamo bisogno di spiegarci il perché. Una proposizione o una composizione in musica dicono unicamente loro stesse. Non fanno altro che esprimersi rendendo immediata la percezione del loro significato. Per ciò Wittgenstein parla di «visione perspicua» (übersichtlich Darstellung), dove l’articolazione espressiva rende nitido il proprio significato e, al tempo stesso, l’intelaiatura delle sue relazioni. Se il Bello musicale di Hanslick mostrava avvedutezza per le sfaccettature formali delle opere musicali, lo sguardo wittgensteiniano tende ad aprirsi ad un panorama più ampio e meno lacunoso. Lo sguardo sull’arte, nel nostro caso sulla musica, non è ridotto soltanto alla sua costruzione, ma ci invita ad analizzarne la funzione sociale e il contesto culturale in cui si inserisce. Come il linguaggio dell’uomo civile, anche la musica assume significato sulla base delle pratiche sociali condivise, poiché soltanto nella proiezione di una specifica visione del mondo – e su questo Spengler insegnò molto a Wittgenstein – essa assume una rilevanza e un senso. Confrontando le melodie di Mozart e Schubert, Wittgenstein spiega che «osservando solo la successione dei suoni e i passaggi di tonalità, tutte queste forme appaiono senz’altro coordinate. Se però guardi il contesto in cui si trovano (cioè il loro significato), allora sarai portato a dire: qui la melodia è qualcosa di completamente diverso che là (qui ha un’altra origine, un altro ruolo, ecc.)» (Pensieri diversi). 

 

S. Dalì, "Musica - L'orchestra rossa" (1957)
S. Dalì, "Musica - L'orchestra rossa" (1957)

 

Kultur contro Zivilisation. Radicamento e crescita organica di una cultura in seno al popolo che se ne fa creatore e latore contro la cristallizzazione di ideali fattizi, artificiali e frammentari. Ci sono prassi linguistiche, riconosce Wittgenstein, che sono l’alimento rancido della Zivilisation, ovvero la meccanizzazione del nostro mondo con le rispettive ricadute. Come altri pensatori e artisti del suo tempo, il filosofo austriaco colse la difficoltà di una grandezza nella musica, nell’architettura e in filosofia. L’artista non è un intrattenitore o un missionario del rallegramento: è un educatore apertamente in contraddizione con la sua epoca. «Oggigiorno la gente è convinta che gli uomini di scienza siano lì per istruirla, e i poeti e i musicisti, ecc., per rallegrarla. Che questi ultimi abbiano qualcosa da insegnare, non viene loro neanche in mente», scrive nelle Vermischte Bemerkungen. Nell’epoca dell’artista mistagogo, queste parole potrebbero sembrare obsolete. Ma i poeti e i musicisti di cui parla Wittgenstein non sono gli offuscatori della Kultur, bensì coloro i quali svolgono un lavoro pedagogico di avvicinamento del pubblico alla sua comprensione e al suo apprezzamento, in assoluta fedeltà a loro stessi. Wittgenstein, riprendendo il gergo dell’autenticità, riserverà a più riprese parole sprezzanti verso Gustav Mahler, riscontrando in lui un talento assai raro nel riuscire a comporre cattiva musica ricercando forzosamente un confronto con l’arte precedente. Per spiegare il rapporto tra la musica passata e quella presente, egli scrive:

 

« La musica del passato corrisponde sempre a determinate massime del bene e del giusto della stessa epoca. Così in Brahms riconosciamo i principi di Keller, ecc. ecc. E perciò la buona musica composta oggi o di recente, che quindi è moderna, deve sembrare assurda, perché se corrisponde a qualcuna delle massime enunciate oggi dev’essere lerciume. […] Pressocché nessuno oggi è abbastanza intelligente da formulare ciò che è giusto e tutte le formule, le massime che sono enunciate, sono assurdità. La verità sembrerebbe a tutti affatto paradossale. E il compositore che la sente dentro di sé nel suo sentimento deve essere in contrasto con tutto ciò che viene ora espresso e quindi deve apparire assurdo, stupido, secondo le misure contemporanee. Ma non assurdo in modo attraente (perché questo è ciò che in fondo corrisponde alla concezione odierna), ma insignificante ». (L. Wittgenstein, Movimenti di pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937)

 

Riguardo a questa lunga citazione, possiamo integrare tre considerazioni: 1) in una riflessione contenuta nei Pensieri diversi sul «deforme nella musica», Wittgenstein commenta il parere di Grillparzer su Mozart; questi sostenne non vi fosse alcuna ammissione dell’orrido e della deformità nelle partiture mozartiane. In esse solo “il bello” vi era ospitato. Wittgenstein, ammettendo tale giudizio senza volerlo condividere «al cento per cento», approva che le massime di «giusto e bene» che hanno segnato la musica passata, convivano nel “bello” della musica di Mozart, ribadendo quella inscindibilità tra estetica ed etica che era il cuore pulsante delle Lezioni. 2) Quello che Wittgenstein riconosce nel succitato Brahms, oltre la vicinanza a Keller, è la «forza di pensiero musicale». Il lasciar parlare l’influsso altrui, senza che questo ovatti la personalità del singolo artista. Le provenienze esterne sono «gusci d’uovo», e non il nutrimento spirituale. Il gesto musicale di Mahler è più vicino ad uno scadente pot-pourri e ad un citazionismo carico di vanità, piuttosto che al prodigio di un pensiero musicale autonomo. In una suggestione, la differenza tra i due è che Brahms è il rappresentante di un «pensiero che lavora per arrivare alla luce». Quel che invece non si riscontra – per Wittgenstein – in Mahler. 3) La «concezione odierna», fatta propria da un certo tipo di arte, mira a rendere attraente l’assurdo, ovvero le massime formulate dal tempo moderno. Questo esercizio di attrazione, che ai nostri giorni è riscontrabile per esempio nel kitsch, è vicino a quell’«estetizzazione del mondo» di cui parlano Gilles Lipovetsky e Jean Serroy. L’arte, alleata con l’industria e con il consumo delle merci, trasforma in velleità ogni ambizione di cambiamento prospettico, ciò che per Wittgenstein potrebbe essere il vedere le cose nel giusto modo, per rendersi reiteratrice delle «misure contemporanee». 

 

Per Wittgenstein la musica è forza del pensiero, come in Bach, di cui il filosofo esalta l’«immensa capacità di soffrire»; è una «manifestazione vitale dell’uomo», generante effetti diversi tra chi la comprende e chi non la comprende; è un linguaggio in periodo di emergenza, che rende difficile – se non impossibile – il confronto con le categorie del passato; è legata ai valori, e Wittgenstein riconobbe che il suo pensiero sul legame tra valori e opera artistica era ben più disilluso di quanto non lo fosse per gli uomini fino a cento anni prima: «nel mio spirito vi sono sfaceli che non erano in primo piano per loro». È un’arte, e Wittgenstein ci ricorda che «in arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dire niente». 

 

19 febbraio 2020

 




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